Le mitiche tangenti rosse

Eccoci al famigerato Pci-Pds «salvato» dalla magistratura. In un guscio di noce, la presente tesi è che il partito fu in minima parte salvato e in massima parte si salvò e basta. Ma va spiegato bene perché.

Vediamo anzitutto come andarono le cose. Il 1° marzo 1993, in teoria, anche il Pds nazionale era entrato seriamente in Tangentopoli: si era fatto vivo tal Primo Greganti, un ex funzionario comunista di Torino sospettato d’aver raccolto una tangente di 621 milioni per il Pds e di averla nascosta in un conto svizzero chiamato Gabbietta. Sarà la prima di una serie di contestazioni inutili: Greganti si chiuderà in un silenzio eroico e inusuale dicendo in pratica di aver preso i soldi per sé e non per il partito, ossia il contrario di quanto sosteneva il politico medio. L’ex segretario amministrativo del Pds, Marcello Stefanini, sarà inquisito lo stesso: ma la sua morte prematura coinciderà con quella di molti filoni sui finanziamenti al Pds, come non era accaduto per il Psi con la morte del segretario amministrativo Vincenzo Balzamo.

Dirà Greganti: «Quando ho incontrato Di Pietro, e ho scoperto che aveva mandato i poliziotti ad arrestarmi a casa prima dell’alba, non ho avuto più dubbi. Mi voleva catturare nel sonno. Solo che io non c’ero. Avevo dormito fuori. Dove abito io c’era mezzo metro di neve. E i poliziotti sono rimasti pure impantanati. Io e Di Pietro avevamo un appuntamento, era da quindici giorni che gli chiedevo di ricevermi. Finalmente ci accordiamo per le 11 al Palazzo di Giustizia e lui che fa? Mi manda i poliziotti alle quattro del mattino a casa per arrestarmi. Hai capito che metodi?»

Il Pool di Milano intanto si era allargato: nella primavera del 1993 era arrivato il trentaduenne Paolo Ielo e Di Pietro avrebbe gradito anche l’inserimento del pm Gemma Gualdi, sua amica da molti anni, ma Borrelli le preferì infine un’altra collega, Tiziana Parenti, subito destinata al filone delle cosiddette «tangenti rosse». Le incomprensioni e i problemi caratteriali ebbero la meglio praticamente da subito, sia per il temperamento particolarmente orgoglioso di lei sia perché Di Pietro, come diceva Ielo, «vuole fare il prete, il sacrestano e anche il chierichetto». Ha raccontato il pidiessino Giovanni Pellegrino: «All’inizio D’Alema era convinto che Violante, con la sua influenza nella magistratura, potesse proteggerci sufficientemente dall’azione dei giudici. Poi Tiziana Parenti cominciò a prendere di mira le fonti finanziarie del Pci-Pds e del sistema di imprese che ruotavano intorno al partito, arrestando Renato Pollini, che del Pci era stato l’ultimo tesoriere. In tal modo la situazione si fece pesante anche per il Pds».

Nella primissima fase di Mani pulite il Pds non venne per nulla risparmiato. Le indagini rasero al suolo la federazione milanese (consiglieri, assessori, segretari) e i pidiessini non mancarono di lamentarsi: anche se, al solito, tra mille distinguo. «Dopo i primi arresti» ha raccontato Gianfranco Maris, legale del segretario cittadino del Pds Roberto Cappellini, «il mio cliente mi disse che aveva preso anche lui dei soldi. Chiesi a Di Pietro di sentirlo, ma rifiutò». Racconterà Cappellini: «Me lo ricordo, Di Pietro, subito dopo l’arresto. Era scatenato, urlava: “Parla, perché se no non esci più”». Il filone rosso parve decollare quando il manager Lorenzo Panzavolta raccontò che a Tangentopoli già scoppiata aveva versato altri 621 milioni al Pds sempre a mezzo Greganti: di lì in poi le chiamate in correità cominciarono a piovere da tutte le parti, e parlarono gli imprenditori Bruno Binasco, Giuseppe Squillaci, Paolo Pizzarotti oltre al solito Maurizio Prada e all’ex tesoriere milanese Luigi Mijno Carnevale. Quest’ultimo, a pagina tre del suo verbale d’interrogatorio, chiamò in causa molto chiaramente «Occhetto e D’Alema, naturalmente d’accordo con la segretaria amministrativa diretta dall’onorevole Stefanini». Arrestarono anche Marco Fredda, il responsabile immobiliare del Pds. Ma le voci su avvisi di garanzia per Occhetto e D’Alema rimasero tali. Il dissidio definitivo sarà del 24 agosto, quando Tiziana Parenti decise di inviare un’informazione di garanzia al segretario amministrativo del Pds Marcello Stefanini senza neppure avvertire i colleghi: le iscrizioni, sino ad allora, le aveva sempre vergate personalmente Di Pietro. Marcello Stefanini era un senatore, e questo significava avere un solo mese di tempo per motivare la richiesta di autorizzazione a procedere: il Pool temeva che la collega non avesse abbastanza elementi per poterla ottenere. E mentre i vertici della Quercia denunciavano una «strategia della tensione», ecco che il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che di solito non muoveva un dito, condusse una sua personale indagine non per incolpare bensì per scagionare Primo Greganti: si era collegato con l’anagrafe tributaria e aveva concluso che neanche una lira era giunta al Pds. Il 29 ottobre 1991, nel giorno in cui Greganti prelevava una consistente somma a Lugano – spiegò – lo stesso firmava anche il rogito per comprare una casa, ecco dunque a prova che quei soldi non erano finiti a Botteghe Oscure. Il caso era chiuso, anzi no: il gip Ghitti avrebbe voluto vederci chiaro e dapprima negò l’archiviazione. Non credeva – senza malizia: nessuno ci aveva mai creduto – alla storia del Greganti millantatore. Ma perse la battaglia. Tra pubbliche litigate e qualche chiacchierata di troppo coi giornalisti, in autunno l’inchiesta verrà ufficialmente tolta a Tiziana Parenti in quanto «non allineata con la procura» dirà Gerardo D’Ambrosio prima di aggiungere: «Questo non è il processo al Pds, ma a Greganti e Stefanini». D’Ambrosio è lo stesso personaggio che nel maggio precedente aveva dichiarato all’«Unità»: «Mani pulite è finita … nel senso che ciò che doveva emergere nel filone politico-affaristico è venuto fuori». Sul settimanale «L’Europeo» era stato ancora più chiaro: «Lo scenario è nitido, Dc e Psi si finanziavano attraverso meccanismi illeciti … c’è stata la fase dello stragismo … poi è venuta l’epoca della corruzione». D’Ambrosio, anni dopo, una volta lasciata la magistratura, si candiderà come senatore nel Pds, frattanto divenuto Ds.

Se Primo Greganti rappresentava una domanda, ogni risposta giunse comunque tardiva e seppellita da formidabili solidarietà ambientali. Greganti divenne un vero personaggio in un mondo dove un barbuto presidente di una coop, già di suo, appariva mediaticamente meno intrigante di un cassiere socialista in crociera a Bora Bora, dome Silvano Larini. Ma diversi, più che gli uomini, erano i metodi: lo era un sistema di finanziamento illecito più difficile da individuare, lo erano elargizioni dall’Urss e commesse dall’Est che in buona parte rientravano nei reati amnistiabili; ma diversa, in quel 1993, fu soprattutto la gestione di Mani pulite da parte di una magistratura che sceglieva gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento. Quando il Pool si mosse, insomma, la stampa già pensava ad altro. Le carte che dimostravano come il Pds si finanziò in maniera illecita diventavano migliaia in tutto lo Stivale, e da altrettante sentenze si evinceva tuttavia che nel Pci-Pds, più che per altri partiti, la raccolta di fondi risultava periferizzata, parcellizzata e soprattutto spersonalizzata. I nomi dei percettori finali non comparivano quasi mai.

Il Pds poteva contare sul mitico sistema cooperativo, ma casi moralmente riprovevoli come quelli emersi in Campania (commistioni coop-camorra nell’aggiudicazione degli appalti) non fecero notizia più di tanto, mentre non si poteva negare che una scelta oculata di uomini di fiducia, cui intestare interi patrimoni immobiliari, fu premiata da comportamenti processuali poco solleticabili dal carcere. Il magistrato Francesco Misiani la mise così: «So perfettamente che se avessi insistito, forse, prima o poi, sarei riuscito a dimostrare in un’aula di tribunale che il Pci non era estraneo al circuito di finanziamento illecito … non lo feci, consapevole anche del fatto che la resistenza anche a lunghi periodi di detenzione, dimostrata dagli indagati, forniva anche un ineccepibile dato formale in grado di chiudere le inchieste». Questo mentre Italo Ghitti, il gip di Mani pulite, in un’intervista rilasciata nel 2002 al «Corriere della Sera», ammetteva che il Pds aveva un apparato di finanziamento illecito non meno vorace: «La storia di Mani pulite non ha esaurito e non esaurisce la storia: qualcuno si sarà anche potuto salvare da accuse di corruzione, ma magari ha dovuto lasciare la sede di partito, vendere il giornale, chiudere l’azienda … il tempo ha evidenziato come, al di là dei fatti penalmente rilevanti, vi fossero realtà che adottavano praticamente lo stesso metodo dei partiti più coinvolti».

Difficile non ripensare al ridimensionamento della macchina organizzativa pidiessina, notoriamente la più dispendiosa della Prima e della Seconda Repubblica. Durante la Prima resse in qualche modo la leggenda dei finanziamenti ottenuti dalla vendita delle salamelle al Festival dell’Unità, nella Seconda invece si passerà alle scalate bancarie.
Ha raccontato il democristiano ed ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani: «Quando queste fonti si sono prosciugate hanno chiuso e poi riciclato l’Unità, hanno venduto la sede delle Botteghe Oscure, molte di quelle provinciali e di sezione, e infine hanno licenziato centinaia di dipendenti. Avevamo calcolato che spendevano più di tutti gli altri partiti messi insieme. L’autofinanziamento copriva sì e no un terzo dei costi. C’è una documentazione con alcuni dati: cinquemila funzionari tra federazioni provinciali e organismi collaterali, centinaia di dattilografe e autisti, un migliaio tra giornalisti e tipografi, oltre quattrocento addetti solo alla sede centrale».

Il filone legato all’energia indica chiaramente che la spartizione a livello nazionale era fra tutti i partiti. Il manager Lorenzo Panzavolta parlò di tre tangenti di 1 miliardo e 242 milioni ciascuna a Dc, Psi e Pci: l’1,6 per cento sulle commesse assegnate al gruppo Ferruzzi. Spiegò che un tempo il Pci si limitava a pretendere che una quota degli appalti
fosse assegnata alle cooperative rosse, ma dal 1986 il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna puntò ad allargare il proprio mercato: sicché il pidiessino Giambattista Zorzoli entrò nel consiglio d’amministrazione dell’Enel e Panzavolta versò 1 miliardo e 246 milioni sui conti svizzeri di Greganti. Quest’ultimo sarà condannato a 3 anni e Zorzoli a 4 anni e 3 mesi per corruzione e finanziamento illecito al partito: «Le somme» recita la sentenza «non sono state incassate da Greganti per prestazioni personali bensì vanno collegate a un’intermediazione fiduciaria posta in essere da quest’ultimo a vantaggio del Pci».

Per gli appalti legati alla costruzione di impianti di desolforizzazione, in particolare, occorreva una nuova legge e serviva che il Pci assicurasse almeno il numero legale in Parlamento. Raccontò ancora Panzavolta: «Dissi a Greganti: se lei può dire ai suoi parlamentari … Allora Greganti si adoperò e difatti la legge venne poi approvata, perché il numero c’era. Il Partito comunista votò contro questa disposizione, però era sufficiente la loro presenza per farla passare. E Greganti venne da me e disse: “Vede che io conto, vede che riesco a ottenere queste cose”».

I giudici della VII sezione del Tribunale di Milano, nel luglio 1996, spiegarono che «a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non solo alcune sue componenti interne, venne coinvolto direttamente nel sistema degli appalti per la Metropolitana Milanese … Da circa il 1987 l’allora Pci fu inserito nel novero dei partiti politici che partecipavano alla spartizione delle tangenti provenienti dalle imprese».

L’accordo era a tal punto consolidato che il segretario amministrativo della Dc, Maurizio Prada, fungeva spesso da cassiere unico e smistava il denaro ai segretari amministrativi degli altri partiti, nessuno escluso: «Risulta dunque pacifico che il Pci-Pds, dal 1987 sino al febbraio 1992» spiega ancora la sentenza «ricevette, quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti, una somma non inferiore ai tre miliardi». Raccolti dal collettore Sergio Eolo Soave prima e dal sostituto Luigi Mijno Carnevale poi, nella divisione delle tangenti si passerà alla regola dei tre terzi: due terzi alla corrente occhettiana e un terzo alla corrente migliorista.

Si rimanda alle note in fondo a questo post per le non poche sentenze, condanne ed emblematiche assoluzioni del Pci-Pds-Ds nei filoni Alta Velocità (1) e Fiat-Pds (2) e tangenti «Le gru» di Grugliasco (3) e inchiesta veneta sulle cooperative (4) e inchiesta torinese su Eumit Intereurotrade (5) Si tratta di situazioni definite che continuano a restare misconosciute rispetto a situazioni non definite ma di più forte carica simbolica: a distanza di anni, per esempio, si discute ancora del miliardo di lire che Raul Gardini pagò al Pci per l’affare Enimont, versamento assodato per il quale il socialista Sergio Cusani fu anche condannato in primo grado. È anche vero che i retroscena di quel miliardo vennero trasmessi per televisione al processo Cusani, questo in un periodo in cui un coinvolgimento del Pci-Pds in Mani pulite l’avrebbe probabilmente trascinato nello stesso baratro in cui giacevano altri partiti storici.

La storia è sempre quella: nel 1994 l’ex uomo di fiducia di Gardini, Leo Porcari, confermò ad Antonio Di Pietro di aver accompagnato il suo principale in via delle Botteghe Oscure perché incontrasse Massimo D’Alema e Achille Occhetto. Nella sentenza del 28 aprile 1994 si apprende di almeno tre incontri di Raul Gardini coi succitati. La testimonianza di Porcari convergeva con quella di Carlo Sama: l’ex amministratore di Montedison, infatti, aveva riferito a Di Pietro di un colloquio avuto con Sergio Cusani dove quest’ultimo raccontava che Raul Gardini «gli aveva detto di aver passato 1 miliardo tondo al Partito comunista, ad Achille Occhetto in persona, per ottenere un appoggio per la defiscalizzazione degli oneri gravanti su Enimont». Non bastasse, Pino Berlini, uomo Ferruzzi a Losanna, aveva confermato la movimentazione del miliardo, mentre Sergio Cusani, sempre secondo Carlo Sama, avrebbe usato un aereo privato della Montedison per portare il miliardo da Milano a Ravenna e poi da Ravenna a Roma. L’audizione di Occhetto e D’Alema fu tuttavia negata dal tribunale, che pure, nella sentenza, scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont [un decreto di sgravio fiscale ] e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Nel processo d’appello, Cusani fu condannato a 6 anni – due in meno del primo grado –, ma l’episodio venne stralciato.
Riportare tutti i processati e i condannati delle inchieste sulle coop rosse, ancora e infine, è impresa impossibile: basti che hanno proceduto le Procure di Milano, Brescia, Torino, Venezia, Bologna, Reggio Emilia, Modena, Ravenna, Ferrara, Firenze, Grosseto, Arezzo, Roma, Frosinone, Napoli, Lecce, Palermo, Catania e Caltanissetta. Per non parlare dell’indagine veneziana di Carlo Nordio che con centinaia di imputati ha assorbito i procedimenti di Milano, Torino e Roma. Moltissime le condanne, nessuna o quasi di peso politico. Qualche incomprensione diplomatica, a margine dell’inchiesta di Nordio, a metà degli anni Novanta, rischiò di alimentare i dubbi di chi sosteneva e sostiene che il Pool di Milano abbia trascurato la sinistra.

Ha raccontato Carlo Nordio: «La Procura di Milano mi mandò una serie di verbali anche molto importanti dai quali emergeva … tutta una serie di finanziamenti fatti al Pci-Pds. Ricordo che furono inviati i verbali di un tale Carnevale. Dopo accadde un fatto anomalo. … arrivò a Venezia un plico anonimo con la fotocopia di un verbale di questo Carnevale, dove si faceva il nome dell’on. D’Alema, e questo verbale [da Milano] non mi era stato mandato. Allora chiesi alla Procura di Milano: “Questo verbale esiste?”. In un primo tempo mi dissero che non lo sapevano, … che loro avevano mandato tutto quello che avevano… Allora fecero delle ricerche e lo trovarono … Io ritenni il fatto singolare».

Non meno singolare un altro episodio sempre raccontato da Nordio. La Procura di Milano, nel 1993, aveva già interrogato il futuro teste chiave dell’inchiesta veneziana, Agostino Borello, amministratore di una cooperativa piemontese che aveva raccontato una serie di finanziamenti occulti a margine dei quali, in forma di ringraziamento, si registrava la regolare presenza alle riunioni di D’Alema e di Craxi. Nordio, perciò, nella primavera del 1995, tornò a Milano per ascoltare questo Borello: «Lo interrogai presso la sede della Guardia di Finanza. … Vedendo che esisteva una direttiva della Procura di Milano della fine del 1993 che demandava alla Guardia di Finanza l’onere di riscontrare le dichiarazioni di Borello, chiesi agli ufficiali … : “Cosa avete risposto a questa direttiva? … L’avete riscontrato o meno?”, e mi fu detto che non avevano ancora risposto. Al che io dissi: “Avete una direttiva della Procura di Milano di fine 1993 e un anno e mezzo dopo non c’è risposta?”». Mi fu detto: “C’è stato tanto da fare”».

Note

1) Il costruttore Bruno Binasco (Itinera, autostrade) raccontò di 400 milioni dati a Greganti per il Pds e in particolare citò una riunione del 1989 convocata dal senatore Lucio Libertini in via delle Botteghe Oscure. C’erano i massimi costruttori italiani. Si era alla vigilia del varo di grandi opere, tra le quali nuovi tratti autostradali e appunto l’Alta Velocità ferroviaria: e il Pds aveva aderito senza riserve, è nero su bianco. Il costruttore Marcellino Gavio confermerà che Greganti incassò denaro per tener buono il partito, e il compagno G. peraltro non negò di averlo ricevuto come funzionario del Pci: ma addusse a giustificazione una complicata operazione immobiliare poi smontata dai giudici. Gavio motiverà l’elargizione «in previsione del fatto che in quel momento venivano stanziati i finanziamenti per le opere pubbliche che il partito era impegnato a sostenere». Greganti e Binasco sono stati condannati per finanziamento illecito al Pds (rispettivamente a 5 mesi e a 1 anno e 2 mesi) e dalla sentenza si apprende che «era la volontà non del Greganti, ma del Pds, e che tale richiesta egli faceva espressamente in nome e per conto del tesoriere nazionale Stefanini». Circa la posizione di Massimo D’Alema, il cassiere socialista Bartolomeo De Toma raccontò: «Balzamo mi riferì di una riunione sull’Alta Velocità dove si discuteva di una ripartizione dei lavori tra le varie imprese che poi avrebbero erogato finanziamenti illeciti. In quell’occasione Balzamo mi disse che, pur essendo Stefanini il segretario amministrativo, tutte le questioni riguardanti il finanziamento erano coordinate dall’allora vicesegretario Massimo D’Alema». Marcello Stefanini e Vincenzo Balzamo non poterono confermare né smentire, essendo morti.

2) Sempre a proposito della posizione di Massimo D’Alema, l’europarlamentare diessino Cesare De Piccoli, capo dei dalemiani a Venezia, nel 1993 fu beneficiario di mazzette Fiat. Il manager Ugo Montevecchi infatti aveva confessato al Pool di Milano: «Mi fu fatto presente che bisognava dare una mano al Pci e significativamente alla corrente veneta di D’Alema». E partirono 200 milioni elargiti al Pds nel maggio e nel giugno 1992 (in piena Mani pulite) poi versati su conti svizzeri. I reati andarono in prescrizione nel febbraio 2000. Due mesi dopo Cesare De Piccoli divenne sottosegretario all’Industria nel secondo governo Amato e in seguito passò all’ufficio economico del partito. Per altra indagine, poi, fu appurato che Massimo D’Alema nel 1985 incassò circa 20 milioni illeciti da Francesco Cavallari, re delle cliniche baresi e definito «facente parte di un’associazione di tipo mafioso» dalla Procura antimafia di Bari. Il reato, peraltro non negato da D’Alema, è caduto in prescrizione perché confessato solo nel 1994, un anno dopo la scadenza dei termini.

3) A proposito di Piero Fassino e dell’indagine sull’immenso centro commerciale «Le gru» di Grugliasco, in provincia di Torino, non fu trovato alcun riscontro circa il particolareggiato ma solitario racconto fornito alla procura da Antonio Crivelli, ex capogruppo del Pci: «La linea del partito era che il centro andava costruito a ogni costo: la nostra sensazione era che la decisione fosse stata già presa in altra sede, e cioè in sede di segreterie di partiti a livello provinciale e nazionale … Avevo saputo che Fassino si era recato a Parigi sotto la Tour Eiffel per ritirare una borsa con del denaro, in relazione alla vicenda delle Gru». Furono appurate tangenti a due sindaci comunisti, ma nessuno confermerà mai il racconto di Crivelli, e tantomeno lo farà Fassino, sentito come testimone per la sua curiosa funzione di garante politico per la costruzione di un centro commerciale.

4) L’immensa inchiesta veneziana condotta da Carlo Nordio, che pure archiviò le posizioni di Occhetto, D’Alema e Craxi, accertò centinaia di responsabilità e più in generale la falsità dei bilanci, l’occultamento regolare di beni, il legame finanziario col Pci-Pds nonché «la partecipazione della segreteria nazionale alla gestione economica delle risorse e in particolare dei finanziamenti pervenuti in modo anomalo e clandestino», e soprattutto la condiscendenza di svariati «signor G» oltreché la disponibilità del partito di un immenso patrimonio immobiliare gestito da prestanome e derivante da contributi clandestini. Nell’archiviare l’indagato Massimo D’Alema, la Procura di Reggio Emilia ha dovuto prendere atto che il presidente di una cooperativa rossa che aveva fatto versamenti illeciti al Pci, Nino Tagliavini, «dichiara di aver preso parte, nel febbraio 1992, con molti altri presidenti di cooperative, a una riunione nel corso della quale il D’Alema avrebbe ricordato agli intervenuti gli oneri economici che il partito doveva sopportare, dicendo loro che lo Stefanini li avrebbe chiamati. Sarebbe stato così che, sollecitato a un incontro, Tagliavini avrebbe versato 370 milioni».
Una delle migliori descrizioni di come funzionasse il rapporto tra partito e cooperative resta quella di Giovanni Donigaglia, presidente della Coopcostruttori di Argenta (Ferrara) e ovviamente comunista di ferro. Durante Tangentopoli, inquisito a Verona, Milano e Napoli, collezionò un numero impressionante di arresti e la racconterà così: «Nelle commesse pubbliche era riservata una quota di appalto alle cooperative vicine al Pci, che ha sempre richiesto e voluto che una parte degli appalti fosse riservata alle imprese ideologicamente vicine alle sue posizioni … Ogni volta che c’è un appalto pubblico in cui si deve formare un raggruppamento di imprese e in cui deve essere previsto l’inserimento di una cooperativa, io mi rivolgo al Consorzio cooperative di costruzione per avere ordini, poi è il Consorzio che decide come distribuire ogni appalto tra le cooperative. Periodicamente venivamo informati dai funzionari circa le richieste economiche del partito». Fra questi funzionari c’erano Primo Greganti, Renato Pollini e Marcello Stefanini. Ecco come il denaro arrivava a destinazione: «Pubblicità sui giornali del Pci-Pds, contributi alle Feste dell’Unità, spese per manutenzione di sedi, assunzione di operai e personale su richiesta di esponenti del partito, contribuzioni a manifestazioni e convegni».

5) La Procura di Torino indagò sulla Eumit (Euro Union Metal Italiana Torino) Intereurotrade e cioè su una società che promuoveva import-export di acciai con i paesi comunisti. Un classico del Pci vecchia maniera: la società era stata fondata nel 1974 dal Partito comunista e da una banca della Germania Est, la Deutsche Handelsbank, ovviamente sotto l’occhio attento del servizio segreto Stasi. Poi il fascicolo confluì a Milano e in mille altri rivoli: con ciò divenendo un dedalo di cui si è sempre scritto e capito poco, complice la spaventosa difficoltà di raccogliere documentazioni oltrecortina; senza contare che una banca austriaca, in particolare, non ha mai risposto alle rogatorie chieste dalla Procura di Milano, e questo senza che il Pool scatenasse il finimondo. Non si tratta di cifre da poco, ma di qualcosa come 16 miliardi di lire che sono passati dalla Eumit al Pci tra il 1983 e il 1989, estero su estero: i reati prospettati furono frode fiscale, bancarotta fraudolenta e finanziamento illecito al partito; gli indagati furono Achille Occhetto, Renato Pollini e Marcello Stefanini. Un prestanome del caso, certo Brenno Ramazzotti, ex funzionario del Pci, faceva la parte del Greganti di turno.
Ma è ancora e direttamente il Greganti autentico, sorta di prezzemolo del finanziamento illecito pidiessino, a spuntare nel tardo 1993: sul suo celebre conto svizzero Gabbietta nel 1990 era transitato infatti 1 miliardo di lire (frutto della vendita della quota di Eumit appartenente al Pci, quell’anno ceduta interamente alla Deutsche Handelsbank), che poi aveva fatto un giro contorto ed era andato a ripianare i conti della Ecolibri, una casa editrice amministrata da Paola Occhetto, sorella di Achille. In pratica: «Realmente vi furono illecite erogazioni da Eumit al Pci, il cui segretario era allora l’on. Achille Occhetto, e i segretari responsabili [tesorieri] erano allora sia Stefanini sia Pollini. Tanto è attestato dalla logica, dal riscontro documentale, dalle univoche risultanze della rogatoria in ambito della Ddr». La Eumit era una società autentica che faceva profitti autentici, beninteso, ma sino al 1989, ossia sino al crollo della cortina di ferro, rappresentava una sorta di passaggio obbligato per tutte le imprese italiane che volevano fare affari con l’Est: bisognava passare di lì e pagare una commessa, una tangen te, un pizzo che poi finiva al partito. Tutto questo è appurato nelle sentenze, al pari della sussistenza di un finanziamento illecito che tuttavia «cessò prima della fine del 1989, data in cui la funzione di illecito strumento di erogazione della ricchezza di Eumit venne meno; senza contare la citata amnistia che vi fu nello stesso anno. Nella sentenza di archiviazione dell’estate del 2000, dunque, non si ravvisano i reati di falso in bilancio e bancarotta, ma per tutto il resto (corruzione, finanziamento illecito, reati fiscali) intervennero la prescrizione e l’amnistia.

Vent’anni e non sentirli

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera