Energia e crisi industriale
Il progresso tecnologico ha reso possibile l’estrazione di gas e petrolio da rocce precedentemente improduttive, gli shale, dando inizio alla golden age del gas naturale nella quale ci troviamo ora. Fiumi di parole sono stati scritti sullo shale gas, cambiamenti geopolitici e sfide energetiche e ambientali nell’utilizzo della nuova fonte d’energia già discussa a suo tempo su Il Post. Sono invece meno noti gli effetti della rivoluzione dello shale gas sull’economia.
Il World Energy Outlook (WEO) è un documento pubblicato annualmente dalla International Energy Agency (IEA) contenente proiezioni del consumo di energia a livello mondiale per i prossimi 25 anni. Il WEO 2013 pubblicato pochi giorni fa ha gettato ombre molto lunghe non solo sul futuro energetico europeo ma anche sul mercato del lavoro da esso dipendente. In breve: siccome un lavoratore su quattro dell’industria mondiale è occupato in settori energivori, il WEO 2013 stima che gli elevati costi dell’energia in Europa si rifletteranno in una perdita di competitività del settore industriale europeo sul mercato globale, quantificando un calo delle export di circa il 30 per cento. Altrimenti detto, il WEO 2013 prevede per l’Europa una bomba occupazionale innescata dagli alti costi dell’energia.
Andiamo per gradi. Nell’industria energivora la voce “costo dell’energia” ricopre ogni anno una parte più che consistente dei costi di produzione. La chiacchieratissima rivoluzione dello shale gas ha inondato gli Stati Uniti di energia a basso costo. Il prezzo del gas naturale in America è sceso a un livello tre volte inferiore (!) rispetto all’Europa. Corrispettivamente, il costo dell’energia elettrica – in cui il gas naturale è attore principale nel mix di produzione – si è assestato alla metà (!) del costo europeo. Purtroppo non si tratta di una contingenza di mercato. Secondo le stime della IEA ci vorranno 20 anni per un riallineamento dei prezzi solamente parziale. Altrimenti detto, oltre a dover affrontare i già annosi e conosciuti problemi interni – burocrazia, confusione normativa, alto costo del lavoro, crollo della domanda interna – le industrie energivore italiane si troveranno a dover competere con aziende d’oltreoceano che sguazzano nell’energia a basso costo.
Più in dettaglio, le industrie energivore sono raffinerie, chimica e petrolchimica, acciaio e alluminio, cemento, carta e vetro. Gli input energetici sono generalmente diversi – petrolio, gas naturale, carbone, elettricità – sui quali la rivoluzione dello shale gas ha un impatto altrettanto diverso. Per analizzare la situazione ci vengono in aiuto il bilancio energetico nazionale e una utile pagina internet di ENI contenente tutti fattori di conversione tra diverse fonti di energia.
Petrolchimica. L’industria petrolchimica si occupa della produzione di prodotti base delle plastiche come etilene e polistirene a partire da gas naturale o dalla distillazione del petrolio. Gli impianti petrolchimici assorbono, in particolare, nafta, propano e butano. La miscela di propano e butano è quella che normalmente chiamiamo GPL. Guardando proprio al GPL si nota che il costo di propano e butano è crollato negli Stati Uniti per effetto dell’aumento della produzione di shale gas. Numeri alla mano, il costo medio negli USA è di 540 dollari alla tonnellata, contro gli 800 dollari in Europa, circa il 30% in meno. Non è un caso che negli USA vi siano progetti di investimento davvero grossi. Una produzione di shale gas europea probabilmente aumenterebbe anche la produzione di propano e butano, con effetti benefici sull’industria petrolchimica, ma siamo ancora lontani.
Fertilizzanti. Nella produzione di fertilizzanti, l’energia viene principalmente utilizzata nel processo di sintesi dell’ammoniaca, attraverso l’uso di gas di sintesi (syngas) ottenibile dal metano. Anche qui, un abbattimento del costo del gas naturale per effetto dello shale gas porta a un consistente risparmio dei costi di produzione.
Alluminio. Il processo di produzione dell’alluminio si svolge essenzialmente in due fasi. Nella prima fase (chimica) la bauxite viene frantumata e fatta reagire per ottenere ossido di alluminio. Nella seconda fase (elettrolitica) l’alluminio puro viene separato dall’allumina e ridotto a metallo fuso da colare. Nella fabbricazione dell’alluminio è necessaria abbondante energia elettrica (15-20 MWh per tonnellata) e il costo dell’energia influisce per il 35-40 per cento sul totale. La delocalizzazione dell’industria dell’alluminio, alla ricerca di paesi dove l’elettricità costa meno, sfortunatamente è già una realtà, e i problemi di Alcoa di circa un anno fa ne sono la dimostrazione plastica.
Cemento. Per poter ottenere clinker di buona qualità – il componente base nella produzione di cemento – è necessaria una temperatura di 1400 gradi e, ovviamente, molta energia. L’industria del cemento italiana fa uso di carbone derivato dalla distillazione di petrolio (pet coke) prodotto da raffinerie con impianti particolari (in Italia solo a Gela). Il pet coke viene importato principalmente dagli USA, dove costa circa il 30 per cento in meno che in Europa e costituisce il 60 per cento dell’energia impiegata nella produzione di cemento. Il restante 40 per cento è gas ed energia elettrica, ambedue assai economici in USA per la rivoluzione dello shale gas.
Ferro e acciaio. Negli impianti industriali ad altoforno (es. ILVA) la produzione di acciaio avviene tramite un processo di riduzione degli ossidi di ferro ad alta temperatura. La temperatura negli altoforni raggiunge i 1600 gradi. Senza girarci attorno, il problema della produzione di acciaio con altoforni convienzionali è il coke. Prodotto dai carboni bituminosi, il coke è un combustile ad alto contenuto di carbone prodotto nella cokeria – quella che tanti problemi ha causato alla messa a norma ambientale di ILVA. Dal disaggregato dei costi di produzione dell’acciaio per impianti ad altoforno si vede come proprio il costo maggiore deriva proprio dal coke, mentre l’energia elettrica conta per un 8 per cento circa. Contrariamente alle conclusioni del WEO 2013, il risparmio spuntabile sul costo di produzione dell’acciaio per il minor costo dell’elettricità non sembra essere sufficiente a giustificare una delocalizzazione della produzione di acciaio in USA.
Carta. La produzione di carta è un processo energivoro, principalmente gas naturale e elettricità. E torniamo come sopra.
Quello che dovrebbe preoccupare, però, non è tanto la possibile delocalizzazione degli impianti industriali, quanto la scarsità di investimenti che l’Italia saprà attrarre per sostenere la competitività delle aziende. Certo, è possibile che le vendite sul territorio nazionale vengano mantenute a colpi di dazi e barriere doganali, anche se la domanda interna è ora in crisi. Ma come si può esportare e confrontarsi con concorrenti d’oltreoceano che pagano molto meno l’energia e con costi di trasporto favorevoli a spazzar via la concorrenza? Non è certo nuovo che le raffinerie europee sono vecchie e a rischio chiusura per l’aumento di capacità in Medio Oriente e India. Non è nuovo che il settore petrolchimico Europeo stia cercando accordi con la Corea per restare a galla. Non sono nuove le convulsioni di Alcoa e dell’industria europea dell’alluminio e tanti altri esempi di crisi industriali sono probabilmente ascrivibili all’alto costo dell’energia.
Come se ne esce? L’Europa deve saper garantire prezzi dell’energia più bassi ma continuando la politica di riduzione della CO2 che ha giustamente intrapreso, seppur isolata dal resto del pianeta. Al momento i due obiettivi sono discordanti: o si vira verso meno CO2 ma con prezzi dell’energia in aumento (vedi alla voce sussidi al fotovoltaico) oppure si vira verso prezzi dell’energia inferiori ma con emissioni in crescita (ed è l’esempio delle recenti centrali a carbone in Germania). Durante la presentatione del WEO 2013 in Italia, il Ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato e l’AD di ENI Paolo Scaroni hanno suggerito un decalogo di soluzioni. Proviamo a guardarle, con un pizzico di pensiero critico e realismo.
1) Ridurre le emissioni derivanti dal gas bruciato nei pozzi e dal gas direttamente liberato in atmosfera – Purtroppo tali operazioni toccano ben poco il suolo europeo e dunque stiamo parlando di emissioni di altri, i Paesi produttori.
2) Promuovere l’efficienza energetica – Valida per taglio dei costi e delle emissioni, ma agire sull’efficienza energetica prende tempo.
3) Spegnere le centrali a carbone di vecchia tecnologia – Certo le emissioni di CO2 calerebbero, ma a che costo? Il carbone resta di gran lunga il combustile più economico.
4) Rimuovere i sussidi ai combustibili fossili – Purtroppo i sussidi esistono praticamente solo nei Paesi in via di sviluppo.
5) Riformare il sistema Emission Trading Scheme (ETS) – La lotta al riscaldamento globale potrebbe beneficiarne ma l’attuale sistema degli ETS si è finora dimostrato largamente inefficace e un costo degli ETS pagato solo dall’Europa non può che appensantire ancor di più la competitività industriale.
6) Estendere all’intero pianeta il meccanismo degli ETS – Chi convince Cina, Russia e tutti gli altri paesi ad aderire?
7) Puntare sulla ricerca – Ottimo, ma non risolve le problematiche del breve periodo.
8) Costruire nuovi gasdotti e rigassificatori – Diversificare fonti e approvvigionamenti diminuirebbe il rischio di restare al freddo, ma anche importando il gas liquefatto dagli USA i prezzi rimarrebbero tre volte superiori agli USA.
9) Costruire un Mercato elettrico Europeo unificato – Le stime parlano di un risparmio per l’Europa di circa 35 miliardi l’anno. Convincere i singoli Paesi non sarà semplice.
10) Sviluppare lo shale gas in Europa – Difficile che nel nostro continente si ottenga un’espansione su larga scala dello shale gas, per problematiche ambientali, di densità di popolazione e di legislazione. Ne abbiamo già scritto a suo tempo proprio qui su Il Post.
In conclusione, l’unica idea concreta del Min. Zanonato e Paolo Scaroni sembra essere l’efficienza energetica, sulla quale siamo giustamente già attivi. Alcuni temi sollevati sono interessanti – mercato unico Europeo dell’energia e shale gas Europeo su tutti – altri sono di dubbio impatto o non primari per l’Europa. Lo scenario indicato dalla IEA per l’Italia e l’Europa è decisamente sconfortante: industrie che chiudono o cercheranno di delocalizzarsi, zero investimenti e migliaia di persone in cassa integrazione. Dunque, che facciamo? Probabilmente una risposta non è al momento possibile. Non ce l’ha il Parlamento Europeo, non ce l’ha il Ministro dello sviluppo Economico, non ce l’ha praticamente la IEA. Certo è che se non affrontiamo la questione energetica seriamente, con scelte ponderate, evitando ideologie spicce quali fotovoltaico=bello, fracking=brutto o bannerini su Facebook, di fatto accettiamo la creazione di una intera generazione di disoccupati. Certamente non una decrescita felice.
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[Si ringrazia il blogger Energisauro, co-autore di questo articolo]