La verità e il colore delle tende
Per Gasparri Fini doveva parlare due mesi fa. Per Bondi sono mancate «parole di limpida solidarietà» verso Berlusconi. Per Meluzzi è stato troppo «ansioso e incerto», perciò dovrebbe «fare la fine della Franzoni». C’è chi ha censurato le tende gialle sullo sfondo del video. Eugenio Scalfari si è rammaricato per il mancato divorzio. Neanche i blogger hanno gradito: “Il Post” ha criticato «l’uso reazionario delle opportunità della rete», Alessandro Gilioli ha scritto che il messaggio senza contraddittorio è stato un segno di arroganza, come «Al Zawahiri dalle sue grotte a Tora Bora».
Quando le critiche sono così uniformemente distribuite a 360 gradi significa che un problema c’è e merita un approfondimento non banale. Fini, credo, ha deluso chi si aspettava lo show-down politico e ha lasciato interdetti tutti gli altri perché in Italia è un fatto assolutamente senza precedenti il disvelamento del “privato” di un leader fuori dallo stereotipo della famiglia-modello o di altre tipizzazioni estreme (lo sciupafemmine, il trasgressivo, la casta diva, la velina grata o ingrata). Nella Prima Repubblica la dimensione del personale non esisteva. Nella seconda ha oscillato tra il Family day e il Decameron. Per la normalità non c’è spazio, almeno nel racconto pubblico. E l’idea che un leader chiuda una vicenda privata che lo ossessiona da due mesi dicendo banalmente la verità senza costruzione o sovrastruttura, senza melodramma e senza curarsi del colore delle tende, suona strana. La verità, da noi, è comunque costruzione mediatica: serve il cerone, la calza sulla telecamera, il ritocchino all’affresco sullo sfondo, e poi bisogna sembrare sempre in palla, “machi”, soprattutto quando c’è qualche milione di persone – potenziali elettori – attaccato alla rete.
E invece , come ha scritto Mario Giordano su “Libero”, «il povero Gianfranco sta lì su YouTube con la faccia nera e la bandiera bianca, pronto alla resa o almeno all’armistizio, con piccoli lampi d’orgoglio sepolti in un tono generalmente dimesso come la sua cravatta». Già, le cravatte di Fini, problema che ossessiona dalla famosa Direzione nazionale del dito alzato. Doveva metterne una più tosta, e magari battere un paio di volte il pugno sul tavolo. Strano che nessuno abbia suggerito di poggiarci una pistola: ma forse è solo perché lo ha già fatto Berlusconi.