Ho letto le motivazioni

Premetto – anche se non mi piace, mi sa di premessa paracula – che secondo me Berlusconi è colpevole: ma lo direi agli amici, ne parlerei al bar, va da sè che non sarei minimamente in grado di dimostrarlo: che è ciò che conta in tribunale. Ecco: secondo me neppure la Cassazione e i vari tribunali di Milano l’hanno dimostrato. E mi lascia basito anche anche che giornaloni autorevoli – penso al Corriere della Sera e all’articolo di Luigi Ferrarella che è stato linkato sul Post – abbiano scritto che Berlusconi «sapeva», «faceva» e che questo sia stato probatoriamente dimostrato. Lo dico dopo essermele lette tutte, le sentenze: e non lo è.

Poi io penso che Berlusconi sia colpevole, ma lo dico solamente, al limite lo scrivo e lo argomento basandomi sulla mera probabilità e sulla logica quotidiana: ma non sono argomenti da tribunale.
Parentesi: per leggere le motivazioni della sentenza (208 pagine in giuridichese) tra l’altro ho impiegato un pomeriggio, dunque avrei il piacere di complimentarmi con quanti – tra questi Guglielmo Epifani, Fabrizio Cicchitto, Danilo Leva e molti altri – l’hanno commentata a botta caldissima, il che significa che in precedenza erano riusciti anche a leggerla. Una capacità di lettura da scanner umani. A meno che – ma non posso crederlo – i citati si siano limitati a leggere gli stringati articoletti pubblicati immediatamente in rete: i quali a loro volta erano meramente copiati – tutti – dall’articolo di Dario Ferrara pubblicato su Cassazione.net. Perché oggi, siccome bisogna fare in fretta, l’informazione funziona così. In compenso venerdì mattina ho partecipato a un dibattito televisivo (Omnibus, La7) che originava appunto dalle motivazioni della sentenza: salvo scoprire, tra gli ospiti, che ero l’unico che le aveva lette. Oltretutto gli stessi ospiti, soprattutto Antonello Caporale del Fatto e Alessandra Longo di Repubblica, mi hanno anche spiegato che non le avevo capite bene. Può essere. Pazienza, le sentenze si rispettano. Si applicano. Io però lancio un’idea: si leggono pure.

***

Un libero, sin troppo libero convincimento del giudice. Anzi dei giudici, visto che tutto il collegio della Cassazione figura come estensore della sentenza. Una sentenza pedissequa, quasi in sudditanza psicologica verso i giudici dei gradi precedenti, oppure ecco, mettiamola così: senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza della Cassazione contro Silvio Berlusconi per frode fiscale appalesano meramente un’opinione, una gigantesca e apparentemente motivata opinione. Dopodiché, spiace dirlo, nelle 208 pagine della sentenza i cosiddetti «teoremi» e le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» abbondano eccome. Si tratta di capire, stringi stringi, in che misura sia inevitabile oppure prospetti una stortura.

La tesi confermata e non cassata, dunque, è quella che avrete letto e ascoltato a partire da ieri pomeriggio: fu lui, Berlusconi, a mettere a punto il «giro dei diritti» televisivi che aveva il fine di gonfiare i costi (suoi) attraverso vari passaggi tra diverse società fittizie; l’obiettivo era quello di esportare capitali, costituire fondi neri all’estero (specie nei paradisi fiscali) e naturalmente evadere il fisco; in pratica, gli uomini Fininvest trattavano con le major americane direttamente negli Usa ma poi, in un passaggio successivo, s’inseriva un’intermediazione che serviva solo a gonfiare le fatture (con soldi che in realtà rimanevano a Fininvest) e a inserire le cifre maggiorate nelle dichiarazioni italiane dei redditi. È stato ritenuto provato che una società d’intermediazione di Lugano, la Ims, fosse solo una società fittizia senza funzioni reali, solo la prosecuzione della vecchia «Fininvest service» svizzera. Di questo sistema, conferma la sentenza, Berlusconi fu l’ideatore e il beneficiario anche dopo la dismissione delle cariche sociali, tanto che, «conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti dal lui scelti», Ogni ipotesi alternativa, tipo che Berlusconi non sapesse e sia stato ingannato, denota «assoluta inverosimiglianza».

Ora: è attendibile che sia andata così? Fininvest adottò davvero questo sistema? Berlusconi ne era consapevole? Molto porta a crederlo: perché appare estremamente logico, anzitutto, e secondariamente perché centinaia di indizi confortano questa tesi. Ma si tratta, appunto, di un’opinione: il che non significa che sia anche provabile in un tribunale, e soprattutto non significa che sia provabile una diretta responsabilità del proprietario di Fininvest. La differenza tra un’opinione e un fatto provato non è solo rilevante in punto di diritto, ma lo diviene in modo particolare se l’imputato è a capo di una forza politica a cui fa riferimento mezzo Paese.

Per capire di che ambiguità stiamo parlando, tuttavia, facciamo parlare la sentenza. Questo passaggio, per esempio:
«Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo Fininvest, ma che erano vicine a Berlusconi, tanto da frequentarlo».Oppure: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in assenza di poteri gestori formali». Tutto stravero: e ciascuno, noi compresi, può farsi personali convinzioni in merito. Il che non toglie che queste, a esser pignoli, non sono prove: sono attribuzioni di una responsabilità oggettiva. Pagina 182: «Era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse di interesse della proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali». Forse era ovvio, ma compito di un tribunale non è stabilire che cosa è «ovvio» e che cosa «non è dunque verosimile» (ancora pagina 182). La Cassazione tuttavia si sofferma non poco sulla questione della «consapevolezza» di Berlusconi, benché mai provata: «La sentenza d’Appello», è scritto, «ha rilevato che rispondono del reato solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto… Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non in chi ne aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti». Traduzione: Berlusconi e non i suoi sottoposti, pur non partecipando attivamente, aveva senz’altro «uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema», dunque sapeva. In questo, c’è da dire, la sentenza ricorda molto le motivazioni che il giudice Antonio Esposito aveva già anticipato nell’ormai nota intervista al Mattino, e sulla quale il Csm sta indagando.

Ora prendiamo un altro condannato del processo, Frank Agrama, principale intermediario dei giri di denaro e ritenuto una sorta di dipendente occulto di Mediaset; secondo la Cassazione (pagina 136) si denota la «mancanza di qualsiasi logica negli ingenti importi pervenuti all’imputato», cioè Agrama. Ma, anche qui: la mancanza di logica non è una prova, meglio, è una «prova logica». Una prova che in qualche caso, peraltro, non è proprio suffragatissima: «È del tutto evidente che Agrama ha agito da intermediario di comodo e, seppure non vi sia sicura evidenza bancaria, non resta che ritenere del tutto logico che… ». È evidente. Non resta che ritenere logico che.

Ma il capolavoro d’ambiguità è a pagina 184 della sentenza, e si riferisce alla «doglianza a lungo espressa dalla difesa sulla riduzione delle liste testimoniali: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l’assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Rileggere per credere. In altre parole non compaiono compiute risposte, in tutta la sentenza, alle principali opposizioni avanzate dalla difesa: che mai Berlusconi si occupò concretamente di diritti televisivi, che mai si occupò neppure degli organigrammi societari e tantomeno delle denuncie dei redditi e delle scelte finanziarie; che tutti i testimoni hanno confermato questo – ciò che conta in un’aula giudiziaria, al di là de ogni «verosimiglianza» – e soprattutto che i denari derivanti dalle plusvalenze sui diritti televisivi rimanevano in mano a questo Frank Agrama, non a Berlusconi. Erano soci occulti? Pare verosimile anche questo: ma prove (vere) non ne sono spuntate.

Una sentenza, dunque, buona per riaprire un vecchio dibattito: su che cosa sia effettivamente una «prova» e su quale sia, oggi, il ruolo di una Cassazione che appare ambiguamente divisa tra legittimità e merito. Tantopiù in questa sentenza nel complesso deludente, che non passerà certo alla storia della giurisprudenza: non solo perché è ricalcata sul giudizio d’Appello che a sua volta ricalcava quello di primo grado, ma perché lo fa anche piuttosto maldestramente. Il procuratore Antonio Esposito e i suoi colleghi, nelle loro 208 pagine, si atteggiano formalmente a controllori ma poi è come se sbracassero, come se cedessero a un tifo sfegatato per la sentenza che hanno confermato e di cui non fanno che riportare stralci. Pagina 136: «… non intacca in alcun modo la ricostruzione effettuata dai giudici di merito, e che questa Corte di legittimità condivide». Ancora: «Lo spazio e l’attenzione che i giudici di merito hanno dedicato alla figura di Frank Agrama, con argomentazioni logiche e convincenti, sono di tale ampiezza ed approfondimento da consentire a questa corte di legittimità di affermare che il complesso probatorio a lui ascritto è di particolare consistenza». Pagina 186: «Si è ritenuto di riportare integralmente le conclusioni formulate dai giudici di merito per poter affermare che sono del tutto conformi alle plurime risultanze probatorie». Insomma, la Suprema Corte dovrebbe limitarsi ad assicurare la corretta osservanza e interpretazione delle norme di diritto, tanto che le sue sentenze, poi, diventano un orientamento della giurisprudenza nazionale. Difficilmente accadrà in questo caso, visto che – con rispetto parlando – è palese un compiaciuto e mero copia & incolla della sentenza d’appello. La difesa, perlomeno, attendeva qualche risposta giuridica circa l’impossibilità, sostenuta dagli avvocati Coppi e Ghedini, di configurare in punto di diritto il reato contestato a Silvio Berlusconi. Non hanno ottenuto neanche questo. Sarà stata la fretta.

***

Mi permetto di riportare lo stralcio di un’intervista al professor Franco Coppi (legale di Berlusconi in Cassazione) fatta da Virginia Piccolillo e pubblicata sul Corriere della Sera di sabato 31 agosto.

Professor Coppi, la motivazione è stata molto pesante per un uomo di governo: Berlusconi è stato l’«ideatore» di una frode carosello di cui sarebbe beneficiario.
«Per questo parliamo di argomentazioni lontane dalla realtà. Si diffondono nella presunta frode di vent’anni prima e con una gran galoppata saltano tutta una serie di problemi dimenticando che l’oggetto del processo era l’indicazione di quote di ammortamento nella dichiarazione dei redditi degli anni 2002-2003».
E le «operazioni inesistenti»?
«Se ne continua a parlare dimenticando tutte le questioni giuridiche che erano state prospettate proprio per dimostrare l’insussistenza delle cosiddette operazioni inesistenti. E nonostante ci fosse la testimonianza di un funzionario Fininvest mai indagato, che aveva detto di essere stato lui a stabilire la ripartizione degli ammortamenti».
Ma Berlusconi viene ritenuto il dominus dell’azienda.
«Sì, senza tenere in nessun conto la gran messe di testimoni che avevano dichiarato come lui non si occupasse da tempo delle questioni quotidiane. Se si voleva sostenere che invece aveva dato disposizioni, ordini, occorreva dimostrarlo. Insomma, deludente».
Non dica che non se l’aspettava.
«Non mi aspettavo assolutamente una sentenza del genere e soprattutto che ad una serie di questioni non venisse data alcuna risposta. La questione giuridica dell’abuso di diritto, laddove noi sostenevamo che non si potesse parlare di illecito penale, viene totalmente ignorata. Magari in negativo mi aspettavo argomentazioni giuridiche. Ho parlato per due ore. Ma è come se neanche avessi aperto bocca. E le assicuro che sono in grado di rendersi conto se gli argomenti che espongo meritino o meno risposta».
Nelle motivazioni non si rintracciano le anticipazioni di Esposito.
«Non posso certamente dire che sia stata lanciata una ciambella di salvataggio, ma posso sicuramente affermare che le esternazioni del presidente Esposito sono smentite da quanto risulta negli atti processuali».
Comunque le motivazioni le ha firmate l’intero collegio.
«Questo si può valutare in vari modi. Ci vorrebbe un supplemento di intervista, che qualche altro consigliere ci dica come è andata».
Ovvero?
«Può essere che tutti la condividessero, ma potrebbe anche darsi magari che qualcuno non fosse d’accordo e abbia preteso una esplicita condivisione di responsabilità».

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera