Ba-cio, ba-cio
Magari l’avete rivista ne Il divo, la scena del bacio che secondo il pentito Baldassarre Di Maggio ci sarebbe stato tra Giulio Andreotti e Totò Riina: l’emblema della contiguità tra la politica e la mafia, l’immagine che tramortì l’immaginario dell’opinione pubblica e alimentò titoli di giornali in tutto il mondo, e poi vignette, battute, i più luciferini luoghi comuni sull’autentica e corrusca natura di Andreotti.
Ai tempi, tra addetti ai lavori, circolava un tomo pubblicato da Pironti che simboleggiava una stagione non solo editoriale: La vera storia d’Italia, sottotitolo Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana. Ecco: il macroscopico errore della procura, il vero boomerang di tutta l’inchiesta, insomma il bacio, nel tomo è descritto in tutti i suoi supposti particolari. Si accennava al 20 settembre 1987 come «una delle possibili date dell’incontro tra Andreotti e Riina», durante la Festa dell’Amicizia della Dc di Palermo, ma non si escludevano altre date: lo statista a loro dire poteva muoversi «senza lasciare alcuna traccia» con possibilità di «sottrarsi al controllo delle scorte». Dall’ora di pranzo al tardo pomeriggio, si leggeva, «nessuno è in grado di riferire» i movimenti di Andreotti di quei giorni, tantomeno il fidato caposcorta Roberto Zenobi che seguiva il senatore dal 1977 e che fu definito dagli inquirenti come «supinamente fedele»: questo per via di un atteggiamento ritenuto forse poco collaborativo.
Il pentito Baldassarre di Maggio, invece, fu collaborativo. Era stato uno degli uomini più fidati di Riina. Il 15 gennaio 1993 aveva indicato ai magistrati l’abitazione segreta del capo di Cosa Nostra e ne aveva favorito la cattura dopo un ventennio di latitanza: insomma era credibile, o lo sembrava.
Notevole che a servire il «bacio» a Caselli, su un piatto giudiziario d’argento, fu il procuratore Giuseppe Pignatone, suo nemico storico assieme a Piero Grasso. Le dichiarazioni di Balduccio Di Maggio infatti furono rese inizialmente a Pignatone, che pure seguiva un altro filone. «Il verbale di Di Maggio ce lo portarono loro» ha confermato Gioacchino Natoli. Di Maggio, nel verbale, descrisse quando passò a prendere Riina e lo portò alla casa palermitana di Ignazio Salvo per favorire il mitico incontro. Ebbe luogo in soggiorno: c’era anche Salvo Lima, disse; «Riina saluta con un bacio su entrambe le guance prima Andreotti e poi Lima». Un’esibizione rituale che nel tomo, e nell’istruttoria, è descritta per una decina di pagine: quel bacio voleva far capire ad Andreotti, secondo i magistrati, che «egli non può prendere le distanze: deve sempre ricordare che lui e Riina sono la stessa cosa».
Col senno di poi, anche i magistrati – Gioacchino Natoli, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, oltre a Caselli – hanno riconosciuto che impelagarsi nella faccenda del bacio forse fu un errore. Caselli l’ha raccontato nel libro Andreotti di Massimo Franco (Mondadori 2008) e ha detto che l’episodio si poteva pure «tagliare», nel senso che non era poi così probatoriamente rilevante: c’era ben altro, a suo dire. Anche Lo Forte ha detto più o meno lo stesso: «L’elemento più sorprendente, il bacio, non ha giovato alla comprensione della vicenda giudiziaria, ha fatto perdere di vista all’opinione pubblica gli elementi più importanti».
Nelle pagine dell’accusa, però, di dubbi non ne trapelavano. Di perplessità non vi è traccia. Semmai, a rileggerle, affiora qua e là una certa esaltazione, una singolare determinazione, perlomeno una cieca fiducia nei propri mezzi. L’episodio del bacio, si legge, poteva essere capito solo da chi, come il pool dei magistrati, era in possesso di un «sapere specialistico» rispetto a un’opinione pubblica «priva di strumenti culturali» adeguati. Perbacco. E chi altri li possedeva, gli strumenti culturali adeguati? Secondo il fondatore di Magistratura democratica Livio Pepino, nel suo libro Andreotti, la mafia, i processi (Ega 2005) li possedeva il comico Ciccio Ingrassia: «Da siciliano vi dico che, se Andreotti e Riina si sono incontrati, si sono baciati».
Del resto occorre tenere conto del clima in cui nacque l’indagine: Andreotti a grande richiesta fu il titolo del Giorno di Paolo Liguori quando il senatore fu ufficialmente indagato. In quel terribile 1993 non sembravano esserci dubbi circa l’impossibilità di fermare la tempesta giudiziaria che si abbatteva finalmente anche su di lui: era lecito credere che il pool antimafia avesse la vittoria in pugno. Quello, del resto, era «il processo del secolo», e la potenza immaginifica di quel bacio non fece temere che ci si potesse infilare in un labirinto di date e contraddizioni come poi avvenne: da immagine-testimonial, quel bacio sarebbe divenuto un formidabile tallone d’Achille capace di trascinare il processo in un ingorgo di incertezza. Giancarlo Caselli ha trovato il modo d’incolpare la lingua biforcuta dei giornalisti: «Sono i media che hanno fatto diventare il bacio l’elemento essenziale per delegittimare il processo dall’esterno, sono i media che hanno scelto di concentrare l’attenzione su quel profilo e solo su quello». Sono i media che. Lo ha confermato anche Gioacchino Natoli nel libro di Massimo Franco: «È passata l’idea che il senatore abbia vinto, ma questo si deve esclusivamente al potere di suggestione dei media. La stampa e la Tv non hanno fatto il proprio dovere di informare correttamente». Nei fatti e nel tempo, però, quel bacio divenne un’arma nelle mani della difesa: e non certo per meriti giornalistici.
Per trovare riscontri al racconto del bacio gli inquirenti dispiegarono grandi mezzi. Ben trenta carabinieri che avevano scortato Andreotti furono convocati e trattenuti in uno scantinato e interrogati per ore. Fu un incubo, anche perché la prospettiva era quella di aver coperto un politico mafioso che da anni proteggevano anche dalla mafia. Tanti dubbi cominciarono a sorgere lì. Il principale teste di riferimento di Balduccio Di Maggio, pure, smentì l’episodio e non solo quello. Tante altre smentite ne sarebbero seguite.
Andreotti nel 1999 fu assolto in primo grado. Quell’anno l’Espresso intervistò Caselli e gli chiese conto di quel tomo, La vera storia d’Italia. Caselli prese le distanze. In quello stesso anno Andreotti raccontò che La vera storia d’Italia gli era stato regalato al momento di testimoniare: «Chiesi ai magistrati se fossero gli autori o gli ispiratori del titolo. Mi dissero di no, e convennero che non era un titolo appropriato». Ancora in quell’anno, il 1999, Giulio Andreotti compì ottant’anni. L’allora presidente del Senato, Nicola Mancino, gli disse: «Giulio, non ti bacio solo perché so che non ti piace».
Detto questo: se chiedi come è finito il processo Andreotti, in tutto il mondo, ti dicono che è stato assolto. Anche in Europa ti dicono che è stato assolto. Anche in Italia: a meno che appartengano a quella ristretta fazione appunto di faziosi (divisa tra una minoranza in malafede e una gregge di analfabeti funzionali) che ti spiega che no, non è stato assolto: perché ha «commesso» reati sino alla primavera del 1980 ma i reati poi sono caduti in prescrizione, ecco perché Andreotti non è finito in galera. Questo modo di vedere le cose, tuttavia, non rappresenta un diverso e magari più approfondito punto di vista: rappresenta un tentativo di mischiare le carte in tavola e di giustificare il più clamoroso fallimento processuale del Dopoguerra, un tentativo di mischiare il piano giuridico a piani morali e storici: col dettaglio che i tribunali esistono per occuparsi solo del primo.
In tutto il mondo civile gli status giuridici sono due: colpevole o innocente, meglio, colpevole o non colpevole. Andreotti è non colpevole. La sentenza del 2003 in Corte d’Assise d’Appello (poi confermata in Cassazione) dice che «il tribunale assolve Andreotti Giulio dalle imputazioni ascrittegli perché il fatto non sussiste». Assolve. Non colpevole. Non sussiste. Il che significa incensurato (a parte una piccola condanna per diffamazione, pare) e senza conseguenze penali o civili o di nessun genere. È ciò che un tribunale doveva stabilire nel dispositivo: e ciò che conta è il dispositivo.
Altri aspetti, fuori sacco e messi nero su bianco nelle motivazioni della sentenza, possono anche essere interessantissimi, politicamente maneggiabili, storicamente utilizzabili: ma prescindono dagli aspetti penali che un tribunale deve affrontare a dispetto di altre valutazioni. Si perdoni il paragone, ma è come mettersi a puntualizzare se una partita di calcio sia stata vinta con cinque gol di scarto o con uno solo, o ai rigori, per squalifica, a tavolino; resta che la partita alla fine qualcuno l’ha vinta, qualcuno l’ha persa, resta che negli annali le puntualizzazioni non ci sono. L’esito è uno solo: dopodiché si può discutere, e scrivere tutti i libri che si vogliono, fare simposi storici. Il mio giudizio politico e culturale su Giulio Andreotti, per esempio, rasenta l’orrore: ma qui si parla d’altro.
È vero che non è stata una partita di calcio, è vero che alcune delle accuse rivolte ad Andreotti, secondo il tribunale, sono storicamente fondate. Ma solo alcune, che peraltro sono di second’ordine rispetto alle principali (si fa per dire). È vero che nelle motivazioni della sentenza si legge di «un’autentica, stabile e amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». È pure vero, tuttavia, che l’architrave del processo che è stato al centro delle cronache – per anni – verteva su altro: su altri tempi e su altra mafia, su un presunto incontro tra Andreotti e Totò Riina, su favori e interessamenti che Andreotti avrebbe garantito alla mafia più moderna, assassina, corleonese: ecco, da tutte queste accuse Andreotti è stato assolto e basta, e questo in tutti i gradi di giudizio. Le accuse precedenti al 1980, che ovviamente possono pesantemente contribuire all’opinione che ci si fa di lui, riguardano una sua consapevolezza dei rapporti che il suo luogotenente Salvo Lima ebbe con un capomafia; riguardano un plausibile incontro di Andreotti con questo capomafia, circostanza in cui lo statista discusse del presidente della Sicilia Piersanti Mattarella prima che fosse assassinato nel 1980: ebbe, in pratica, un colloquio coi mandanti di un omicidio, e non lo denunciò alle autorità.
Sono fatti pesanti, tra altri. I giudici, nelle loro motivazioni penalmente irrilevanti, non omettono tuttavia che Andreotti cambiò poi atteggiamento e contribuì a varare una specifica legislazione antimafia oltreché favorire il rimpatrio di Tommaso Buscetta: «Un progressivo e autentico impegno nella lotta contro la mafia che ha in definitiva compromesso la incolumità dei suoi amici e perfino messo a repentaglio quella sua e dei suoi familiari». E questo è interessante: anche se, come detto, al nostro discorso non interessa. Interessa ripetere che, con la verità storica e la verità giudiziaria, non si può fare il gioco delle tre tavolette. Interessa ripetere che il definire Andreotti primariamente «colpevole» o «prescritto» è un falso che antepone profili extragiudiziari a una piena assoluzione giudiziaria. e questo per ragioni politiche o di strenua difesa di chi quel processo l’ha perduto: il procuratore Giancarlo Caselli e i suoi sostituti oltre all’apparato massmediatico che ancor oggi ricama distinguo. O, peggio, mente nella sostanza. Ancora nei giorni scorsi, sul solito Fatto Quotidiano, si scriveva questo: «Chi ha voluto delegittimare i magistrati di Palermo e osannare Giulio Andreotti ha sempre detto che è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa… Ma non è così». E invece è così. Giancarlo Caselli, che definisce Andreotti «colpevole fino al 1980», appartiene alla categoria del faziosi. Una come Giulia Sarti, deputata del Movimento 5 Stelle che ha parlato di «condannato prescritto per mafia», appartiene alla categoria delle ignoranti. Giulio Andreotti è morto incensurato, fine. Dire che l’avrebbero condannato se non fosse stato prescritto è come dire che l’avrebbero condannato se non l’avessero assolto.
(Pubblicato su Libero)