Un italiano vero
Marco Travaglio è un diffamatore salvato dalla prescrizione, quella stessa prescrizione contro la quale si è scagliato un sacco di volte: ma alla quale, ora, si guarda bene dal rinunciare nonostante la legge glielo consenta. Ecco, l’abbiamo scritto come avrebbe fatto lui, con la stessa grazia. Anzi neanche: lui forse avrebbe aggiunto cose tipo «Travaglio l’ha fatta franca» o «fatti processare» o qualcosa del genere.
Noi ci limitiamo ad aggiungere che a leggere le motivazioni della sentenza d’appello, per quanto giunte fuori tempo massimo, dubbi non ne restano: la condanna è stata confermata a tutti gli effetti e spiega come Travaglio abbia manipolato un fatto e abbia scritto il falso, per giunta con dolo. E un galantuomo – sempre per rifarci al linguaggio travagliesco – non rischierebbe di essere confuso con un Berlusconi o un D’Alema o un Andreotti, se si reputa innocente: rinuncerebbe alla prescrizione. Perché lui non lo fa?
Ma riassumiamo i fatti, perché sono gustosi. La condanna in primo grado è dell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Cesare Previti. Parentesi: la diffamazione è il reato a mezzo stampa per eccellenza, spesso è fisiologico a chi scrive di cose giudiziarie: nel caso di Travaglio, tuttavia, la condanna lo trasformò in un classico bersaglio del suo stesso metodo, e anche per questo, due anni fa, i media diedero un certo spazio alla notizia. L’articolo di Travaglio comunque era del 2002, e su l’Espresso era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo, poi, era un classico copia e incolla dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri».
Una diffamazione bella e buona, non si sa quanto intenzionale o quanto legata a certa sciatteria che i giornalisti spesso associano alla necessità di sintesi. Sta di fatto che il giudice Roberta Di Gioia del Tribunale di Roma, il 15 ottobre 2008, condannava Travaglio ai citati otto mesi. E scriveva: «La circostanza relativa alla presenza dell’onorevole Previti in un contesto di affari illeciti è stata inserita nell’articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante… è evidente che l’omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente nell’articolo, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto… al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Ma il peggio doveva ancora venire: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione».
In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare.
«Ricorrerò in Appello» aveva annunciato il giornalista dopo la condanna: e pazienza se infinite volte si era detto favorevole all’abolizione dell’Appello. «Vedremo le motivazioni della sentenza» aveva poi commentato. Poi, quando furono rese note, non disse una parola.
La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010. In quel periodo Travaglio stava litigando furiosamente (via web) con Enrico Tagliaferro, un blogger particolarmente scolarizzato che gli aveva fatto le pulci in più circostanze. La sentenza in sostanza confermava la condanna: semplicemente gli era stata concessa, per attenuanti generiche, una riduzione della pena. Ma Travaglio faceva il furbo e così scriveva a Tagliaferro: «La sentenza di primo grado in cui venivo condannato a otto mesi più un paio di multe e ammende è stata appena devastata dalla Corte d’appello, che elimina la pena detentiva e lascia una multina di 1000 euro». Devastata, aveva scritto. «Ora aspetto la motivazione», aggiungeva, «e mi auguro che venga scritta da un giudice che abbia la più pallida idea di che cos’è un articolo di giornale».
Il problema è che la motivazione, per essere depositata, non ha impiegato i consueti sessanta giorni: ha impiegato un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione, orrore. Forse che erano motivazioni particolarmente complesse? Diremmo di no, visto che occupano due sole pagine. Ma che cosa dicono? Non è un dettaglio da poco, visto che lo stesso Travaglio, nella sua disputa telematica con Tagliaferro, era stato tassativo: «Quando parlo di Corti d’appello come “scontifici” mi riferisco a quando mantengono inalterato l’impianto accusatorio e limano qualche giorno sui mesi o qualche mese sugli anni inflitti in primo grado. Quando invece stravolgono le condanne di primo grado, fanno altro: le riformano, le rivedono, le smentiscono. Vedremo se è così anche nel caso mio».
No, ora lo sappiamo: non è il caso suo. La sentenza d’Appello non stravolge, non riforma, non rivede, non smentisce, anzi: «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito», si legge, «in quanto ottimamente motivata, con piena aderenza alle risultanze processuali… con giuste e corrette considerazioni in diritto; il tutto da intendersi qui riportato, senza inutili ripetizioni, come parte integrante della presente motivazione. È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria nei confronti dell’on. Previti… Bastava omettere la frase “in quell’occasione presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti” per evitare qualunque diffamazione, senza togliere alcunché alla notizia… Proprio l’averlo inutilmente nominato, e l’aver totalmente omesso la specifica precisazione circa l’assenza fatta dal teste, è prova del dolo da parte del Travaglio».
Tentiamo una sintesi, possibilmente migliore di quelle diffamatorie azzardate da Travaglio. Allora: Travaglio se la prende coi giornalisti diffamatori, ma è un diffamatore anche lui. Travaglio dice che una prescrizione non equivale a un’assoluzione bensì a una condanna: quindi lui è stato condannato. Travaglio dice che un innocente che si reputasse tale dovrebbe rinunciare alla prescrizione: ma lui alla prescrizione non rinuncia. Travaglio è favorevole all’abolizione dell’Appello: ma poi ricorre in Appello. Travaglio ha scritto che le corti d’Appello sono solo degli «scontifici» che mantengono inalterato l’impianto accusatorio e che limano soltanto la pena: è proprio quello che è successo a lui. Un italiano vero.