Uno, due, massimo tre di questi giorni
I redditi del governo Monti qualcosa insegnano, secondo me. Una volta superata la soglia della curiosità più guardonesca e pruriginosa – sempre che sia stata superata – in teoria rimarrebbe poco: ora sappiamo che il ministro Paola Severino guadagna un sacco di soldi, conosciamo gli investimenti di Corrado Passera e di qualche altro, valutiamo una generica sfiducia nei Bot, apprendiamo che l’europeo Mario Monti possiede il 40 per cento di una tabaccheria, soppesiamo l’auto di tizio, le case di caio, queste cose. Il rischio naturalmente è quello di attizzare invidie sociali anche comprensibili, soprattutto in periodi come questo: nonostante tutti gli opinionisti dicano il contrario, infatti, chi guadagna troppo è ancora guardato con sospetto, soprattutto se qualche ministro fa un po’ di casino grazie a un criterio di disvelamento che è stato decisamente non omogeneo. Qualcuno è rimasto più abbottonato, altri praticamente nudi, la Severino ha dimenticato una villetta da dieci milioni di euro, il ministro Giulio Terzi abita in una casa di Propaganda Fide: ma grandi botti, in ogni caso, non ce ne sono stati. C’è stata, questa sì, un’ubriacatura autocompiaciuta circa la «trasparenza» imposta da Monti in quest’Italia opaca eccetera, ma poi è passata quasi in secondo piano la parte più interessante o perlomeno pertinente: cioè gli stipendi pubblici, ossia quelli dei manager e dei dirigenti e dei presidenti vari, magari, ecco, anche gli esborsi e le remunerazioni spesi dalla Rai coi soldi di noi tutti: che sono nostri, appunto, a differenza di quelli guadagnati da molti professionisti del governo.
Quello che la «trasparenza» voluta da Monti ha rivelato, tuttavia, non è tanto una quantità di reddito, ma una sua qualità: non tanto i soldi posseduti – tanti, comunque – ma come vengono impiegati e a margine di quale status sociale. Per guadagnare più soldi dei nostri ministri bastavano dei calciatori, ma appartenere al ceto che è di questo governo invece è molto più difficile, e non stupisce che una parte della sinistra e una parte della destra – entrambe elitarie – denotino un certo innamoramento. E’ il ceto – e si scusino le generalizzazioni – di una buona borghesia che si auto-coopta, quella che storicamente non ha mai esercitato doveri e responsabilità che sfociassero in una vera rappresentanza politica, è il Paese che si riproduce all’interno del proprio ambiente culturale e professionale, quello dei compartimenti stagni, di scuole e welfare privati. Si è scritto che il governo Monti rappresenta un’elite, ma non è esatto: rappresenta, semmai, quello spazio intermedio tra popolo ed elite che non è mai riuscito a governare le sorti del Paese: diversamente da come è accaduto per esempio nell’Inghilterra costruita dalla borghesia industriale o nei paesi tedeschi guidati dalla borghesia prussiana. E uno però potrebbe dire: meglio tardi che mai, visto che questo ceto adesso è passato direttamente al governo. Sin troppo direttamente, com’è noto: è lecito chiedersi quanto sappia davvero, il ceto in questione, di un Paese reale che è sempre stato vissuto con separatezza. Non è un dubbio tendenzioso o comunistoide: il fatto è che l’obiettivo del governo Monti non è certo cambiato nei cento giorni appena scaduti, e resta, questo obiettivo, quello di restituire un Paese che sia commisurato al gradimento del mercato e delle comunità internazionali. Peccato – l’ho scritto altre volte – che al mercato e alle comunità internazionali non importi nulla dell’intrinseca risoluzione dei nostri problemi storici o acquisiti: non dell’aumentata disuguaglianza sociale, delle nuove sacche di povertà, della disoccupazione o del diminuito potere d’acquisto. Importa solo, a costoro, del pareggio di bilancio, dell’appeal mercatista e, diversamente per ciascun leader straniero, della risoluzione di propri problemi interni. Mario Monti non è un politico, e potrebbe far bene al mercato e a una certa economia: ma la vita della maggior parte di noi, in tutto questo, potrebbe anche e soltanto peggiorare.