Vent’anni e sentirli
Tutto parte e riporta lì, sempre a Mani Pulite, genesi di una seconda Repubblica mai nata e già vecchia: è il nostro Prima e Dopo Cristo, è l’incubatrice di un presente politico eternamente incerto tra ieri e domani. Agli spauracchi genere «non è cambiato niente» si è progressivamente sostituita una consapevolezza terrificante: è cambiato tutto, nel senso che la politica di allora oggi appare superiore anche perché diversi erano i curriculum, le professionalità, le investiture dal basso: roba che oggi ha ceduto il passo alla nomina di uno bravo ogni venti amici e parenti e servi. Avevi i voti o non li avevi: non c’erano carfagne e non c’era merito di guerra che potesse bastare.
Nostalgia? Per niente. Nulla giustifica come il finanziamento illegale della politica, un tempo fisiologico e necessario, fosse degenerato a Milano come nel resto del Paese. Nella capitale morale ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite (tot alla Dc, tot al Psi, tot al Pci eccetera, secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano prestabilire i vincitori delle gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: a Milano accadeva che per determinati appalti ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti, Pci compreso. Il sistema era talmente oliato da rendere praticamente impossibile comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori si definiranno come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire: in concreto «era un sistema», come disse Bettino Craxi, o quantomeno una «dazione ambientale», come la descrisse Di Pietro: ispirato, in realtà, da un altro magistrato che si chiamava Antonio Lombardi. Era un sistema malato di elefantiasi e degenerato negli effetti pratici ed economici: più costose e durature erano le opere e più grande era la torta da spartire, il mercato era sfalsato e così pure la selezione delle offerte migliori e più convenienti. Tutto questo, naturalmente, in linea di massima: fioccavano le eccezioni e le isole felici, mentre le degenerazioni e un senso del limite si tenevano la mano in un Paese che in qualche modo tirava avanti. Grazie al debito pubblico? I numeri, ormai, hanno smentito anche questo. Dal 1946 al 1992, la Prima Repubblica ha accumulato un debito pubblico pari a circa 6-700 miliardi di euro: il restante – ossia i 1300 miliardi di euro che hanno portato il debito pubblico italiano alle cifre odierne – lo ha fatto la Seconda Repubblica dei vari governi Berlusconi, Amato, Ciampi, D’Alema e Prodi; la Prima Repubblica accumulava una media giornaliera di 47,5 milioni di euro di debito al giorno, la Seconda è arrivata a oltre 200 milioni di euro al giorno, quasi quintuplicando la cifra. Oscar Giannino, un collega quantomeno rigoroso, ha raffrontato i governi di centrodestra e centrosinistra sulla base dei dati della Banca d’Italia: il record di debito pubblico sono stati i 330 milioni al giorno del primo governo Berlusconi, che nell’ultimo governo è sceso a 207 milioni.
Perfetto, ma perché Mani pulite nacque proprio allora? Qui in genere si scontrano versioni improbabili e micro – la favoletta del magistrato onesto che smaschera i corrotti – e altre non meno improbabili e complottarde e legate a scenari internazionali. Tra Montenero di Bisaccia e Washington, non manca chi sostenga che l’inchiesta avrebbe potuto nascere in ogni momento dal Dopoguerra in poi, anche se è vero che alla fine degli anni Novanta certe disinvolture avevano superato ogni limite e così pure la tolleranza di una popolazione in progressiva crisi economica.
Noi voliamo basso. È inutile ricostruire e contestualizzare tutti gli scenari che indubbiamente, più che dare origine all’inchiesta, da un certo punto poi non ne impedirono la nascita come in passato sarebbe probabilmente accaduto, anzi, come probabilmente avvenne. Si possono tuttavia menzionare pochi accadimenti chiave che prepararono il terreno.
Uno, nell’aprile 1990, fu l’amnistia che contemplava vari reati compiuti sino al 24 ottobre 1989, e tra questi il finanziamento illecito ai partiti. La demarcazione si rivelerà essenziale per giustificare l’impunità di alcune parti politiche e soprattutto per depenalizzare ogni finanziamento illecito versato al Pci dall’Unione Sovietica. Dall’ottobre 1989 al marzo 1992 non passarono che una trentina di mesi: l’intero sconvolgimento del sistema politico italiano è stato realizzato in quel periodo.
Dirompente, nel tardo 1989, fu poi l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale Vassalli-Pisapia. Esso si proponeva, nelle intenzioni, pari dignità giuridica tra accusa e difesa, custodia cautelare come extrema ratio , segretezza delle indagini, pubblicità del processo e, soprattutto, prova che doveva formarsi rigorosamente in aula. Il totale stravolgimento delle velleità del nuovo Codice, con la complicità della classe politica e il palese dolo della magistratura, sarà una chiave di volta della prima e fondamentale parte di Mani pulite. Molti magistrati nei primi anni Novanta lanciavano grida d’allarme contro un nuovo Codice che paventavano come troppo garantista.
Il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, definì le nuove norme addirittura «ipergarantiste» e lo stesso facevano i cronisti. Il professor Giandomenico Pisapia, presidente della commissione per la riforma del codice di procedura penale, intervistato dallo scrivente nel 1992, la mise così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione».
L’allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni, sempre nel 1992, aggiunse: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio ». Sembra fantascienza.
– Il referendum sulla preferenza unica proposto da Mario Segni simboleggiò poi come anche Bettino Craxi, che invitò bonariamente gli elettori a disertare le urne, non avesse polso di quanto andava montando. Alle urne si recò il 65 per cento degli italiani e il referendum passò con il 95,6 per cento di sì. Il voto celava null’altro che una forte insofferenza contro i partiti.
– Altre date rilevanti, a Mani pulite iniziata, saranno il 5 ottobre 1992 e il successivo 29 ottobre, quando la lira cioè scese al minimo storico e fu ratificato anche in Italia il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria. Qualsiasi peculiarità italiana, di lì in poi, avrebbe dovuto allinearsi a parametri ormai imprescindibili: anche da questo, il 10 luglio 1992, nascerà una manovra finanziaria da 30.000 miliardi di lire con cui il governo di Giuliano Amato tenterà un primo risanamento del disavanzo pubblico. Nello stesso periodo verrà avviata la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina: una strada obbligata e però gravida di conseguenze sociali e occupazionali che contribuiranno a riscaldare il clima. L’Italia, all’inizio del 1992, era un castello di carte che aspettava solo un refolo di vento. Crisi varie, inflazione, la Fiat che annunciava prepensionamenti, carabinieri ammazzati dalla camorra, urla contro i politici durante i funerali, l’antipolitica che strepitava dai televisori: senza contare che il capo dello Stato, Francesco Cossiga, il 2 febbraio avrebbe sciolto le Camere. E Milano, da sempre laboratorio anticipatore di ogni brezza o tempesta destinata a spirare nel paese, era una polveriera rimasta incustodita.
E Di Pietro? Di Pietro era un magistrato di non buonissima fama. Non aveva rapporti neanche coi giornalisti, o non erano buoni: lo sfotticchiavano per la pronuncia o addirittura fingevano un refuso e scrivevano «Antonio Di Dietro». I giovani cronisti lo chiamavano «il troglodita». Che avesse in mente tutto fuorché Mani pulite l’ha raccontato in più occasioni Elio Veltri, che l’incontrò nei primi giorni di febbraio: il magistrato gli disse che presto avrebbe abbandonato i reati contro la pubblica amministrazione e si sarebbe dedicato alle estorsioni; aveva archiviato il caso di un’intera famiglia di Parma scomparsa nel nulla e «Chi l’ha visto?» ci aveva montato una puntata intera. A lui era piaciuto, la tv lo faceva già impazzire. Ammetterà anche Francesco Saverio Borrelli: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».
È vero, Mani Pulite nacque per caso, ma il caso non esiste. E comunque non se ne accorse nessuno, dapprima: quasi tutto andava bene a quasi tutti. All’ascesa socialista si era via via accompagnato un discutibile sottopotere socialista: Milano era da bere, ma lo slogan era soprattutto di chi non poteva sedere a tavola. Il Titanic romano già affondava lentissimo mentre Milano era una Bismarck. Tutto era diverso e inimmaginabile. La cerimonia d’insediamento di Giulio Catelani, venturo procuratore generale dai toni «rivoluzionari», fu benedetta dalla presenza di Giulio Andreotti. Persino la nomina di Francesco Saverio Borrelli a capo della procura ebbe il placet della Dc e del Psi. E non era crollato il mondo, nel maggio 1990, quando la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore socialista Antonio Natali – tesoriere maximo – era stata respinta. La Metropolitana Milanese era a tutti gli effetti una società per azioni privata, si disse, dunque poteva finanziare i partiti. Tutti. Eppure, neanche due anni dopo, il ragionamento sarà rovesciato e si andrà di ramazza. Allora invece nessuno fiatò, neanche le opposizioni. Non si procedette neppure per violazione del finanziamento illecito. La verità è che la nave andava, e Antonio Di Pietro era a bordo.
Molti hanno scritto che già in quel periodo il magistrato indagasse per Mani pulite, anzi, che indagava praticamente da sempre, come un infiltrato che conducesse una sorta di indagini preliminari lunghe quarantadue anni. Così, a cena da qualche personaggio imbarazzante, mica cenava: raccoglieva materiale probatorio. Con altri fingeva amicizia: poi sbirciava nel loro portafoglio – questo scrivono – e annotava il nome delle banche in cui avevano i conti. Tutto molto improbabile, anzi. Di Pietro continuava a essere quel personaggio straordinariamente ambiguo che è ed è sempre stato, da amico di tutti e di nessuno. A Palazzo di Giustizia non aveva una fama meravigliosa: certi suoi trascorsi l’avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scrisse: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».
Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda Trasporti milanesi) di cui presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco, l’ex questore, il capo dei vigili, industrialotti vari) che il magistrato aveva anche invitato a casa sua. Tra gli amici non mancavano industriali come Giancarlo Gorrini o il costruttore Antonio D’Adamo: che fecero, insieme, più di duecento milioni di «prestito» beneficiato da Di Pietro. Lo spaventoso elenco di favori che il magistrato ebbe dallo stesso potere che poi avrebbe abbattuto (prestiti, affitti a equo canone, domicili, auto per sè e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impieghi per il figlio, vestiario, telefoni, la celebre Mercedes scontata) non rappresentano solo comportamenti «di indubbia rilevanza disciplinare», come avrebbe sancito la magistratura: rappresentò, allora, la ragione principale per cui, tra i ben informati, a Milano nessuno pensava che Di Pietro avrebbe fatto il botto. Anche al famoso Mario Chiesa, cioè alla miccia iniziale, Di Pietro arrivò quasi distrattamente. Nel giugno 1990 «Il Giorno» aveva pubblicato un articolo nel quale un impresario funebre raccontava che per lavorare al Pio Albergo Trivulzio bisognava pagare: la querela di Mario Chiesa era stata affidata a Di Pietro, che aveva archiviato, sì, ma aveva anche preso nota e in parallelo aveva aperto un fascicolo e disposto intercettazioni.
Ma l’arresto di Chiesa fu comunque un caso. Luca Magni, un imprenditore del ramo pulizie, non si rivolse a Di Pietro perché strozzato dalle tangenti e dal bisogno: lo fece perché vessato dall’arroganza di Chiesa. Il lavoro non gli mancava, ma per gli appalti della Baggina, «Chiesa cominciò a chiamarmi insistentemente. Mia sorella non stava bene, era stata ricoverata, per cui non avevo tempo da dedicargli. La risposta fu che la salute di mia sorella era affar mio, non dell’ingegner Chiesa». Magni – che ha raccontato queste cose, vent’anni dopo, nel libro «Alla fine della fiera» di Federico Ferrero – allora si rivolse a un’associazione di commercianti che gli diede un numero dei Carabinieri. Il capitano raccolse la denuncia e la presentò al magistrato di turno: che era Di Pietro, ma poteva anche essere un altro.
Chiesa aveva chiesto a Magni di versare il 10 per cento su un appalto. Allora l’impresario andò nell’ufficio dell’ingegnere con settanta banconote segnate da centomila: flagranza di reato, concussione, galera. Le modalità di quell’arresto, riviste oggi, fanno comprendere quanto fosse diverso come l’atteggiamento della magistratura a proposito della custodia cautelare: in Mani pulite una sola chiamata in correità basterà per incarcerare chicchessia, ma, prima di essa, Di Pietro non si fece bastare la confessione di Luca Magni e neppure le intercettazioni telefoniche: predispose banconote segnate, un microfono e persino una telecamera che peraltro non funzionò.
L’arresto di Chiesa destò scalpore, certo, ma il neonato Tg5, per capirci, non pronunciò la parola «socialista» neanche una volta. Sembrava tutto sotto controllo: l’avvocato di Chiesa, Nerio Diodà, chiese subito il patteggiamento. «Faremo la direttissima» annunciò Borrelli, inconsapevole di quanto aveva tra le mani. O, forse, sin troppo consapevole. Dirà Di Pietro: «Io dimenticai di depositare gli atti nei tempi prescritti per la direttissima… Borrelli aveva dato indicazione di depositarli… erano in vista le elezioni del ’92, la tensione montava, il fatto risultava chiaro, era opportuno rinviare Chiesa a giudizio per direttissima e chiudere così il caso e le crescenti polemiche. A quel punto, io non ho la forza di dire al dottor Borrelli che non lo faccio perché voglio arrivare a un obiettivo preciso; e allora “mi sbaglio”».
Così la faccenda s’insinuò nella campagna elettorale per le elezioni politiche. E Craxi, il 3 marzo, disse: «Mi ritrovo un mariuolo che getta un’ombra sul Partito». Mariuolo che intanto marciva in galera mentre vari imprenditori pellegrinati in Procura – per paura o perché tirati in ballo da un collega «infiltrato», Fabrizio Garambelli – cominciarono a parlare e straparlare pur di scampare la galera. Chiesa decise di parlare il 23 marzo: era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie, suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette. Parlò per questo. Ammise i versamenti ai vari big del Garofano e non solo a loro. Il 30 marzo i cronisti si appostarono con l’orecchio vicino alla stanza di Di Pietro, la 254, e annotarono un urlo di Chiesa: «M’avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome di Bobo Craxi. Suo padre era candidato alla presidenza del Consiglio e vantava ancora un alto gradimento.
Il 2 aprile concessero gli arresti domiciliari a Chiesa. Si delineava uno scenario probatorio da paura, e il gip Italo Ghitti disse chiaro e tondo: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Cominciò una nuova fase giurisprudenziale. Ogni reato ipotizzato, di lì in poi, sarebbe stato inquadrato nell’affiliazione a un sistema, e dimostrare che l’indagato ne avesse fatto parte sarebbe bastato a giustificare il protrarsi delle carcerazioni. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto ormai inaffidabile agli occhi del sistema: come i pentiti con la mafia. Ogni proposta di sistematizzare la confessione sarebbe stata avallata dal Pool. E ogni tentativo di limitare le carcerazioni sarebbe stato chiamato colpo di spugna.
L’antipolitica montò soprattutto in tv. Su Raitre c’era Gad Lerner col suo «Profondo Nord», poi diventato «Milano, Italia». Su Italia Uno c’era Gianfranco Funari col suo «Mezzogiorno italiano». Michele Santoro, col suo «Samarcanda», aveva fatto grandissimi ascolti con una puntata dedicata alla crisi dei partiti; poi, dopo che il 12 marzo a Mondello avevano ucciso il democristiano Salvo Lima, si era rivolto direttamente alla piazza televsiva: «Siete contenti che l’hanno ammazzato?». Scoppiò un putiferio. Gli fui intimato di rinunciare alla piazza nelle settimane pre-elettorali, ma rifiutò, sicché gli chiusero la trasmissione per quindici giorni. Da immaginarsi che cosa ne venne fuori.
In ogni caso il voto del 5 aprile 1992 segnò il crollo storico della Dc e perdite minime per il Psi, ma il pentapartito ne uscì comunque malconcio. La Lega superò i tre milioni di voti (9 per cento) e cantarono vittoria anche neo movimenti come la Rete. La stampa aprì un fuoco di fila contro la maggioranza e ci fu anche una telerissa in diretta fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa: «Lei, Vespa, è stato sconfitto come l’onorevole Forlani, e se ne deve andare!», «E lei ha lottizzato la Rai come hanno fatto gli altri partiti, se non peggio».
Cominciava un burrascoso interregno giudiziario. Ebbe inizio un periodo incredibile: chiamate in correità a mezzo stampa, il Tg3 come se l’Armata rossa fosse alle porte di Trieste, telefonate concitate, avvocati coi clienti in lista d’attesa. La Prima Repubblica era finita, ma neppure questo avevano ancora capito.
Una sola notte di prigione, il 21 aprile 1992, trasformò otto imprenditori in terribili accusatori: ammisero centocinquanta miliardi pagati a vari politici e cominciò la delazione ambientale. Ammetterà Di Pietro: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la mia impresa. Le banche mi ritireranno i fidi, i committenti non mi darano più gli appalti, i lavoratori mi contesteranno, sarò costretto a chiudere».
Il 23 aprile ecco un altro caposaldo: il fascicolo virtuale. Tutti i fatti di Tangentopoli sarebbero stati compresi in un solo procedimento con un solo gip, il finto mite Italo Ghitti. Al resto provvedevano altre tecniche. «L’avviso di garanzia è stato un bel passo indietro, perché noi pm abbiamo potuto agire indisturbati e in silenzio più di prima… La legge dice che il pm dovrebbe cercare anche gli elementi favorevoli all’indagato. Ma figuriamoci!». Dopo l’iscrizione di Tizio nel registro degli indagati, secondo il Nuovo Codice, un’inchiesta non doveva durare più di sei mesi: il Pool aggirare la normativa col modello 44, cui si ricorreva quando l’indagato era ignoto: i sei mesi non decorrevano. È il registro in cui inserirono Bettino Craxi. Altro stratagemma: archiviare direttamente a modello 45 (cui si ricorre quando si ritiene che non esista notizia di reato, come nel caso di denunce di pazzi con manie di persecuzione) oppure, sempre per indagare a tempo scaduto, comunicare al Procuratore generale l’intenzione di rinviare a giudizio.
Il 27 aprile con Di Pietro apparve un nuovo pm: Gherardo Colombo, uno gentile, jeans stinti, Lacoste, scarpe da vela consumate, il vizio delle sigarette e delle dita nel naso. Di Pietro aveva richiesto che gli fosse associato Piercamillo Davigo, ma Borrelli all’inizio preferì Colombo anche per controllare meglio Di Pietro, che aveva la fama che aveva. Davigo sarebbe arrivato poi.
La stampa invece era già arrivata, anzi, la ressa si era fatta insopportabile e certi entusiasmi cominciarono a creare problemi. Il 27 aprile 1992 i carabinieri non poterono arrestare il socialista Matteo Carriera perché sotto casa sua c’era il Gabibbo. Quei parvenu della Fininvest esordivano coi loro telegiornali e dapprima vennero sospettati di intelligenza col nemico, ma gli steccati caddero subito, anzi, il problema divenne che di notizie ne davano sin troppe e rischiavano di bruciare tutti gli altri. Ogni tanto Paolo Brosio del Tg4 diffondeva il panico nei servizi della notte («Il gip ha appena firmato ventinove ordini di cattura») e ogni volta i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Una volta, in diretta, Brosio disse che avevano arrestato l’industriale Carlo Gavazzi – in realtà morto – e non suo figlio Riccardo. Un’altra volta intervistò l’ex sindaco Carlo Tognoli e lo chiamò per cinque volte Pillitteri.
L’informazione si strinse nel collo di bottiglia di pochi cronisti, quei quattro o cinque che avevano consolidato rapporti personali coi magistrati, ma poi si allargò a tutti gli altri. Nacque, per un delimitato ma decisivo periodo, una specie di Pool dei giornalisti: una redazione giudiziaria unificata con distribuzione equanime delle notizie e dei celebri verbali, spesso tradotti dal burocratese e semplificati in linguaggio corrente. Due gli obbiettivi: gestire la mole impressionante delle notizie e in secondo luogo proteggersi da eventuali censure distribuendo le notizie a tutti gli altri. Di fatto le informazioni si strinsero nel collo di bottiglia di pochi cronisti, e l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «anch’io seguo Mani pulite», o ancora il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima: «C’è un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato» disse il decano dell’Ansa. Le notizie uscivano da più direzioni, non soltanto dai magistrati: ma difficilmente uscivano se loro non volevano. Dirà Italo Ghitti, il gip storico di Mani pulite: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm». Ci furono casi in cui le notizie furono depositate nelle edicole prima che nelle mani degli avvocati, o altri casi, particolari, come raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai gli elenchi anche a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi.
Scrisse l’allora cronista del manifesto: «I giornalisti hanno avuto i loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. E’ stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici (L’Espresso e Panorama, nda) sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale».
Il ruolo della stampa era fisiologico all’inchiesta: questa la vera novità. Travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di certi verbali piuttosto che altri si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di indagati che si ritrovavano nero su bianco sui giornali. Senza contare che un solo avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.
Di Pietro, tra i cronisti, era oggettivamente adorato. L’uomo che anni prima avevano chiamato «Di Dietro», nel loro gergo, divenne «Zanzone», «Dio», «Diozanza», «Padrepio», «l’Onnipotente» e da un certo punto in poi «la Madonna». Un esempio dei rapporti che Di Pietro intratteneva coi giornalisti è ricavabile da un interrogatorio di Giancarlo Gorrini reso nel 1997 a Brescia: «Io e Di Pietro ci trovammo a uscire dal suo ufficio. Nel suo corridoio vi erano numerosi giornalisti e operatori delle varie tv che immediatamente accesero i faretti. Di Pietro, alzando e muovendo le braccia, disse di stare fermi in quanto la persona che era con lui non era un indagato bensì un suo amico». Gorrini in realtà era già inquisito per bancarotta fraudolenta e condannato per appropriazione indebita: ma a Di Pietro, coi giornalisti, bastava alzare un braccio.
La manovalanza dei cronisti doveva interfacciarsi coi desk delle rispettive redazioni, e circolavano leggende secondo le quali i direttori dei principali quotidiani si telefonavano per concordare spazi e titoli comuni. Piero Sansonetti, condirettore de l’Unità nel 1992-1993, ha raccontato che c’era del vero: «Nel biennio 1992-1993 la società politica era allo sbando e nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali: il Corriere, la Stampa, l’Unità e Repubblica. Il direttore de l’Unità era Veltroni, alla Stampa c’era Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli». Antonio Polito confermerà: «I partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano subito, appena ricevuto l’avviso di garanzia, anche per via delle nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica».
L’unico giornale non propriamente sdraiato sulle procure era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L’Indipendente, dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta veri e propri ammiccamenti alla violenza di piazza.
Ma c’era una seconda ragione per cui i cronisti chiamarono Di Pietro «la Madonna»: fu per via delle decine di avvocati che presero a pellegrinare in Procura in omaggio al citato effetto richiamo dei giornali. Partì da qui, sommessamente, una polemica volta a indicare anche una sostanziale abdicazione del ruolo dell’avvocato alla base del crescente successo di Mani pulite. Per tutta l’inchiesta, infatti, ruolo essenziale fu quello dei cosiddetti «avvocati accompagnatori», legali che spesso si limitavano ad assistere i loro clienti nel percorso che li portava fino alla stanza di Antonio Di Pietro: poi null’altro che un’ossequente confessione. Un cronista del Mattino, a proposito dell’appoggio dato ai clienti nel parlare e liberarsi, li ribattezzò «addetti al vomito». Scrisse invece un cronista del Manifesto: «Gli avvocati raramente rappresentano un contraddittorio coi magistrati, una fonte d’informazione alternativa… Il processo in pratica si celebra prima di andare in aula… Il ruolo dei legali il più delle volte si limita ad assistere inerti agli interrogatori o alle trattative per evitare ai loro clienti la galera».
In pratica i cosiddetti i principi del foro, con poche eccezioni, durante Mani pulite non batterono chiodo. Non era sfuggito che avvocati poco noti, ma graditi ad Antonio Di Pietro, erano i difensori di tutti i principali accusatori di Tangentopoli: cambiare avvocato si traduceva in un cambio di atteggiamento e in una potenziale svolta processuale, ergo si usciva dal carcere o neppure ci si entrava. Il semi-sconosciuto Giuseppe Lucibello, compagno di bisboccia di Tonino, assunse difese clamorose come quella del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Anche il democristiano Roberto Mongini, che di legali ne cambiò addirittura tre, cambiò e cominciò a parlare. Uno come Salvatore Ligresti rimase in carcere per cinque mesi sinché cambiò avvocati e fu subito liberato previo cambio di atteggiamento. Autentica guerra di nervi fu poi quella combattuta da Michele Saponara, presidente dell’Ordine degli Avvocati: il socialista Loris Zaffra, da lui difeso, rimase a San Vittore per sei mesi sinché non dette incarico a un altro e fu l’apriti sesamo. Eppure, fiutata l’aria, Zaffra era giunto a far verbalizzare: «Non intendo avvalermi di un altro avvocato ». «La Procura», accusò Saponara, «fece sapere alla famiglia di Zaffra che se voleva tornare libero doveva cambiare avvocato». A tal proposito, ascoltato dagli ispettori ministeriali nel 1995, Saponara produrrà una testimonianza secondo il quale un pm del Pool aveva urlato a Zaffra: «Se non cambia legale, si dimentichi di uscire». Ma le accuse non trovarono conferma.
Col tempo, e col progredire dell’inchiesta, architrave di Mani pulite diverrà invece lo studio del professor Federico Stella, eminenza grigia, difensore dell’Eni e futuro ghostwriter di Antonio Di Pietro. Il professor Stella difese l’imprenditore Fabrizio Garampelli, che con le sue confessioni spedì in galera praticamente chiunque tranne se stesso; difese uno sterminato numero di dirigenti dell’Eni «buono» ed elaborerà ben due proposte di legge per uscire da Tangentopoli, entrambe appoggiate dal Pool: una a ottobre 1992, elaborata in seno all’Assolombarda, di cui pure era difensore, e un’altra praticamente identica nel settembre 1994, presentata in pompa magna alla Statale di Milano.
A dispetto di queste semplificazioni, comunque, in Mani pulite trovarono spazio anche avvocati con posizioni più varie e sfumate. Quando L’Espresso nella primavera 1993 pubblicò una specie di hit parade degli avvocati di Tangentopoli (titolata «Primo Bovio, ultimo Chiusano») il presunto vincitore, Corso Bovio, scrisse così al settimanale: «La qualità di un avvocato non si misura dalla durata della carcerazione… Credo che la sua funzione sia quella di far rispettare la dialettica del processo. Mi autoassolvo, ma non sento di assolvere il mio ruolo… Perry Mason non è famoso perché pilota le confessioni o patteggia le pene. Oggi sono vincenti l’inquisizione, il pentitismo, lo Stato di Polizia con le sue manette e le sue galere».
Intanto il pool proseguiva con una tripartizione precisa: Di Pietro interrogava, Colombo spulciava le carte e Davigo vergava le richieste di autorizzazione a procedere. Italo Ghitti invece autorizava gli arresti «privilegiando la rapidità al cesello», come dirà Colombo. Dirà invece Di Pietro, appena più grezzo: «Io andavo dai colleghi e segnalavo un’operazione che mi puzzava. “Vedi che cosa è successo qui?” Questo secondo me è un reato di porcata… Cari Davigo e Colombo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega perché non voglio rischiare una sconfitta dal tribunale della Libertà”». Traduzione: io lo metto dentro, il come e il perché trovatelo voi. Ha raccontato Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo. Ma, dopo aver ammesso l’errore, Di Pietro mi disse: “Adesso vado da Davigo, e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”. Fatto sta che tornai in cella per altri ventisei giorni».
A Di Pietro era permesso tutto, anche perché si avviava a divenire un eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e l’applaudirono per due minuti. Il suo status era cambiato in un niente: gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine girevoli in similpelle. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt’Italia, soprattutto immaginette sacre e santini di Padre Pio, e la sera le portava a casa per leggerle al figlio. Il Corriere della Sera, nella sola settimana dal 7 al 15 maggio, sfoderò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell’eroe», «Il fascino discreto dell’uomo onesto».
Il dipietrismo nacque ufficialmente in maggio. La prima scritta era stata individuata nel parcheggio dello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» in via Manin e poi lo striscione «Di Pietro sindaco» ancora a San Siro. E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l’Unità del 10 maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa, David Riondino, Paolo Rossi più una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot quotidiano con immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti… vai avanti…».
Anche la strage di Capaci registrò il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Il magistrato morì un sabato, e lunedì 25 maggio «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». La morte del magistrato siciliano ebbe il potere di accelerare l’elezione del presidente della Repubblica dopo un interminabile gioco di fumate nere, veti e contro-veti. Il 25 maggio elessero Oscar Luigi Scalfaro, sponsorizzato da Marco Pannella e Bettino Craxi, che non se ne pentiranno mai abbastanza. Dopo le tormentate elezioni di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini alla Camera e al Senato, anche la corsa per palazzo Chigi s’avviava a conclusione: «Craxi», sussurravano tutti. Ma la sera del 3 giugno la notizia era un’altra: «C’è anche il nome di Craxi nell’inchiesta sulle tangenti» disse il Tg1. Di Pietro precisò: «Allo stato il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi». Allo stato, Craxi non sarebbe stato presidente del Consiglio, punto. La sua parabola si fece discendente anche se il 3 luglio pronunciò un discorso alla Camera destinato a passare alla Storia, parole che per buona parte riverserà in un altro discorso che pronuncerà il successivo 29 aprile 1993, giorno precedente all’assedio dell’Hotel Raphael. Craxi chiese al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità per trovare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica. Lo fece quando mancavano quasi sei mesi a un suo coinvolgimento effettivo in Mani pulite, e quando l’eventualità che potesse essere inquisito pareva semplicemente impensabile. Racconterà il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi: «Dissi a Forlani che era il momento di prendere posizione, ma invano». Secondo Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «Quando Craxi fece quel discorso c’era ancora qualche margine per fare almeno delle riforme che consentissero di uscire dal pantano, ma non se ne fece niente perché Occhetto aveva altri programmi: pensava che il Pds sarebbe uscito indenne e che gli altri partiti sarebbero stati cancellati dalla geografia politica».
Agosto fu il mese dei tre corsivi sull’«Avanti!» vergati da Bettino Craxi. Il segretario socialista il 23 la mise giù dura: «Col tempo potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt’altro che l’eroe di cui si sente parlare, e che non è proprio oro tutto quello che riluce». Senza farla tanto lunga: il poker di Craxi non era un bluff, tutte le carte – Mercedes svendute, frequentazioni, prestiti eccetera – verranno calate negli anni successivi e saranno decisive per le dimissioni di Di Pietro dalla magistratura. Ma allora non c’era neanche il tavolo per giocare. Di fatto, per qualche tempo, fioccarono le scarcerazioni: «Come mai», notò anche il Corriere della Sera, «Di Pietro rinuncia alla sua proverbiale risolutezza? Perché una linea tanto morbida?» Se lo chiese anche Gherardo Colombo: «È successo che tornando dalle ferie estive dissentisse su iniziative di Piercamillo e mie in tema di custodia cautelare… Ciò si verificava contestualmente al fatto che la stampa avesse avuto da ridire su alcuni aspetti dell’indagine». Ma forse, a contribuire a una certa cautela, il 3 settembre era stato anche il terribile suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. La sua toccante lettera spedita al Presidente della Camera, letta al Tg2 e pubblicata da tutti i giornali, denunciava un clima da caccia alle streghe e risvegliò qualche orgoglio parlamentare. Ma erano colpi di coda. Il 19 settembre il cassiere socialista Vincenzo Balzamo passò da Palazzo di Giustizia e fu preso d’assalto dai cronisti: e nessuno di loro ricorda quel giorno con particolare orgoglio. Ma la sindrome era tale che L’Avanti!, poco tempo dopo, titolò «Querci: ho dato 400 milioni a Balzamo» quando nessun altro giornale fece altrettanto, anche perché Balzamo intanto era sul letto di morte. Il 2 novembre fu stroncato da un infarto e l’Indipendente titolò in prima pagina «Balzamo, infarto da mazzetta». Quello stesso giorno altri giornali titolavano invece «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e resta il fatto che tutte le accuse contro il segretario amministrativo del Psi, di lì poi, sarebbero state deviate su Craxi.
La verità è che il Pool di Milano era assortito fantasticamente e fu insuperabile nel fare ciò che volle fare. Di Pietro. Davigo. Colombo. Borrelli. Poi Ielo e Greco. Un po’ meno D’Ambrosio, che in realtà non faceva un tubo se non dichiarazioni disastrose. Resta che per abbattere una Repubblica – che non è, in genere, un compito del potere togato – il Pool e tutta la magistratura stravolsero o sovra-interpretarono il Codice di procedura penale varato nel 1989: lo neutralizzarono e poi ridestarono come un frankenstein inquisitorio/accusatorio. A un Di Pietro usato come ariete (le manette come regola) si affiancò infatti una contro-legislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (su tutte la 255/92) e una legge suicida (il Decreto Scotti-Martelli) ristabilirono lo strapotere delle indagini preliminari; ai pm era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La loro totale discrezionalità dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative ossia che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.
Le condanne di Mani pulite (si parla di Milano) nacquero in maggioranza da patteggiamenti e riti abbreviati: 847 su 1254, esiti che erano stati ottenuti quando il carcere preventivo era la regola e quando nelle indagini tutto si esauriva, complice la stampa e le sue storture. Tutti quei nuovi riti erano divenuti le scorciatoie pagate a caro prezzo da chi aveva voluto uscire dal tritacarne giudiziario, dal Rito ambrosiano: ma tutto erano fuorché normalità, soprattutto per chi non era disposto a starci. Forse non è un caso che tra i 1320 indagati che il Pool spedì ad altre procure competenti il numero dei proscioglimenti fu altissimo. Tutta gente non colpevole ma che non figura, però, nella casistica ufficiale di Mani Pulite, come se Milano avesse teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Si dovrà aspettare anni perché una riforma elementare ristabilisca un principio chiave che Mani pulite aveva fatto a pezzi: l’articolo 513, quello in base al quale solo nel processo una testimonianza può diventare una prova, non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come accade nei film americani, dove tutto ciò che non avviene durante il processo, semplicemente, non esiste.
In una sentenza bresciana che trattava delle omissioni di Mani pulite – sentenza favorevole a Di Pietro – il giudice fu costretta a scrivere che «le mancanze di approfondimenti rilevate appaiono del tutto in lines con i già evocati frenetici ritmi di lavoro che connotarono la prima fase di Mani Pulite». Chiamato a testimoniare, il pm Francesco Greco la mise così: «Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si andava a quello dopo». Il Pool era composto da gente cazzuta e competente, ma Mani pulite per certi aspetti fu un’indagine superficiale in cui la velocità primeggiò sulla qualità e sull’accuratezza. I magistrati sceglievano gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento, e fu Francesco Saverio Borrelli a parlare di «Blitzkrieg»: «Era la guerra lampo tipica degli eserciti germanici, una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali». Il Pool agiva allo stesso modo: «Tendeva ad arrivare rapidamente ad assicurarsi risultati certi, lasciando ai margini una quantità di vicende da esplorare in un secondo momento». Il punto è che i risultati giunsero perciò in un secondo momento (quando giunsero) oppure dal 1994 in poi, quando la stampa e il Paese già pensavano ad altro. Le carte che dimostrano come il Pds si finanziò in maniera illecita, per fare l’esempio più clamoroso, diventarono migliaia in tutto lo Stivale: ma non se ne accorse nessuno, perché nella fase più calda ed efficace – quando tutto era possibile, forzature comprese – il Pool si era concentrato sul Psi e sulla Dc. Il Pci-Pds si salvò anche per questo.
Il Pool di Milano fece delle scelte. Forse non poteva evitarle, ma le fece, e questo contribuì a scrivere una storia perlomeno parziale. Per descrivere i singoli casi (segretari di partito abbattuti o neppure sfiorati, imprenditori salvati e altri suicidati, Eni buono ed Eni cattivo eccetera) non basterebbe un libro, ma il vizio d’origine è riscontrabile sin dai primi mesi dell’inchiesta, quando si propinò la favoletta degli imprenditori concussi e dei cattivi concussori, cioè i politici. Il 28 novembre 1992, a botta calda, il famoso Mario Chiesa fu condannato a sei anni e sei mesi e sei miliardi da restituire: il 160 per cento dei soldi ricevuti; mentre Fabrizio Garampelli, il concusso, difeso da legali graditi all’accusa, dovette rimborsare solo il 15 per cento senza che frattanto avesse mai smesso di lavorare: la sua azienda vinceva gli appalti del Pio Albergo Trivulzio da vent’anni – con ogni presidente – e continuò a farlo. Altri imprenditori se la cavarono con meno di due anni e la condizionale. Dirà lo stesso Mario Chiesa: ««Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra… corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato… Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi… sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa».
Confermerà, molti anni dopo, Piercamillo Davigo: «Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di ‘protezione’, al riparo della concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano».
Mani pulite è anche questo, anzi, fu soprattutto questo, un’inchiesta giudiziaria che ebbe conseguenze politiche alla cui ombra potè accadere ogni cosa. E per forza: il Paese, agli albori del 1993, era un groviglio di manette, di malcontento e di retorica. Retate ad Ancona, Vercelli, Bergamo, Monza, in tutte le città d’Italia. Una manifestazione contro la manovra economica degenerò in scontri con 60 feriti. Gli scioperi fiorirono dappertutto e vennero contestati i sindacati. La Lega invitò a non acquistare i Bot, fallì un attentato contro la sede della Confindustria, scesero in piazza i commercianti contro l’annunciata minimum tax. Al segretario della Cisl, Sergio D’Antoni, tirarono un bullone in testa. Arrestarono l’intera giunta regionale dell’Abruzzo e l’intera giunta comunale di Vercelli. Ma è impossibile, ora, spiegare lo scenario in cui scivolavano le inchieste di quel periodo, ed è ancor oggi impossibile trovare un filo comune tra accadimenti che mozzavano il respiro: la bomba che il 14 maggio 1993 scoppiò al quartiere Parioli di Roma, l’autobomba che il 27 luglio scoppiò a Milano in via Palestro, le altre due l’indomani scoppiarono a Roma in piazza San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. L’opinione pubblica e i mass media si ritrovarono in un conformismo che si pensava smarrito. Durante il funerale delle vittime di via Palestro si distinsero frasi come queste: «Metteteli tutti a pane e acqua: la forca, ci vuole la forca!»; «Giuràtelo che li metterete tutti alla forca!»; Di Pietro, fatti ridare i soldi che hanno rubato, devi sequestrare tutto, hai capito?».
Dopo quel paio di suicidi eccellenti che avevano calamitato l’attenzione sui metodi della magistratura (Gabriele Cagliari e Raul Gardini) si ripartì tranquillamente in quarta. Un sondaggio, elaborato dopo i suicidi, spiegava che il 60 per cento degli italiani riteneva che la carcerazione andasse bene così. Ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d’interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica.
Il mondo giornalistico intanto esplodeva in entusiasmi conformisti di cui solo noi siamo capaci, come l’era Monti in parte dimostra. Il settimanale «L’Europeo» regalava gli adesivi circolari «Forza Di Pietro», «Panorama» esaltava l’Italia «dei tanti Di Pietro che sono fedeli alle mogli, una nuova specie di uomo». Chiara Beria di Argentine scriveva sull’Espresso sempre su Di Pietro: «Un implacabile nemico delle mazzette, un giudice mastino che interrompe i lunghi, estenuanti interrogatori offrendo Ferrero Rocher». Maria Laura Rodotà scriveva su Panorama: «Il nuovo eroe italiano, il nuovo modello, a grande richiesta… Di Pietro, eroe tranquillo, un role model, un modello di comportamento italiano». Laura Maragnani scriveva su Donna: «Di Pietro fa sognare anche le donne. Piace. Strapiace. C’è chi lo definisce un sex symbol, un eroe per gli anni Novanta… Dicono di lui che sia duro, testardo, di metodi spicci. E che sia onesto, onestissimo. Basta questo a farlo adorare alle donne? O è merito anche del suo anti-look, del calzino corto che si ribella alla tirannia dell’apparire?». Ah, saperlo.
1/ continua. Primo post di due.