Dati causa e pretesto
Ma certo che la faccenda di Fini e della casa a Montecarlo non è propriamente una «campagna di fango», come hanno scritto Repubblica e Corriere. Ma certo che gli articoli in questione sono frutto del lavoro di giornalisti «che hanno indagato e interrogato testimoni e rintracciato atti». A costo di suonare ovvi, c’è però da chiedersi se la stampa di centrodestra si sarebbe mai sognata, anche solo un anno fa, di indagare, interrogare testimoni e rintracciare atti sul numero due del partito e della maggioranza di governo; così come suona paradossale immaginare, anche solo un anno fa, che Repubblica e Corriere potessero sostanzialmente difenderlo liquidando il tutto come una campagna di fango. Limitiamoci dunque a registrare, così, tanto per puntiglio, che la veridicità di una notizia e la fondatezza di un’inchiesta ormai vengono rigorosamente dopo l’opportunità politica di pubblicarle.
Ovvio, dite? Può essere, forse è per questo che nessuno lo ripete neppure più. A partire dalle frequentazioni pericolose di Renato Schifani o dalle molestie di Dino Boffo – due sostanziali bufale soprattutto vecchie – parte del giornalismo italiano non cerca più soltanto notizie, ma ne ripesca di vecchie e ne rimette a modello altrettante, secondo circostanza.
Questa parentesi sul giornalismo in realtà serve ad allacciarsi al caso di Gianfranco Fini. Ciò che si rimprovera al presidente della Camera e ai suoi famosi «distinguo», infatti, corrisponde a ciò che è rimproverabile al succitato giornalismo: Fini non direbbe cose false, cioè, ma politicamente vecchie e inopportune; dice ossia delle cose magari anche ragionevoli che però nel concreto vengono qualificate come un pretesto politico per rompere le scatole a Berlusconi. Il folgorato Fini, insomma, non è dotato di un universo politico e culturale a nome del quale vuole costruire un potere, ma vuole costruire un potere inventandosi un universo politico e culturale, qualcosa di farlocco, addirittura «di sinistra». Questa l’accusa.
È fondata? Potrebbe anche essere, in certe uscite dei Fabio Granata c’è qualcosa di improbabile e surreale. Non me la sentirei di dire lo stesso, tuttavia, per altri come Benedetto Della Vedova o Flavia Perina o Luca Barbareschi: se i problemi posti da Fini fossero anche pretesti, per alcuni – non solo finiani – restano problemi. Da qui una tesi rivoluzionaria: che i famosi pretesti imbracciati dai finiani, guerre di successione a parte, fossero comunque maledettamente importanti e fondati: cosicché col divorzio Fini-Berlusconi ora va a catafascio anche l’idea che il partito più grande del Dopoguerra possa avere delle pluralità al proprio interno, quelle identità cioè che corrispondono alle mille sfumature della società, e la cui sintesi, un tempo, era il motore della politica. E non dicano che il pluralismo c’era già, non facciano sbellicare: non c’era prima e figurarsi adesso. C’erano in ballo due modelli di partito e ha vinto uno solo: il Pdl è un comitato elettorale o in alternativa un partito plebiscitario con venature populiste. Fini, pretestuosamente o no, diceva che così non funziona. Berlusconi invece ha ribadito che funziona, ma che funziona così.
Deve riconoscersi che il furbacchione Fini, nell’inventarsi via via dei pretesti, è stato comunque abile, machiavellico. Ha detto, infatti, delle ovvietà: tipo che «Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso». Ha fatto asserzioni che nella destra di Cameron e Sarkozy, o nei cristiano-democratici della Merkel o dello spagnolo Rajoy, sarebbero considerate addirittura banali. Ha aperto alle coppie di fatto, ha votato quattro sì al referendum sulle staminali-embrionali, ha preso posizione a margine dei casi Welby ed Englaro, non ha rinunciato a evidenziare certa ignavia del Vaticano di fronte delle leggi razziali, ha difeso – senza diventare una caricatura come Fabio Granata o come Giulia Bongiorno – una sua idea di legalità: praticamente un bolscevico. E i bolscevichi, in questo Paese, sono milioni. E però molti – attenzione – votano a destra.