Referendum, trivelle e populismo

Se non venite da Marte, sapete che domenica 17 aprile si voterà per il referendum sulle trivellazioni richiesto da 9 regioni. Il Comitato per il Sì per fermare le trivelle (“Il petrolio è scaduto: cambia energia!”) conta oltre 160 associazioni, quasi tutte ambientaliste. Dall’altra parte vi è il gruppo per il No di matrice più tecnica, a cui partecipano, tra gli altri, il presidente di Nomisma Energia Davide Tabarelli, Rosa Filippini della direzione nazionale di Amici della Terra e Chicco Testa di Assoelettrica. Durante la campagna referendaria, come triste consuetudine da molti anni, una parte della sinistra ambientalista non ha lesinato populismi, disinformazione mirata e propaganda ingannevole in uno schema per cui i fini giustificano i mezzi, tutti. Quel che però lascia davvero l’amaro in bocca è constatare come anche i promotori del No abbiano fatto ricorso a populismi uguali e contrari. Ma andiamo con ordine.

1. Il referendum.
Il referendum del 17 aprile faceva originariamente parte di una serie di quesiti su questioni ambientali volti a contrastare i recenti cambiamenti del decreto “Sblocca Italia”, in particolare sulle prospezioni petrolifere. Qualora approvato, l’insieme dei quesiti avrebbe di fatto dato facoltà alle Regioni di bloccare piani e procedure del Governo centrale in caso di mancata intesa con i governi locali sulle decisioni di politica industriale e energetica. Quasi tutti i quesiti del pacchetto originale non sono passati al vaglio della magistratura, anche perché nel frattempo il governo di Roma ha introdotto aggiustamenti e modifiche alle leggi che si chiedeva di abrogare nella direzione richiesta dai referendum. È rimasto solo il quesito “no-triv”, relativo alle trivellazioni. Qualora vincesse il Sì, il referendum bloccherebbe il rinnovo delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle piattaforme marine entro le 12 miglia, anche per giacimenti in essere e/o ancora sfruttabili.

2. I numeri del referendum.
Volendo stimare la portata del problema, i dati ufficiali sono forniti dalla Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche (DGRME) del Ministero per lo Sviluppo Economico. La propaganda per il Sì ha fatto passare il messaggio che il referendum serva a bloccare l’estrazione di petrolio nel mare italiano. Secondo i numeri di Legambiente, invece, le piattaforme petrolifere entro le 12 miglia soggette a referendum coprono meno dell’1% del consumo nazionale di petrolio. Va da sé che per il petrolio i numeri in questione sono marginali. Per quel che concerne il gas naturale, i numeri delle concessioni per l’estrazione nazionale si trovano nella tabella sotto. Guardatela bene, poi facciamo alcune considerazioni.

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3. Cosa succede se vincono gli altri.
Brutalmente, se vince il Sì come proposto dai No-triv, alla scadenza delle concessioni esistenti le piattaforme attualmente in funzione entro le 12 miglia dovranno essere chiuse, anche se i giacimenti dovessero risultare ancora produttivi. La chiusura degli impianti avverrà nel corso dei prossimi anni (in genere, fra i 5 e i 10) con ovvii impatti negativi sull’occupazione locale, in particolare nell’area industriale di Ravenna, ma secondo i No-triv con beneficio per l’ambiente marino. Il mancato rinnovo delle concessioni condurrà inevitabilmente alla fine dei proventi e dalle entrate tributarie legate alle concessioni, mentre le aziende concessionarie semplicemente porteranno all’estero i loro investimenti legati alle attività estrattive. Altrimenti detto, stiamo parlando di un bruto spostamento della produzione di gas naturale dalle coste italiane verso altri Paesi, mantenendo il consumo a casa nostra. Un NIMBY (non nel mio giardino, Not-In-My-Back-Yard) in piena regola, fenomeno di cui l’Italia è vittima storica.

Guardando al lato energetico, come si vede nella tabella sopra, il quantitativo di gas naturale la cui estrazione verrebbe bloccata ammonta a 1.210 milioni di metri cubi (mmc) l’anno. Ammettendo che esso sia interamente impiegato per la generazione di energia elettrica, stiamo parlando di circa 5.2 TWh l’anno di energia elettrica prodotta. Seguendo la vulgata del modello tutto-elettrico-da-fonti-rinnovabili dei comitati ambientalisti, questo numero va confrontato coi 25 TWh prodotti dal fotovoltaico nel 2015. Altrimenti detto: per compensare il mancato volume di gas naturale con produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili si renderebbe necessario un aumento del 20% circa della potenza nazionale installata di solare fotovoltaico. Ora, è noto che la base installata di solare fotovoltaico in Italia cresce a ritmo dell’1-2% l’anno, anche senza incentivi. Considerando inoltre che il divario col gas potrebbe essere coperto da un mix di rinnovabili e efficienza, ne deriva che stiamo parlando di un obbiettivo certamente non impossibile. Il che evidenzia quanto siano sbilenche le catastrofi propagandate dai comitati del No. Va però notato che i numeri possono essere letti anche in senso inverso. Altrimenti detto, se è probabile che il mix energetico italiano finirà per scontare un aumento di rinnovabili e efficienza del 20% in 5-10 anni per pure logiche di mercato, qual è il valore di un referendum che si prefigge lo stesso risultato?

4. La logica del populismo
Come detto, il quesito referendario sulle trivellazioni è di natura molto tecnica e ha una portata circoscritta. Nelle dichiarazioni dei comitati referendari No-triv, invece, esso viene caricato di un significato ideologico fortissimo – i beni comuni, la purezza ecologica dell’Italia, la possibilità di una transizione energetica rapidissima (ma difficilmente reale) verso le energie rinnovabili – oltre a una carica specifica contro il governo Renzi. Quest’ultimo è un tratto oramai tristemente comune a una parte della sinistra italiana, per cui tutti gli argomenti sono buoni per fare opposizione interna, soprattutto a Renzi, anche a danno di cause meritevoli che diventano paraventi di interessi politici. Molto si potrebbe dire sulle contraddizioni dei No-triv, ad esempio la confusione sistematica tra fabbisogno energetico globale e elettrico, l’assunto ingiustificato che la penetrazione delle rinnovabili nel mix energetico nazionale possa crescere all’infinito, l’omissione dei noti problemi di intermittenza e accumulo delle rinnovabili. Questo al netto del fatto che molti “no-triv” si trasformano rapidamente in “no-pale eoliche” per motivi paesaggistici o in “no-campi solari” per la preservazione dell’agricoltura, sostenitori dell’ideale stanco di un mondo in cui la produzione di energia abbondante e affidabile non serve ma internet e gli smartphone continuano miracolosamente a funzionare.

Purtroppo è amaro constantare come anche le argomentazioni pro-trivelle dei comitati del No grondino di populismi uguali e contrari. Alla vittoria dei Sì farebbero infatti seguito disastri economici per l’intero comparto industriale nazionale (sic!), enormi aumenti delle importazioni (e della dipendenza) di gas naturale da Putin o dalla Libia (ri-sic!) o financo novelli colonialismi energetici a danno dei paesi poveri (ri-ri-sic!). Non è così. Numeri alla mano, la portata del referendum è circoscritta. Anche in caso di vittoria dei Sì, l’eventuale chiusura delle piattaforme marine di cui sopra avverrebbe progressivamente. È dunque chiaro che si tratta di un problema importante ma gestibile, con buona pace dei catastrofismi economici e industriali degli “ottimisti e razionali”. Il problema di questo scontro tra populismi è che si rischia di contrapporre in modo manicheo industrialisti d’annata a ecologisti utopisti, entrambi col loro fardello di irresponsabilità sociali. Da una parte le magnifiche sorti progressiste dello sviluppo che non ammette pause, dall’altra il pauperismo ingenuo ma rassicurante della decrescita felice dei conservatori benestanti. A farne le spese non può che esserne il Paese. Quello vero.

5. Tirando le somme
Chiudere anticipatamente le piattaforme estrattive entro le 12 miglia significa aumentare le importazioni di gas naturale e petrolio, almeno nel breve periodo. Tuttavia, come visto sopra, questo non rappresenta necessariamente un disastro ma solo un problema transitorio che andrebbe opportunamente gestito, probabilmente con qualche vantaggio di ritorno per l’ambiente marino. Certo la Strategia Energetica Nazionale è importante, ma dovessimo dare un consiglio al Governo sarebbe di affrontare comunque il problema della transizione energetica verso le rinnovabili, senza indugi, qualunque sarà il risultato del referendum. Questo significa, ad esempio, aumentare progressivamente gli oneri delle concessioni nazionali per l’estrazione di gas naturale e petrolio, oggi tra i più bassi in Europa, possibilmente utilizzando i relativi proventi non tanto per ulteriori e dissennati incentivi alle rinnovabili, quanto per ricerca e sviluppo sulle tecnologie di accumulo energetico, o per creare una rete di distributori elettrici capillare e alla portata di tutti, o per incentivare la trasformazione degli impianti termici dal gas alle pompe di calore elettriche. Insomma, non ci sono bacchette magiche e la strada è lunga, ma la direzione indicata è certamente quella.

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[Si ringrazia il sempre ottimo Corrado Truffi, co-autore di questo articolo]

Filippo Zuliani

Fisico, ingegnere, analista e acciaista. Vive e lavora in Olanda, tra produzione industriale e ricerca universitaria. Sul suo blog parla di energia, materie prime, materiali, trasporto più qualcosa di economia e storia. Sperabilmente con senno.