Sul caso Cucchi giustizia pavida
Un ottimo modo per dimostrare la trasparenza delle intenzioni garantiste e/o legalitarie di larga parte della politica sarebbe quello, una tantum, di interessarsi delle sorti dei deboli e dei debolissimi. Sì, perché le cose che non vanno non sono solo nelle indagini sui potenti. A me, ad esempio, non convincono le conclusioni dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Le tredici richieste di rinvio a giudizio per agenti penitenziari, medici e infermieri hanno dribblato l’originale ipotesi di reato (omicidio colposo) per rifugiarsi in una serie di capi di imputazione periferici: lesioni aggravate, abuso di autorità nei confronti di arrestato, falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto in atti d’ufficio, favoreggiamento e omissione di referto. Mi stupisce anche l’assenza, nell’atto conclusivo dell’inchiesta, dei carabinieri che lo arrestarono e lo trattennero per una notte nella caserma di quartiere: diversi elementi (evidenti anche nella relazione di 348 pagine del Dap, disponibile sul sito dei radicali) indicavano una loro possibile corresponsabilità.
Personalmente, ho aderito fin dall’inizio al “Comitato per la verità su Cucchi” proprio perchè ritengo vicende come questa dirimenti per qualificare uno Stato di diritto, che non dipende dalla quantità di intercettazioni o di “sputtanamento” che il circuito giudici-media riesce a produrre ma dalla qualità delle istituzioni e dal loro rigore. Per scoprire la verità sulla morte di Stefano si poteva fotografare, registrare, spiare telefoni, residenze private, uffici e auto ad libitum, senza alcuna restrizione. La triste realtà, invece, è che senza gli scatti “rubati” dai famigliari l’inchiesta neanche l’avrebbero aperta. E non risulta nessuna particolare effervescenza investigativa sul fronte intercettazioni, anche se nessuna “legge bavaglio” vietava di farlo. So che è difficile e poco popolare dirlo, ma per costruire una giustizia seria non basta dare (o togliere) tutto il potere ai magistrati.