La pessima legge sul fine vita
A giorni dovrebbe riprendere la discussione sul cosiddetto «fine vita», la legge sul testamento biologico che fu parzialmente abbozzata e approvata un paio d’anni orsono. Accadeva a ridosso della morte clinica di Eluana Englaro (9 febbraio 2009) e da vari punti di vista stiamo parlando di una vita fa, basti pensare che il PdL era stato appena fondato e che tutt’altre erano le discussioni che occupavano il Paese: persino questa sugli stati vegetativi e le nutrizioni e le idratazioni, appunto.
Serve poco per chiedersi, oggi, che senso abbia tornare a infilarsi nel ginepraio pratico e ideologico che la discussione di questa legge porterebbe con sé: che senso abbia, soprattutto, per un governo e per un premier che di problemi ne hanno decisamente altri, esattamente come l’intero Paese. Anche perché il disegno di legge in discussione, ricordiamo, non era un ponderato rimedio giunto dopo che la politica aveva ignorato per decenni un problema importante, regalato all’arte di arrangiarsi di medici e famiglie o peggio all’invadenza della magistratura: quel disegno di legge fu improvvisato in quattro e quattr’otto specificamente per «salvare» Eluana Englaro. La Corte Costituzionale e il Capo dello Stato non si erano opposti alle decisioni della Cassazione sul tema (fu sancito che lo stato della ragazza era irreversibile, e che in passato lei si era detta contraria all’idea di voler restare in condizioni analoghe) e anche il premier Silvio Berlusconi – mentre ministri e sottosegretari come Maurizio Sacconi ed Eugenia Roccella si davano un gran daffare – per lungo tempo rimase emblematicamente zitto.
Questo per due ragioni: anzitutto perché conosceva i sondaggi sull’argomento (la maggioranza degli italiani, di destra e di sinistra, era dalla parte di Giuseppe Englaro) ma anche per un’opinione personale che ebbe modo di esprimere il 20 dicembre 2008: «Su queste materie ho sempre pensato che non sia l’esecutivo a doversene prendere carico». Cambiò idea solo nelle ore in cui la condizione di Eluana sembrava all’epilogo, ma comunque troppo tardi: l’idea di un decreto legge fu stoppata dal Quirinale e il disegno di legge non arrivò in tempo.
Ecco: pur sfibrato, il disegno di legge è ancora quello. È la bozza Calabrò, già approvata in prima lettura al Senato: più una legge sugli stati vegetativi che la predisposizione di un vero e proprio testamento biologico come previsto in tutto l’Occidente; un provvedimento emergenziale, sicuramente ideologico, secondo il quale nutrizione e idratazione non sono previsti come trattamenti sanitari – come lo sono in tutto il mondo, e a parere del 99 per cento dei medici – nonostante siano appunto dei medici a operarli: e infatti devono essere prescritti.
Che voglia possa avere Silvio Berlusconi di tornare a discuterne proprio adesso – in un Paese che attende ben altre leggi e riforme, con un calendario peraltro falcidiato dai processi – è il grande mistero che andrebbe posto. Anche perché si tratterebbe di un passaggio comunque tutt’altro che popolare e indolore: sulla bozza Calabrò incombe il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione (nessuno può essere obbligato a trattamenti sanitari che non desidera) e da qui è facile prevedere nuove polemiche e attriti e corsi e ricorsi di cui il Paese non sente tremendamente il bisogno.