Berlusconi, Fini o niente?
A me di Gianfranco Fini non me ne frega niente, ma sto con lui. Ho già scritto che si può essere «finiani senza Fini» e guardare con simpatia al sommovimento che ha creato: anche se non si ha nulla a che spartire col suo retroterra culturale, col suo passato, con le sue metamorfosi. L’ampissimo centrodestra italiano, del resto, non è diviso solo tra berlusconiani e finiani, non porta soltanto i mocassini e le giacche berlusconiane in alternativa al maledetto «cachemire» che si tende a immaginare su chiunque appaia diverso dall’archetipo che ci piace. Ciò che m’interessa, anzitutto, è che assieme a Fini se ne va a catafascio anche il banalissimo assunto secondo il quale il partito più grande del dopoguerra dovrebbe avere delle pluralità al proprio interno, quelle identità che corrispondono alle mille sfumature della società e la cui sintesi, un tempo, era il motore della politica. Detto in termini medici: Fini potrebbe aver torto nella terapia, e magari andarsi presto a schiantare: ma la sua diagnosi è proprio tutta sbagliata? Sicuri che i problemi da lui posti siano soltanto dei pretesti per reclamare fette più generose di potere? Io no, io non sono sicuro. Anzi, sono abbastanza certo del contrario.