Due pesi e due immunità
Parlassero almeno bene, Di Pietro e De Magistris: è che razzolano pure da schifo. Dicono «mi dimetto» e poi restano lì, tuonano contro l’immunità parlamentare e poi se ne avvalgono. E non una volta sola. Il caso più fresco, quello di De Magistris, l’ha raccontato ieri il Corriere della Sera: nell’ottobre 2009 l’ex magistrato aveva detto «Mastella era a capo di un mercato criminale di posti di lavoro» e l’uomo di Ceppaloni l’aveva subito denunciato penalmente e civilmente, ma ecco la risposta che 5 luglio scorso è giunta a Jerzy Buzek, presidente del Parlamento europeo: «Ritengo che le affermazioni da me rilasciate», parole di De Magistris, «costituiscano espressione dell’attività politica di un parlamentare».
Attività politica? Era un’intervista a Epolis. Ma ecco la spiegazione: «Ho deciso di difendermi così perché noi non viviamo in un Paese normale, ma in un regime». Paura? Non scherziamo: «Non temo l’azione civile intentata da Mastella». E non si parli di contraddizione: diciamo semmai, con De Magistris, che «esiste un problema di interpretazione del codice etico Idv». Esiste sì: la settimana scorsa l’ex magistrato era stato anche rinviato a giudizio per omissione di atti d’ufficio a Salerno, ma ecco, non si era sospeso come prevede il codice etico dell’Idv: «No, sarebbe la vittoria del burocraticismo», aveva detto, «perché la questione morale non va ridotta al casellario giudiziario… Si tratta della mia attività di pm, non di politico». Riassunto: non si fa querelare perché è un politico, non si dimette perché era un magistrato. Un assioma che ha lasciato perplessa persino il suo storico collega Clementina Forleo: «Luigi, quanto vale per te non credi debba valere per tutti?», ha scritto.
È che lui, Luigi, con le dimissioni ha proprio dei problemi. «De Magistris si dimetterà dalla magistratura subito dopo le elezioni, lo assicuro» annunciò Di Pietro il 17 marzo 2009, e questo perché «Noi applichiamo la legge morale». Certo. Da marzo a ottobre di quell’anno De Magistris annunciò le dimissioni almeno dodici volte, sinché le diede con sforzo sovrumano: «Presidente Napolitano, lascio la toga anche per colpa sua» scrisse con la consueta chiarezza. Che c’entrava Napolitano? In pratica sostenne che il Capo dello Stato non l’aveva difeso «dalla politica, dai poteri forti, dall’interno della magistratura» e dai «mafiosi di Stato», giacché per fermare i servitori dello Stato come lui, oggi, cioè allora, «non è più necessario ucciderli». Lo scrisse su Il Fatto. Una tesi seria come tutte quelle di De Magistris: anche perché dalle sue parole si desumeva che la «mafia di Stato» fosse composta da quella stessa magistratura che aveva stroncato tutte le sue inchieste: giudici, gip, gup, ispettori ministeriali, componenti del Csm, componenti del Tribunale dei ministri, esponenti dell’Associazione magistrati.
E Di Pietro che dice? Figurarsi: fu lui, il 17 marzo, 2009, a candidare De Magistris benché fosse indagato: spiegò che lo era per «atto dovuto», una formalità, tutto risolto. In realtà aveva i suoi problemi, Di Pietro: dopo aver candidato l’inquisito De Magistris, e dopo non aver eccepito a che suo figlio Cristiano mantenesse lo stipendio di consigliere provinciale benché inquisito, e dopo aver cooptato mezza famiglia in politica, e dopo essersi intestato la ricezione di tutto il finanziamento pubblico del Partito, dopo tutto questo, insomma, proprio in quell’acerbo 2009 ecco la nemesi definitiva a 17 anni da Mani pulite: Di Pietro – pure lui – si trincerava infatti dietro l’immunità parlamentare, e questo per non essere condannato in una causa per diffamazione che l’avrebbe sicuramente visto perdente.
Il Parlamento europeo infatti aveva deciso di non revocare l’immunità che Di Pietro stesso aveva chiesto, dopo averlo pubblicamente negato. E attenzione, è come De Magistris con Mastella: non si trattava neppure di un procedimento penale, ma di una causa civile, Di Pietro cioè lo fece solo per non perdere soldi, proprio come i mostri della casta.
Ecco i particolari per gli increduli. Nell’ottobre 2002 Di Pietro scrisse un articolo sul quotidiano «Rinascita della sinistra» (organo dei comunisti italiani) e con esso una serie di sciocchezze: indicò il giudice Filippo Verde come uno degli imputati del processo per il Lodo Mondadori e lo dipinse oltretutto come uno dei giudici che avrebbe influenzato l’annullamento della sentenza favorevole a Carlo De Benedetti. Si leggeva nell’articolo dipietresco: «Per l’insieme di queste vicende, la pubblica accusa rappresentata dalla tenace Ilda Boccassini ha chiesto pene di tutto rispetto, tra cui 10 anni per il giudice Filippo Verde». Che era falso, appunto: Filippo Verde non è mai stato coinvolto nel processo Lodo Mondadori, è stato solamente imputato nel processo Imi-Sir e peraltro è stato assolto in primo grado e anche in Appello. Ma Di Pietro della castroneria neppure si accorse, anzi, nel febbraio 2003 ripubblicò lo stesso articolo sul sito dell’Italia dei Valori. E fu lì che partì la causa per diffamazione con richiesta di risarcimento, visto che Di Pietro non aveva smentito né rettificato bensì addirittura reiterato, per usare il suo linguaggio. Ergo, i legali di Verde gli chiesero 150mila euro di risarcimento.
Un anno e mezzo più tardi, dopo che la pratica inspiegabilmente si era congelata per un anno e mezzo nella cancelleria del Tribunale di Roma, Di Pietro si costituì ufficialmente e presentò la richiesta di immunità: l’avvocato Sergio Scicchitano, legale di Di Pietro nonché deputato dell’Italia dei valori, mise per iscritto che «L’articolo deve intendersi quale espressione di critica politica e dunque si richiede che nel caso di specie venga applicato l’articolo 68 della Costituzione». Cioè: dire che un giudice ha influenzato illecitamente una sentenza, e che per lui hanno chiesto dieci anni di carcere, è una critica politica. Il giudice di Roma inoltrò la pratica all’apposita commissione di Bruxelles.
Era da una vita che Di Pietro per qualsiasi sciocchezza invitava la classe politica a farsi giudicare come cittadini qualsiasi. L’anno precedente aveva lanciato una sfida delle sue: «Se Berlusconi vuole querelarmi, rinunci all’impunità».
L’aveva ripetuto di recente: «L’articolo 68 della Costituzione (l’immunità parlamentare, nda) va cancellato perché aveva senso quando fu scritto, dopo la fine del fascismo. Ho sempre detto che andrebbe abrogato».
Quando Di Pietro querelava un altro politico, poi, non mancava mai di scrivere: «Mi auguro che, come me, Ella rinunci all’immunità e accetti il giudizio del giudice terzo». E quelli poi non erano giorni qualsiasi: era il febbraio 2009 e c’era Di Pietro per strada che raccoglieva firme contro il Lodo Alfano. La notiziola che Di Pietro aveva chiesto l’immunità – forse – la diede per primo e quasi per ultimo Paolo Bracalini, un cronista del Giornale. Di Pietro rispose il 6 febbraio, come infastidito:
«Con riferimento alle notizie di stampa che ipotizzano ciò che io andrei a sostenere al Parlamento europeo la prossima settimana, specifico che non chiederò l’immunità, ma che il procedimento civile prosegua… Tale rinuncia all’immunità verrà da me formulata in un atto scritto che pubblicherò sul mio blog, in modo da evitare qualsiasi strumentalizzazione».
Non chiederò l’immunità, voglio che mi processino, vi terrò informati. Di Pietro ogni tanto dismetteva improvvisamente la sua chiarezza popolana, ma aveva scritto questo.
Giungeva il 22 aprile 2009: «Approvando con 654 voti favorevoli, 11 contrari e 13 astensioni la relazione di Aloyzas Salakas (Pse, Lt), il Parlamento ha deciso di non revocare l’immunità di Antonio Di Pietro a seguito dell’ordinanza del Tribunale Civile di Roma rivolta al deputato nella causa civile intentata da Filippo Verde. In tale ordinanza il Tribunale italiano, esaminando l’argomento difensivo sollevato da Di Pietro “sotto forma di eccezione di insindacabilità”, ha chiesto al Parlamento europeo di decidere sulla sua immunità, dal momento che all’epoca dei fatti egli era parlamentare europeo…. egli stava esercitando le sue funzioni di parlamentare, esprimendo la sua opinione su un tema d’interesse pubblico per i suoi elettori. “Cercare di imbavagliare i parlamentari, avviando procedimenti giudiziari nei loro confronti, per impedire loro di esprimere le proprie opinioni su questioni che suscitano un legittimo interesse e preoccupazione nell’opinione pubblica, è inaccettabile in una società democratica”».
E non bastava: per distrarre il volgo, nello stesso giorno, l’ex pm si metteva a inveire contro Silvio Berlusconi in questo modo: «Si avvale del Lodo Alfano anche per sfuggire alla mia querela per diffamazione… È vergognoso usare il Lodo Alfano anche per difendersi dall’accusa di diffamazione». Molto meglio l’immunità parlamentare. Quella europea. magari: sperando che nessuno se ne accorga.
Altri – a proposito di immunità europarlamentari – sono stati meno fortunati. Fece appena più rumore quel Parlamento Europeo che negò la revoca dell’immunità parlamentare per il caso Unipol; si sancì che non potessero essere usate le intercettazioni delle conversazioni telefoniche in cui c’era la voce di Massimo D’Alema: 543 voti a favore, 43 contro e 90 astensioni. A chiederne l’utilizzo era stato il gip Clementina Forleo il 20 luglio 2007, ma la Camera aveva rinviato a Strasburgo perché all’epoca D’Alema era europarlamentare. D’Alema, come Di Pietro, non si processa. Perché no.