I 70 anni di Barenboim, ebreo wagneriano
Quindici anni fa me la tiravo da esperto musicale e ancora scrivevo «Daniel Baremboim» anziché «Barenboim» come è corretto, al punto che fare una ricerca nel mio stesso hard disk è diventato complicato. Sta di fatto che questo signore ha compiuto 70 anni – è nato il 15 novembre 1942 a Buenos Aires – e sbagliare non si può più, perché intanto è diventato uno dei direttori e pianisti più famosi al mondo (trascurabile come pianista, ma questo è un parere molto personale) e da anni è di casa alla Scala di Milano. In realtà nessuno pensa che sia proprio un argentino: perché è il classico ebreo cosmopolita, berlinese d’adozione, con il vezzo dell’impegno politico soprattutto per la pace in Medio Oriente.
A Barenboim piace porsi come intellettuale a tutto tondo e che tiene, insomma, ad occuparsi anche d’altro: una tipologia di cui il primo a diffidare, in genere, sono io. Ammetto che, nonostante abbia letto tutti i suoi libri e lo giudichi tutt’altro che uno stupido, e nonostante il personaggio sia stato in grado di coniugare musica e impegno civile senza esiti vacui o retorici, credo ancora che la sua opera di pacificazione israelo-palestinese talvolta presti il fianco a un certo velleitarismo tipico degli «artisti» e distragga dalla missione musicale: fatti suoi se ha deciso di prendere il passaporto palestinese e se ha deciso di fondare, tra mille altri impegni, anche la West-Eastern Divan Orchestra che riunisce musicisti israeliani e palestinesi e arabi: basta che i ragazzi suonino bene.
Diverso è il discorso che riguarda la passione smodata di Berenboim per Richard Wagner: sia perché un direttore che si accosti a Wagner in maniera equilibrata deve ancora nascere – e infatti anche Barenboim è, come si dice, un wagneriano «fradicio», malato di wagnerismo – sia perché a complicare le cose c’è che Barenboim è ebreo – molto ebreo – anche se ha scelto di risiedere in Germania mentre la ferita tra Wagner e Israele è ancora ben lontana dal rimarginarsi. Qualche polemica, su questo, è rimbalzata anche da noi: ricordo ancora quando la collega Fiamma Nirenstein (o ex collega, non so, perché a un certo punto è diventata parlamentare del PdL) scrisse di «irresponsabilità e violenza» per il fatto che Barenboim avesse scelto di accettare un passaporto palestinese, come detto. Ma il primo problema rimane Wagner, appunto.
Barenboim è l’uomo che nel 2001 infranse un inviolabile tabù e suonò Wagner in Israele, dov’era vietato eseguirlo. Lo scandalo che ne venne fuori l’ha inseguito sino a oggi, al punto da infastidirlo, o quasi, ogni volta che se ne riparla: senonché il primo a riparlarne in genere è proprio lui (ci ha scritto anche un ottimo libro assieme al filosofo Edward Said, ora deceduto) anche durante i simposi wagneriani ai quali partecipa regolarmente. Nel 2001, comunque, eseguì il Preludio e morte di Isotta di Wagner sotto forma di bis e lo fece dopo aver preavvertito il pubblico israeliano che era ben libero di lasciare la sala, ovviamente: ma se ne andarono solo una trentina di persone, e musica fu, dopodiché nacque un polverone alimentato soprattutto da intellettuali e politici. Ma è una storia che va ri-raccontata meglio.
Sino al 7 luglio 2001, in Israele, Wagner non era mai stato eseguito se non di nascosto. Barenboim era in tournée con la Staatsoper di Berlino e aveva messo in programma anche il primo atto della Valchiria wagneriana, ma ecco che il direttore del Festival di Israele gli chiese se fosse impazzito e gli intimò di sostituire, grazie. Barenboim formalmente lo fece: al posto di Wagner inserì Schumann e Stravinskij, alla fine, però, si rivolse direttamente al pubblico e andò come detto: qualcuno uscì ma altre 2800 persone non lo fecero e applaudirono il Maestro in lacrime. Dal giorno dopo fu l’inferno, al punto che il 25 luglio la commissione per la cultura e l’istruzione della Knesset additò «il compositore preferito di Hitler» e invitò a boicottare Barenboim se non avesse presentato scuse formali: altrimenti sarebbe stato espulso per sempre dalla cultura israeliana. Lui non si scusò mai. Era un cittadino di Israele a tutti gli effetti, anche se nato in Argentina, e in Israele era cresciuto dopo aver frequentato le scuole ebraiche. Una contraddizione? Non l’unica. Nei conservatori israeliani le partiture di Wagner venivano studiate ed eseguite; nei negozi di musica si vendevano dischi di Wagner eseguiti da Wilhelm Furtwangler (bacchetta prediletta di Hitler) e Herbert von Karajan (che aderì al partito nazista) e Carl Bohm (che faceva i saluti nazisti prima dei concerti) e così pure erano in vendita versioni wagneriane eseguite da altri famosi direttori ebrei come Bruno Walter o James Levine o Leonard Bernstein, i quali evidentemente tutta questa intransigenza non dovevano averla condivisa, e tantomeno dovevano averla confusa con chi – i nazisti, per esempio – di Wagner ebbe a servirsi. Nella Germania nazista del resto risuonavano anche Beethoven e Mozart, mentre la Passione secondo San Giovanni di Bach aveva un testo tra i più antisemiti possibili ma veniva eseguita lo stesso. Wagner invece no. Si aveva deciso – si ha deciso – che Wagner fosse e sia il simbolo dell’antisemitismo musicale. Se è vero che non sarà mai possibile scacciare una certa cultura tedesca dalla mente degli ebrei, un nome bisognava pur darlo, a questa cultura tedesca: ed è, o era, Wagner. Il resto non conta: non che la Suprema Corte israeliana abbia stabilito che la libertà di espressione debba applicarsi anche alla musica di Wagner, e non che le esecuzioni della sue partiture – recitava questa sentenza – non comportano danni ai sopravvissuti dello sterminio. E allora perché tanto odio? E perché proprio per Wagner? Ecco, forse è su questo che Barenboim – da me eletto a eroe del wagnerismo – tende un po’ a sorvolare.
È vero, Wagner era già morto prima che Hitler nascesse, ed è pure vero che il suo innegabile antisemitismo, ai tempi, fosse una regola nell’intera Europa cristiana. È pure vero che nessuna delle sue opere contiene elementi esplicitamente antisemiti, e che la musica, da sola, non può certo propugnare dottrine. Per altri aspetti Wagner sembrava fatto apposta per essere imbracciato dai nazisti come una clava, ma è anche vero che sicuramente ne abusarono ben al di là delle sue intenzioni. Wagner non disdegnò mai le donne ebree – artisticamente, sessualmente – ed erano ebrei anche i suoi direttori d’orchestra prediletti, dunque, in concreto fu antisemita sinché la cosa influì sulle sue tasche: un po’ come Beethoven che adulò Napoleone, Debussy che fu fervente nazionalista, Haydn che fu servile dipendente del principe, Bach che baciava ogni pantofola del potere. Tutto stravero: e ciò su cui Barenboim sorvola, infatti, è altro. Ed è complicato.
Si potrebbe raccontare che Winifred Wagner, nuora di Richard ed eroina del Festival wagneriano di Bayreuth sino agli anni Ottanta, nella sua corrispondenza adottava la sigla «Usa» che peraltro pronunciava soprattutto ogni 20 aprile, nel corso di un’incomprensibile festa: «Usa» stava per «Unser Seeliger Adolf» («il nostro caro estinto Adolf») e il 20 aprile era il compleanno di Hitler. Da qui anche il significato della cifra «88» che ricorreva sempre nei discorsi familiari dei Wagner: l’ottava lettera dell’alfabeto era la «h», dunque 88 era due volte «h», cioè «hh», cioè Heil Hitler. Questo non moltissimi anni fa, durante anni in cui Winifred continuava a cenare con Edda Göring e Ilse Hess. Del resto Winifred Wagner era stata un’amica sin troppo intima di Hitler: fu lei, durante la prigionia di quest’ultimo a Landsberg, nel 1924, a passargli ogni genere di aiuti e tra questi la carta su cui scrisse il Mein Kampf, il catechismo della gioventù hitleriana in cui oltretutto Wagner è descritto come un modello politico e culturale. Fu lei a ospitare il giovane Hitler appena uscito di galera e a spalancargli le porte della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, dove avrebbe trovato appoggi decisivi per la sua ascesa. Salito al potere, il Fuhrer le rivolgeva il baciamano e la chiamava «nobile signora»: diversi storici accenneranno a una precisa proposta di matrimonio che Hitler le avrebbe rivolto nel 1937, sette anni dopo che era rimasta vedova, così da saldare definitivamente il nazionalsocialismo all’icona wagneriana. Ma si potrebbe raccontare anche altro. Hitler, prima della guerra, riunì i fratelli Wolfgang e Wieland Wagner e disse loro: «Quando finalmente avremo ripulito il mondo da questi cospiratori ebreo-bolscevichi, allora tu, Wieland, dirigerai i teatri d’Occidente; tu, Wolgang, quelli d’Oriente». E si fa notare che Wolgang Wagner, morto di recente, era a capo del festival di Bayreuth sino a tre anni fa.
Ancora: Cosima Wagner, moglie di Richard, nel 1882 invocò la traduzione in tedesco del «Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane» scritto dal conte Joseph de Gobineau; Houston Stewart Chamberlain, i cui scritti sulla purezza della razza ariana avevano ispirato l’ideologia del nazismo, era il marito di Eva Wagner, e Hitler e Chamberlain si erano conosciuti a casa dei Wagner: a Bayreuth c’è ancora una via dedicata a lui, a Chamberlain.
La dinastia dei Wagner, insomma, fu un cuore pulsante del Terzo Reich e restò l’unico teatro che mantenne un’indipendenza artistica, questo mentre tutti gli altri diventavano strumenti di propaganda. La dedizione del Fuhrer al mito wagneriano era assoluta: ne ammirava gli scritti, ne imitava lo stile ampolloso, mise il compositore su un piedistallo e portò a sviluppi terrificanti alcuni elementi che negli scritti wagneriani erano magari solo accennati. Non c’è da stupirsi, dunque, se magari qualcuno non avesse tutta questa voglia di legittimare le musiche di un tizio le cui musiche, nei campi di sterminio, accompagnavano gli ebrei verso le camere a gas. Eppure non è neppure tutto qui, c’è ancora qualcosa che va oltre, qualcosa che oltrepassa i confini del razionale e meriterebbe una trattazione a parte. Wagner, per molti, resta diverso: la sua musica, che parla di foreste e di dei, non viene ritenuta extrastorica e autoreferenziale; molti, che mai lo diranno né lo scriveranno, pensano che la sua musica sia stata scritta per risvegliare negli animi tedeschi lo spirito di Sigfrido, come accadde all’epoca di Hitler. Una musica cioè ancora «storica» e funzionale a un mito: la musica di Odino. Molti ebrei si oppongono alle esecuzioni di Wagner perché non si intendono di musica, mentre altri, forse, perché se ne intendono anche troppo.
Problemi che oggigiorno, alla Scala, non si pone probabilmente nessuno o quasi. Richard Wagner, nell’anno di grazia 2012, male che vada, può essere soltanto un solletico oscuro, comunque sublime. Interessa molto di più che in questo 2012 si festeggiano due bicentenari, musicalmente: la nascita del tedesco Richard Wagner e la nascita dell’italiano Giuseppe Verdi. Ed essendo noi in Italia, con quale compositore il maestro Daniel Barenboim ha scelto di esordire alla Prima della scala del 7 dicembre prossimo?
Con Wagner, naturalmente.