Morire democristiani
In pratica vogliono rifare la Dc. Eccola qui la soluzione ai guai di un centrodestra con movenze gattopardesche (tutto deve cambiare perché nulla cambi) dove tutti invocano rivoluzioni dopo essersi ben legati alla seggiola. Per qualche giorno le parole d’ordine erano state «tornare allo spirito del 1994» e cioè alla «rivoluzione liberale», poi molti si sono accorti – da anni, in realtà – che non sanno bene che cosa vuol dire, forse perché non c’è forza politica che non si dica immancabilmente liberale: dai Liberali (quelli di Renato Altissimo) ai Repubblicani ai Radicali; poi c’è l’Udc di Casini e l’Api di Rutelli, pure loro liberali; Montezemolo e i suoi amici ovviamente si dicono liberali, una parte del Pd è sicuramente liberale, molti osservatori hanno visto in Futuro e libertà una possibile destra liberale mentre è noto che Forza Italia, sin dal 1994, appunto, si atteggiava a partito liberale di massa. È interessante notare come parecchi che si dicono liberali hanno passato la vita nella Dc, nel Pci e nel Msi.
Altri, in compenso, propongono una ventata modernizzatrice che corrisponde a una riformulazione della Democrazia Cristiana, il partito-madre spazzato da Mani pulite e dalla Storia: per esempio lo propone Claudio Scajola, che ieri su Repubblica ha detto «Basta con il Pdl, buttiamo via questo nome e questo simbolo, dopo la sberla che abbiamo preso inventiamoci qualcosa di nuovo, costruiamo un percorso di lungo respiro». E il percorso di lungo respiro, la cosa nuova, sarebbe «un vero partito dei moderati… un nuovo partito con l’Udc… è chiaro che il Pdl è un partito di centrodestra, non di destra, ed è necessario d’ora in avanti avere come bussola questo sentimento maggioritario tra i nostri elettori». È bello avere delle certezze. Scajola, di passaggio, ha anche smentito il logoramento tipicamente democristiano che avrebbe riservato al Premier: sì, stava per fare dei propri gruppi in Parlamento, è vero, ma «non era un’iniziativa in contrapposizione a Berlusconi, sarebbe stato un contributo alla maggioranza per consentire un dibattito interno più libero». È senz’altro così.
Altre colombe democristiane hanno piegato alcune parole di Angelino Alfano a proprio uso e consumo. L’ormai ex guardasigilli aveva detto che «si devono aprire le finestre per fare entrare un po’ di aria fresca» (fresca, aveva detto) ma soprattutto aveva ricordato che Pdl e Udc stanno insieme nel Ppe, dunque «occorre lavorare per superare questa anomalia». Un conto però è riservare attenzione a un elettorato strategico, altra cosa è riavvoltolarsi nelle spire di un neo-centrismo che lo stesso Berlusconi, nel febbraio 2004, definì con parole poco centriste: «Voi ex democristiani mi avete rotto, basta con la vecchia politica… conosco i vostri metodi da irresponsabili, fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti… Mi avete rotto… non mi faccio massacrare due anni e mezzo per poi schiattare come un pollo cinese, affaristi che non siete altro». A parte il mistero del pollo cinese, Berlusconi era memore di come proprio i centristi (più qualche incursione di An) avessero progressivamente demolito ogni venatura liberale del suo governo: si voleva abbassare l’Irpef al 33 per cento, ma i centristi si erano opposti; si voleva liberalizzare l’economia ed emendarsi dall’assistenzialismo, ma l’Udc diceva che occorreva rifinanziare il Mezzogiorno e anche il carrozzone Alitalia, e così pure non si doveva insistere troppo con le riforme delle pensioni e della giustizia. Le parti sociali sennò si sarebbero indispettite; per non parlare del federalismo, che l’Udc diceva esplicitamente che non si doveva fare. Litigi, trattative eterne, la posta eternamente alzata, comunicazioni da un giornale all’altro, minacce di elezioni, rimpasti e rimpastini: questo era il magnifico rapporto tra Forza Italia e i centristi, gli ex Dc, la «ventata di aria fresca».
Senza contare che due paroline su Scajola, in fondo, paiono inevitabili. A proporre la ventata di aria fresca non è soltanto un ex democristiano, figlio di un ex democristiano: è un ex ministro dello Sviluppo economico che si è dimesso per uno scandalo che non pare cambiato di una virgola: non è indagato – a oggi – ma è assodato che un professionista vicino all’imprenditore Diego Anemone pagò 900mila euro per integrare l’acquisto di un appartamento intestato appunto a lui, a Scajola, anche se quest’ultimo dice che quei soldi furono pagati a sua insaputa. L’ex ministro, pubblicamente, disse che in quella casa non ci sarebbe rientrato più, che aveva dato mandato di venderla, e che, riavuta la cifra da lui spesa, avrebbe devoluto il resto in beneficenza. Nei fatti, non ha fatto niente del genere. Ora è rientrato nella sua casa davanti al Colosseo. Un comportamento lecito, ma democristiano anche questo.