«Stròlego stranbo e romit»
Da questi monti sorgenti dall’acque sembra lontanissimo il Veneto del 75%, il Veneto delle Olimpiadi e del turismo, della Pedemontana e del Vinitaly. L’uomo che mi parla sul lago di Revine è il poeta Luciano Cecchinel (1947), Premio Viareggio di quest’anno, colui che in poche ma intensissime plaquettes ha saputo dare cittadinanza agli elementi della perdita e del tragico in una terra sempre pronta a reprimerli o rimuoverli in un ghigno sardonico o sotto una maschera sfuggente.
Più ctonio, chiuso e “implosivo” (ma anche meno ermetico e compiaciuto) del suo conterraneo e maestro Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo è appena oltre le colline), Cecchinel non si è mai contaminato con le grandi città, le case editrici, i salotti letterari, rimanendo fedele a un luogo appartato che è anche metafora di una cultura perduta, di una storia sempre più dimenticata. Un luogo nel quale – sia chiaro – è tutto fuorché pacificato: «no sté vardarne par stravès / par che no ston ben gnesuloc» («Non guardateci di sbieco / perché non stiamo bene in alcun luogo»).
Siamo a un passo da Vittorio Veneto, ma benché il suo nonno paterno sia morto a Caporetto, la guerra di Cecchinel è la seconda, vissuta dal padre come capo partigiano della Brigata Piave e dalla madre Annie in una perigliosa ambasceria al castello di Conegliano, quartier generale nel ’44 della X Mas di Junio Valerio Borghese – il piccolo Luciano vedrà per anni nel salotto di casa lo stendardo della Brigata con le stelline dei 44 caduti e le medaglie dei decorati, ma un giorno in una spelonca s’imbatterà nelle ossa di un gruppo di fascisti orrendamente trucidati dai partigiani (diventeranno Le voci di Bardiaga, raccolta in lingua del 2008): per sovrammercato, nel turbolento Dopoguerra vivrà le ambasce politiche di suo padre (uomo moderato e scevro di rancori, stroncato da un infarto su questi monti durante una celebrazione del 25 aprile), giungendo a lanciarsi egli stesso nella lotta politica, e facendosi eleggere, a soli 23 anni, come sindaco di Revine in quota alla sinistra democristiana per un effimero mandato.
Deluso dall’avventura politica, ripiegato sul mestiere d’insegnante, Cecchinel non smette di percepire la sofferenza, l’usura di questo vivere veneto nel progresso scorsoio che fiorisce di capannoni, che aggrotta il passato sotto acervi di nuovi denari. «Mi son l’ultimo vecio de sto paese» scrisse anni fa: e ora qui sul lago, con il suo accento greve che screzia il forbito italiano punteggiato di un sornione latinorum, mi spiega come intendesse quella sua vecchiaia interiore di «stròlego stranbo e romit» («stregone strambo e solitario») nel senso dell’autoemarginazione di chi respinge l’entusiasmo dei molti per non ripudiare la sua prima sostanza, la sua eredità: quell’assetto etico-sapienziale intriso di umiltà e tenacia (irrimediabilmente compromesso, dopo gli anni ’70, dall’emergere di un protagonismo arrogante e omologato), e quel dialetto antico, aspro, petroso, consonantico, «la to pore lengua» dei primi versi, da Al tràgol jert (L’erta strada da strascino, edita nel 1980 da una cooperativa agricola di Pederobba!) fino a Sanjùt de stran (Singhiozzi di strame, Marsilio 2011), versi pieni di arbusti e foschie, di casère, zavariament (deliri) e gomitoli di vuoto: un mondo travolto dalla catastrofe ambientale ed ecologica che il più recente trionfo della monocultura intensiva del prosecco, lungi dal redimere, aggrava in un verde fasullo.
Ecco allora l’America: lassù sui monti c’era negli anni ‘60 una base militare degli yankees, da cui partivano i soldati per il Vietnam; e quaggiù tra le case di Revine-Lago c’erano dozzine di famiglie decimate dall’emigrazione negli States, a cominciare da quella del poeta stesso, la cui madre era nata in Ohio da un socialista emiliano partito nel 1905, arruolato dallo zio Sam nel ’17 per il fronte italiano e tornato oltreoceano con una Veneta di queste parti. Andate e ritorni di uomini e donne Da sponda a sponda (così s’intitola la fresca raccolta premiata al Viareggio: ma molti testi risalgono al primo viaggio/pellegrinaggio americano del poeta sul suo passato nel 1984) e Lungo la traccia (Einaudi 2005): nelle vicende della propria famiglia Cecchinel ripercorre le lacerazioni di una regione e di un mondo che pare aver dimenticato ogni cosa – la madre che trapiantata a Revine rimpiange la “patri” perduta e parla solo in inglese, la prozia che viceversa muore in un ospedale di Zanesville implorando di tornare in Veneto, la signora Ema Giustina che s’impicca per nostalgia nella sua farm dell’Ohio…
Tutto avviene in italiano (la lingua franca degli emigranti, contesta di lessemi e pericopi inglesi come nell’Italy pascoliano), tutto avviene a ritmo di jazz, di blues, di country, di pop in un precipizio tra lambrusco e acqua brillante, tra ippocastani e vetri di Murano, tra Walt Whitman, Woody Guthrie e Jimi Hendrix, tra identità frantumate e impossibili nostoi («e che poteva fare / di qua del grande mare / chi non poteva, / chi sapeva di non poter tornare»). E sui manifesti elettorali, ora, poco lontano da qui, “prima i Veneti”?
Provato da un ineffabile lutto personale (la sua Silvia dai fiori di brina, che nemmeno l’America seppe salvare), dall’arsura di un tempo di pace in cui si continua a scontare la guerra, e da una precaria, posticcia ricchezza in cui si sconta la povertà d’animo, Luciano Cecchinel si appoggia sulla staccionata che dà sul lago con le papere e gli ultimi bagnanti di una lunga estate. Ha l’aria grave di chi non ha lezioni da dare ma sensazioni da trasmettere, esperienze da ricordare sottovoce, sempre a contatto con questa terra. «Come all’azzurro del lago / si giunge quello del cielo / solo essere / l’aria, l’acqua di ieri: / il vento, le onde un sempre prima».