La cosiddetta trattativa
Un trattativa non si sa tra chi, non si sa con chi, non si sa su che cosa.
I magistrati nisseni, la loro indagine sulla «trattativa», a ben vedere se la demoliscono da soli. Hanno fatto un lavoro immane: 1670 pagine, 300 testimoni, 30 pentiti, 260 mila intercettazioni, 3 anni di lavoro, per quanto la sostanza – emblematica – resta ancorata alla rielaborazione dei 350 faldoni accumulati nei dieci processi fallimentari su via D’Amelio: un mosaico bizantino che poteva essere ricomposto in infiniti altri modi, come pure hanno cercato di fare le procure di Palermo e di Firenze. Ma le incongruenze valgono per tutte.
Il patto doveva essere questo, secondo i magistrati: voi mafiosi la piantate con le stragi e noi Stato alleggeriamo il carcere duro. E la tesi è nota: Paolo Borsellino fu ucciso perché Totò Riina lo ritenne un ostacolo in questa trattativa in corso con «lo Stato». Ma di quale Stato parliamo? Scrivono i giudici: «Non sono emersi elementi per dire che ci sono responsabilità a carico di uomini politici… È sbagliato parlare di mandanti esterni, casomai si può parlare di concorso di soggetti esterni». Tutto estremamente generico: «È possibile che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa». È possibile, scrivono. Il gip è più assertivo: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’evoluzione della cosiddetta trattativa».
Dunque le novità dell’inchiesta – quasi tutte note – sarebbero che Borsellino si sentì tradito quando il 28 giugno 1992 apprese dalla collega Liliana Ferraro che tre papaveri dei Ros (i carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) avevano cercato di agganciare il mafioso Vito Ciancimino: questo per «trattare» qualcosa, presumono i magistrati. Un’altra novità, poi, sarebbe che Agnese Borsellino, moglie di Paolo, dopo vent’anni ha improvvisamente ricordato che il marito le riferì che il citato generale Subranni era «punciutu», cioè mafioso. Va detto che in passato Agnese Borsellino aveva messo a verbale che il marito non le parlò mai di alcuna trattativa, e va detto, pure, che la tempistica della rivelazione su Subranni è resa problematica dalle condizioni di salute della vedova, afflitta da un morbo senile. Un altro dettaglio, poi, sarebbe la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino dopo la strage: ma, a parte che non si sa neanche se il magistrato l’avesse con sé, i magistrati si limitano a rilevare che «probabilmente» – lo riferisce il Corriere della Sera – il giudice vi avesse annotato «non sappiamo con precisione cosa». Questi i termini, la vaghezza.
Il corpo del baratto con Cosa Nostra, comunque, sarebbe stato l’abolizione del carcere duro (41bis) che i mafiosi temevano come la morte, ed è qui che parte la fiera dell’illogica. La «trattativa» dei Ros risalirebbe al giugno 1992, ma il 41bis, nello stesso periodo, neppure esisteva; il governo, dopo la morte di Falcone del 23 maggio precedente, ne aveva predisposto l’introduzione l’8 giugno: ma dapprima il decreto rimase inapplicato, anche perché molti in Parlamento si opponevano. Quando fu varato? Lo fu, attenzione, subito dopo la strage di via D’Amelio, e a causa di essa: il Guardasigilli emise 369 decreti applicativi del 41bis per 369 mafiosi, 156 dei quali, peraltro, furono trasferiti nottetempo a Pianosa e all’Asinara. Quando vi fu la strage di via D’Amelio, a esser precisi, mancavano pochi giorni alla scadenza del termine di approvazione del decreto sul 41 bis, bastava solo aspettare e sarebbe decaduto: e invece la morte di Paolo Borsellino, presunto ostacolo a una trattativa per abrogare un provvedimento mai varato, in pratica ne causò l’introduzione. Una dinamica che chiunque poteva prevedere, persino Riina.
Ebbene, i magistrati nisseni l’hanno raddrizzata così: «Se si riflette sulle caratteristiche umane e criminali del cosiddetto capo dei capi, è del tutto plausibile che Salvatore Riina, noto per la sua feroce determinazione criminale, abbia potuto confidare che con il compimento di un ulteriore attentato di quella gravità si potesse rivitalizzare una trattativa che sembrava essere arrivata su un binario morto, non curandosi delle conseguenze negative che sarebbero potute conseguire». I magistrati ritengono, in altre parole, che Totò Riina fosse un mezzo deficiente. Ma la tesi del Borsellino presunto «ostacolo», proseguendo, poggia anche su questo verbale di Brusca che in realtà non conferma niente, anzi: «Non ho mai parlato con Riina del fatto che il Dr. Borsellino sia stato ucciso in quanto ostacolo alla trattativa, si tratta di una mia interpretazione… Mi venne detto da Riina che vi era un muro da superare, ma non mi venne fatto il nome di Borsellino». Traduzione: dopo vent’anni siamo nelle mani delle interpretazioni di Brusca, personaggio che uccise il piccolo Giuseppe Di Matteo e che ammise di aver «strangolato parecchie persone, sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, carbonizzato altri cadaveri su graticole costruite apposta»; personaggio che soprattutto, a proposito di quanti cercano d’infilare anche la morte di Falcone nel canaio della trattativa, nel 1999 aveva già messo nero su bianco: «Prendemmo la decisione iniziale di uccidere Falcone alla fine del 1982… non tramontò mai il progetto di ucciderlo». L’ex magistrato Giuseppe Ayala, non propriamente il primo che passa, ha poi ricordato che «la corte d’assise d’appello di Catania, sulla base dei dati processuali a disposizione, ha stabilito che la decisione di uccidere sia Falcone che Borsellino fu presa da Cosa nostra alla fine del 1991».
Ma tornando a Riina: è notevole che sarebbe stato, nel caso, un mezzo deficiente per ben due volte: infatti la fase successiva della trattativa da lui condotta, secondo i pm, comprese anche il suo arresto nel gennaio 1993. Il passaggio non è chiarissimo, sta di fatto che le bombe del 1993, par di capire, divennero appannaggio di Bernardo Provenzano e corollario di una perdurante trattativa sul 41bis. E qui l’illogica dilaga. I magistrati infatti tirano in ballo Oscar Luigi Scalfaro e l’ex ministro Nicola Mancino e l’ex guardasigilli Giovanni Conso, tutti presuntissimi attori della trattativa: ma senza una conferma che sia una, anzi. Il procuratore nisseno Nico Gozzo, intervistato nei giorni scorsi, ha detto che «nel novembre 1993 lo Stato decise di liberare circa 400 uomini della criminalità organizzata». Ma non è vero, non è esatto: il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, in una prima fase prorogò tranquillamente 325 decreti applicativi del 41bis, e poi, quando altri decreti andavano in scadenza, il primo novembre 1993 decise di non prorogarne solo 140. Scalfaro, per quel che vale, ha parlato di «decisione umanitaria», mentre Conso, sentito dalla Commissione antimafia, ha messo a verbale: «Nel momento in cui si poteva replicare o no questo potere discrezionale, è stato deciso di non farlo, e me ne assumo piena responsabilità in un ottica non di pacificazione, ma con lo scopo di frenare la minaccia di altre stragi». Una decisione autonoma, la sua. La storia e la levatura di Conso portano a escludere che possa esser stato reticente a proposito di trattative che a suo dire gli furono sconosciute; gli unici a non credergli, infatti, sono proprio i magistrati: «C’è da chiedersi se il suo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato… e può rispondersi positivamente». Può rispondersi. Ecco dunque la trattativa in un guscio di noce: Cosa nostra ammazza Falcone, poi Borsellino, poi lascia catturare Riina da Mario Mori, poi – per la prima volta nella sua storia – decide di far strage fuori dalla Sicilia e di piazzare bombe a Milano e a Firenze e a Roma, una strategia terrificante per ottenere che cosa? Il mancato rinnovo di 140 decreti applicativi del 41bis. Anzi, neanche: perché il 23 gennaio 1994 ci fu un’altra bomba che per fortuna non esplose, e parliamo della Lancia Thema imbottita di esplosivo che venne parcheggiata vicino allo stadio Olimpico in una zona di passaggio della folla di tifosi, ciò che sarebbe stata una delle più agghiaccianti carneficine della storia repubblicana. Dopodiché le stragi finirono: senza un perché, senza che i magistrati nisseni o palermitani o fiorentini abbiano una spiegazione seria di nessun genere.
In mezzo a tutto questo, a Palermo, continua l’incredibile processo al colonnello Mario Mori, accusato di favoreggiamento alla mafia anche se il tema sottotraccia, al solito, è quello della trattativa. Lui e Giuseppe De Donno sono coloro che secondo varie procure la intavolarono dal «livello statuale» più basso: e per conto di chi, ovviamente, non è chiaro. I due non negano d’aver contattato, nell’estate 1992, il mafioso Vito Ciancimino all’insaputa di Borsellino: ma inquadrano la loro mossa nell’ordinario e personale tentativo di identificare i responsabili delle stragi per fermarne il proliferare, questo non senza esplorare quella famigerata zona grigia che in Sicilia, come altrove, divide il lecito dall’illecito. Il processo, condotto dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, resta tutto sommato il più surreale tra tutti quelli siciliani: sia perché Mario Mori è l’uomo che arrestò Totò Riina, sia perché il dibattimento è contraddistinto da una sfilata memorabile di testimoni e sia perché resta incardinato sui complicati racconti di Massimo Ciancimino, un teste che la procura di Caltanissetta ha completamente demolito benché sia portato in palmo di mano dai vice-Ingroia del Fatto quotidiano: «I suoi comportamenti appaiono inspiegabili alla luce dei più elementari principi della logica», hanno chiosato i magistrati nisseni. Come tutto il resto. Non si può tuttavia escludere, hanno pure scritto, che dietro le cazzate di Ciancimino «non si nasconda una occulta cabina di regia». E si ricomincia.