Intoccabili. E innominabili
C’è da capire perché si invoca una legge che in teoria esiste già, capire, cioè, perché 21 milioni di italiani votarono per la responsabilità civile dei giudici (referendum del 1987, sull’onda del caso Tortora) ma ancora si parla di introdurre una legge che pure fu varata. La spiegazione mignon è questa: il Parlamento la approvò il 13 aprile 1988 (n.117) ma poi l’asse Dc-Pci-magistrati la svuotò progressivamente, posto che era già vuota di suo. Ma forse si può dare una spiegazione più decente.
Il 5 novembre 1987 il ministro della Giustizia, il socialista Giuliano Vassalli, scrisse una lettera privata a Craxi. Non scriveva al suo presidente del Consiglio (Craxi si era dimesso da tempo) ma al suo segretario di partito. La sua proposta – sulla responsabilità civile dei giudici – pareva buona e soprattutto fedele agli intenti del referendum che si tenne quattro giorni dopo: i magistrati avrebbero finalmente pagato per i propri errori come è sempre stato per tutte le professioni e come già accadeva per tutte le magistrature del mondo. Un frammento: «Caro Bettino, unisco lo schema di disegno di legge che intendo diramare all’indomani del referendum se il risultato sarà “sì”. Lo schema è stato redatto con scrupolo, cercando di tener conto dei ventidue progetti già esistenti… Esso ha una notevole autonomia rispetto alle proposte comunista, democristiana e repubblicana… Hanno collaborato con me insigni studiosi del processo civile. Gradirei una tua rapida presa in esame e un tuo assenso». Poi le singole voci, qui indegnamente riassunte: 1) responsabilità civile per tutti i giudici, ciò per un indeclinabile principio costituzionale di parità; 2) responsabilità sia per dolo che per colpa grave e non per «provvedimenti abnormi»; 3) in caso di condanna, azione obbligatoria di rivalsa dello Stato verso il magistrato senza spazio per discrezionalità ministeriali; 4) limitazione della rivalsa a un terzo dello stipendio.
L’inutile vittoria referendaria (80,2 per cento di sì) sfociò in una legge via via svuotata, come detto. In caso di colpa grave o di palese negligenza, in teoria, i magistrati dovevano pagare per i propri errori: in pratica non è mai accaduto, a meno di qualche sconosciuta eccezione in questi ultimi anni. In sostanza la legge non c’è. Nell’88-89, quando entrò in vigore, i ricorsi per l’azione di responsabilità verso i giudici furono 80. L’anno dopo, 30. Nel 1993, 16. Nel 1994, solo 7. E via a morire. Il perché è chiaro: zero condanne e zero avvocati disposti a credere che un magistrato possa intentare un procedimento serio contro un altro magistrato.
Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, se frugate tra le sue carte, ammette che la «previgente disciplina» fosse «fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice»; ma siccome la disciplina è praticamente rimasta quella – negli effetti pratici, almeno – di fatto essa è ancora «fortemente limitativa». Cioè: non paga nessuno. La legge puntualizza le definizioni di «colpa grave» e «diniego di giustizia» (art. 3) ma poi cominciano i paletti. Alias: sono escluse da ogni «responsabilità» un’erronea interpretazione di legge e una fallace valutazione dei fatti e delle prove: queste sono cose che i magistrati si regolano tra loro all’interno del processo e a mezzo delle varie impugnazioni; l’attività giurisdizionale del magistrato resta «insindacabile» e, in caso di abnormi o macroscopiche violazioni di legge, o ancora di distorsioni della funzione giudiziaria, può intervenire soltanto il Csm con provvedimenti disciplinari; di ciò, nota bene, i giornalisti possono scrivere solo se non nominano i singoli magistrati*.
In caso di risarcimento, cioè mai, il risarcimento dei danni pesa sullo Stato, non sul magistrato. La causa va fatta perciò allo Stato (che saremmo noi) e nel caso paga lo Stato che può rivalersi sulla toga. Mai successo, ovviamente. Ancora: la causa si può fare solo dopo aver esperito tutti i ricorsi e le impugnazioni del mondo, cioè dopo un sacco di tempo. Infine: una successiva modifica (2 dicembre 1998, n. 420) ha stabilito che qualsiasi causa deve aver luogo lontano da dove lavora il giudice denunciato: questo per non sputtanarlo tra i colleghi. Più che paletti, è una palizzata insormontabile. Ma ripetiamolo ancora: stiamo parlando di fantasmi, di cause che non esistono.
Inevitabile un accenno agli errori compiuti dalla magistratura. Quanti sono? È impossibile dirlo con precisione. Occorre distinguere tra errori giudiziari propriamente detti (riconosciuti cioè da una procedura di revisione del processo, roba molto difficile da ottenere) e casi di ingiusta detenzione cautelare, ma in teoria andrebbero conteggiati anche i casi di prescrizione e quelli ovviamente di chi è stato prosciolto: e in Italia viene mediamente scagionato quasi un imputato su due. Per l’ingiusta detenzione, ogni anno, lo Stato paga cifre invereconde: lo Stato, non la magistratura. Mentre la commissione disciplinare del Csm – e si provi a negarlo – ogni volta punisce i magistrati con sanzioni ridicole (ammonizioni, censure, spostamenti, paradossalmente promozioni) e non esistono sanzioni sugli stipendi o sulla carriera. In pratica non esiste niente.
* Un mio collega, Stefano Zurlo, un paio d’anni fa raccolse con incredibile fatica una discreta e inedita quantità di sentenze emesse tra il 2000 e il 2008 dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura: si tratta, cioè, di magistrati che hanno giudicato altri giudicati e comminato loro ammonimenti o censure o trasferimenti a margine di condotte anche e decisamente gravi. Si tratta di toghe a tutt’oggi in attività, benché – si apprende dalle carte – costoro hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, oppure semplicemente hanno dimostrato di non lavorare praticamente mai, talvolta hanno addirittura denotato segni di squilibrio evidente. Il mio collega ha impiegato più di un anno per ottenere queste carte, rimpallate di continuo dall’ufficio di Presidenza al Centro studi del Csm a vari altri uffici: sinché le medesime, in data 27 agosto 2008, sono finalmente giunte al richiedente accompagnate, tuttavia, da una lettera del segretario generale Carlo Visconti. Questa lettera – a lungo meditata e discussa, par di capire – intendeva mettere dei precisi paletti circa la «diffusione e divulgazione» di queste sentenze. In pratica il Csm si richiamava agli articoli 137 e 52 del vostro «Codice in materia di protezione dei dati personali» per sottolineare l’obbligo di «omettere le generalità e gli dati identificativi personali salvo il caso di consenso dell’interessato», oppure «di ricorrenza degli elementi chiaramente riconoscibili di un diritto di cronaca con riferimento allo specifico caso che abbia assunto la rilevanza pubblica necessaria».
In lingua italiana significa che noi giornalisti, appresi i comportamenti dei magistrati e le sanzioni già decise dal Csm, dovremmo poter menzionare un cittadino che veste la toga solo se lui ce lo concede, oppure se ciò che lo riguarda sia già al centro della cronaca: dimenticando che focalizzare dei fatti di pubblico interesse, mettendoli proprio al centro della cronaca – i comportamenti di chi giudica della vita altrui, per esempio – è proprio il compito di giornali e giornalisti.
Il risultato sarebbe che nel nostro Paese, cioè, di tre precise categorie non si può scrivere il nome: i minori, le vittime di violenze sessuali – e sin qui c’eravamo – e ora anche i magistrati. Il primo risultato di questa pretesa del Csm è che il mio collega ha dovuto espungere tutti i nomi e i luoghi riconoscibili dal volume che frattanto aveva preparato. Nonostante i controversi pareri raccolti, nessuno – tantomeno lo studio legale della casa editrice, iper-prudente per mestiere – se l’è sentita di sfidare possibili cause milionarie che fossero sporte da una categoria che è stabilmente al primo posto nelle classifiche delle querele e dei risarcimenti ottenuti. Ho verificato peraltro che altri volumi, scritti da altri colleghi, sono incorsi nello stesso problema e alla fine non hanno osato nominare i magistrati: benché sanzionati dal Csm, i loro comportamenti non devono essere conosciuti dalla pubblica opinione.
Il 17 ottobre allora ho scritto pubblicamente al Garante per la protezione dei dati personali, Francesco Pizzetti, investendolo della questione.
Il 21 ottobre mi ha risposto, su Libero, dicendo che avrebbe avviato un’istruttoria. Siamo rimasti lì.