Quel naso grifagno
Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione confermò gli ergastoli del maxiprocesso condotto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per Cosa Nostra fu un colpo mortale e questo fu un passaggio chiave della condanna a morte poi inflitta a entrambi i magistrati. Il 22 luglio 1992, invece, tre giorni dopo la strage di via D’Amelio, venne protocollata l’archiviazione dell’inchiesta «mafia e appalti» condotta ancora da Falcone e Borsellino: un procedimento a cui lavoravano vari carabinieri – alcuni dei quali oggi sono sotto accusa per la «trattativa» – e che aveva già prodotto un atto istruttorio di un migliaio di pagine; Borsellino, in particolare, si batteva per ottenere una serie di arresti che avrebbero sicuramente originato una versione siciliana della Mani pulite milanese. L’archiviazione, già predisposta il 13 luglio, fu favorita da quegli stessi colleghi magistrati che Borsellino in quei giorni accusava di averlo lasciato solo – la testimonianza è della moglie – e la morale è che quell’inchiesta morì prima di nascere. Anche questo, l’inchiesta «mafia e appalti», fu un passaggio chiave della condanna a morte inflitta a entrambi i magistrati: solo che di questo non parla nessuno, o quasi.
19 gennaio 1940. La madre di Paolo Borsellino era un bel tipetto: quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, vietò ai figli di accettare doni dagli americani. Anche il piccolo Giovanni Falcone era un bel tipetto: come Paolo era nato alla Magione, alle spalle della Kalsa, nel vecchio cuore di Palermo. I due avevano giocato e studiato insieme, i loro ricordi riaffioravano con battute e freddure che sancivano un’amicizia d’acciaio. Essere palermitani avrà la sua importanza.
12 novembre 1984. Che poi non significa che non avessero paura di nulla, i due. Dopo la cattura di Buscetta, nel 1984, Falcone e Borsellino furono costretti ad andare in Brasile: «Non farò dieci ore in aereo neppure con la camicia di forza», aveva detto Paolo. Le fece. E al ritorno, nel decollo da Rio, si scatenò un temporale terrificante. L’aereo traballava. Paolo guardava gli amici che lo rassicuravano: tranquillo, è tutto normale, normalissimo. Al secondo fulmine Paolo si girò ancora verso di loro, che ancora: è tutto normalissimo. E così altre due volte, sinchè l’aereo sobbalzò come un pullman che correva sulle pietre e un boato spaventoso fece tremare tutto l’abitacolo. E Paolo, con lo sguardo incazzoso: «Questo pure normale è?»
Gennaio-novembre 1985. Racconterà Paolo Borsellino al Csm: «Dal gennaio al novembre del 1985 non credo di essere uscito se non per 4-5 ore al giorno dal mio bunker senza finestre. O meglio: ne uscii perché dopo l’omicidio del commissario Cassarà io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo esseri segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se questa ordinanza non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno perché nessuno era in grado di metterci mano. Siccome io protestai, dicendo che questa decisione non doveva essere attuata immediatamente, perché Falcone è senza figli, ma io avevo famiglia e dovevo regolarmi le mie faccende, mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Sta di fatto che riuscii a ottenere 24 ore di proroga, ma dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le rispettive famiglie in quest’isola. Tra parentesi, io non amo dirlo, ma lo devo dire: tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara a lavorare per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta».
Racconterà Rita Borsellino, sorella di Paolo: «Lui non amava parlare molto dei suoi disagi. Era raro che della sua solitudine parlasse in famiglia, perché quando ci incontravamo c’era sempre nostra madre, e lui davanti a mamma non parlava. Quando dovette partire per l’Asinara per scrivere la requisitoria del maxiprocesso, le disse: ci portano in un posto, non posso dirti dove, non posso dirti quando, non potrò comunicare con te».
29 febbraio 1986. Si apriva il maxiprocesso alla mafia nell’aula bunker di Palermo, protagonisti i magistrati Falcone, Borsellino e Giuseppe Ayala. Giudice a latere era Piero Grasso. Le accuse includevano 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e il nuovo reato di associazione mafiosa.
16 dicembre 1987. La Corte d’assise comminò a Cosa Nostra 19 ergastoli in primo grado. Dei 475 imputati, 360 vennero condannati a 2665 anni di carcere. Tra gli assolti, diciotto vennero in seguito uccisi dalla Mafia, tra cui Antonino Ciulla, che fu colpito a morte un’ora dopo il rilascio, mentre tornava a casa per partecipare a una festa per la sua liberazione.
Ci furono incredibili attacchi democristiani e socialisti che giunsero ad accusare Borsellino e Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino non migliorò le cose.
Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra: parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Fu una delegittimazione terribile, come tutto il periodo che ne seguì. L’Unità e il Giornale scrivevano articoli durissimi. Si consumò persino una rottura tra i due amici inseparabili, proprio loro, Paolo e Giovanni: dopo che Falcone aveva accettato l’invito di Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, non bastasse, Borsellino fu il primo firmatario, assieme a Giancarlo Caselli, di un documento contro la superprocura di Falcone per com’era allora concepita: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi in data 23 ottobre 1991.
Marzo 1992. Quando Giuseppe Ayala lasciò il palazzo di Giustizia perché si era candidato al Parlamento, il dialogo con Borsellino fu surreale: «Non ti posso votare»; «Perché?»; «Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto». Tutto ovviamente sul filo dell’ironia, come per gli sfottò legati al passato di Borsellino da simpatizzante del Fuan: «Lo chiamavo camerata Borsellino», ha raccontato Ayala nel libro «La guerra dei giusti». «Ci rideva su, io entravo sguainando il braccio destro e lui rispondeva allo stesso modo». Amico vero di Borsellino del resto era Guido Lo Porto, deputato missino, oppure Giuseppe Tricoli, il professore di Storia con cui Borsellino passò l’ultimo giorno della sua vita.
19 maggio 1992. Borsellino rilasciò un’intervista a due giornalisti francesi. Per anni gli sarà attribuita la rivelazione che «nel 1980 la polizia intercetta Mangano al telefono con Dell’Utri», cioè un falso: perchè proprio Borsellino, nella stessa intervista, chiarì che in realtà Mangano parlava con un membro della famiglia Inzerillo. Questo e altri falsi saranno sanciti nero su bianco da una sentenza della Corte d’Appello di Milano del 21 gennaio 2008.
23 maggio 1992. Falcone saltò in aria con tutta la scorta mentre lo show televisivo del sabato sera, sulla Rai, andò puntualmente in onda tre ore dopo la strage. Dirà Giuseppe Ayala: «Molti si chiedono come mai la mafia, abituata a fare sempre un calcolo fra costi e ricavi, non abbia potuto immaginare che, ucciso Falcone, lo Stato avrebbe risposto. Ma si dimentica che, dopo la strage di Capaci, non accadde assolutamente nulla».
Paolo Borsellino non fu più lo stesso uomo. I suoi ritmi si fecero ancora più convulsi: sveglia alle cinque di mattino, spostamenti furtivi, tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno. Perse il suo humor proverbiale, restava silente per ore intere. Borsellino lasciò Marsala e tornò a Palermo per riprendere il posto di procuratore aggiunto che era stato di Falcone, ma in base a un principio di anzianità gli fu impedito di occuparsi della mafia palermitana e lo relegarono alla provincia di Trapani. Ogni volta che un collaboratore della giustizia chiedeva di parlare solo con Borsellino ecco che a palazzo tornavano i mugugni di sempre. Quando il pentito Gaspare Mutolo chiese espressamente di lui, i vertici della procura cercarono di impedire il contatto: Borsellino per spuntarla dovette minacciare le dimissioni.
19 luglio 1992. I primi tam tam dicevano che avevano fatto saltare Giuseppe Ayala, il giudice appena eletto deputato repubblicano. I suoi figli già lo piangevano, anche perché altra spiegazione non c’era: in quella zona, a due passi da via Autonomia Siciliana e a trecento metri da via Mariano D’Amelio, c’era lui e non altri. Invece Ayala era per strada che camminava verso quel portone annerito. Vide due cadaveri, poi un terzo. Neanche lui sapeva che la madre di Paolo abitava lì. Brandelli umani, rottami di lamiera, poi inciampò in qualcosa. Guardò per terra e riconobbe quel naso grifagno, quei denti, un tozzo scuro. Era inciampato in un pezzo del suo amico Paolo Borsellino, morto sotto la casa della madre. Con lui morirono gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta. Una giovane ragazza che accanto a Borsellino aveva consentito d’incastrare decine di mafiosi, Rita Atria, si suicidò una settimana dopo. Quando la salma di lei fu riportata a Partanna, nella valle del Belice, il paese l’accolse con disprezzo. Aveva 18 anni.
(Da Libero)