Perché le aziende non pagano volentieri i creativi
La campagna #coglioneno, tre video girati piuttosto bene da un collettivo di filmmaker per sensibilizzare il pubblico sulla dignità dei lavori creativi (in particolare quelli fatti da freelance), ha due pregi.
Il primo è aver portato all’attenzione di molti, con un sorriso, un problema serio: lo scarso rispetto che molte aziende riservano al lavoro creativo e ai suoi interpreti, che spesso si traduce in pratiche orribili come il mancato pagamento, spesso con la beffa del “ti paghiamo in visibilità” e il ricatto “non c’è budget”.
Il secondo è aver aperto una conversazione diffusa sul tema del lavoro creativo e dei suoi interpreti, scatenando una prevedibile sequenza di incomprensioni tra realtà, mito e percepito da parte di terzi.
La discussione mi coinvolge molto: in vent’anni tondi di lavoro nei paraggi della creatività mi è capitato di giocare in buona parte dei ruoli possibili: freelance a diversi gradi di anonimato, titolare d’agenzia, consulente, scribacchino, cliente, ultima spiaggia, ecc. e mi sento parte in causa per ragioni diverse e spesso contrastanti.
Guardando un po’ più in là rispetto alla degenerazione del dibattito “gli imprenditori sono tutti ladri vs i creativi sono tutti hipster figli di papà da mandare in miniera” e cercando di descrivere e possibilmente spiegarmi lo scenario, vedo tre punti rilevanti, riassunti da tre ragioni per cui il cliente spesso non paga o paga malvolentieri il creativo.
“Non so valutare cosa ho comprato. Nel dubbio non pago.”
Il lavoro creativo ha un difetto intrinseco: non è facilmente e immediatamente misurabile in modo univoco. E quello che non si misura (e quindi di cui non si percepisce la parte oggettiva del valore) si vende con difficoltà.
Per quanto ci si sforzi a produrre un briefing dettagliato e approfondito su cui far lavorare i creativi, resta il fatto che la creatività non è una scienza e le categorie del bello e del brutto, oltre a essere per definizione opinabili, spesso sono parametri poco o nulla rilevanti nella misura del successo di un progetto.
Insomma, il lavoro creativo è espostissimo a critiche di tipo estetico (che tutti si sentono legittimati a fare) e non ha una correlazione diretta e dimostrabile col successo del progetto in cui è inserito, quindi non è esposto a misurazioni di tipo quantitativo.
Un cliente, cioè, potrebbe affermare che una campagna pubblicitaria che ha prodotto ottimi risultati è merito della strategia e del timing (che sono misurabili: producono cifre spendibili in riunione coi capi, ecc.) e non della sua creatività.
Il lavoro creativo non ha “dati alla mano” che certificano il suo contributo al successo. Certo, lo si può giudicare un po’ a spanne basandosi sul buonsenso, la competenza e l’esperienza, realtà che difficilmente offrono un file Excel ai reparti marketing.
Ecco perché da anni le agenzie pubblicitarie tendono a diventare sempre più centri che propongono ai clienti un mix di strategia e creatività: raddoppiano le occasioni di business e imballano il lavoro creativo in un pacchetto di dati misurabili.
“Hai faticato poco per fare questo lavoro. Non ti pago.”
Il secondo punto sfiora malamente l’antropologia culturale. Il fatto è che la nostra società, come molte con una radicata cultura cristiana, ha fatto coincidere per secoli il giudizio sul valore di un prodotto creativo con la fatica profusa per crearlo.
Non storcete il naso. Vi è mai capitato di sentire qualcuno dire, di fronte a un’opera d’arte contemporanea, “cosa ci vuole a farla? Sono capaci tutti!”? E negli anni Novanta siamo tutti incappati nella polemica rock vs elettronica, cioè “musicisti che fanno musica vera, sudando vs ragazzini di fronte a un computer nella loro cameretta”.
Ecco, quelli sono retaggi di quell’impostazione culturale lì, che viene da lontano ed è talmente radicata nel nostro modo di pensare che in latino e in buona parte dei dialetti nostrani, “lavoro” e “fatica”/”travaglio” sono sinonimi.
Il fatto che il lavoro creativo spesso si svolga da seduti, al caldo, senza apparente fatica fisica, continua a modo suo a essere un problema (o il relitto di un problema) per molti. Stare lì a farsi venire (o a perfezionare) un’idea spesso viene percepito come non lavorare. Non è un caso che non di rado il focus dei clienti sia più sulla quantità e la qualità formale dei “deliverable”, cioè sugli oggetti su cui la creatività si concretizza.
Cioè, molti preferiscono (o si sentono più rassicurati da) un’idea così così, ma declinata in mille formati e rifinitissima rispetto a un’idea ottima, esibita da un creativo che “si è presentato con un disegnino”. E pagano più volentieri la prima: si “tocca” più lavoro.
“Non riesco a comprare bene quello che vendi. Quindi compro male e poi non pago”.
Il terzo è il punto più spiacevole: l’inadeguatezza delle imprese nostrane. Non sta a me parlare male del capitalismo italiano, perché il tema “imprenditori brutti” e il derivato “impiegati stupidi/ignoranti” è ormai un genere letterario affine al comico, con la giusta dose di iperboli e ingenerosità.
Al netto di tutte le eccezioni, quello che intuisco è che l’inadeguatezza delle imprese nostrane si manifesta sotto forma di scarsa consapevolezza delle regole, delle possibilità e dei limiti del lavoro creativo, con l’aggravante di un’ignoranza (o, peggio ancora, un approccio positivo ma fideistico) riguardo la Rete e i social network.
Faccio due esempi emblematici, limitati all’approccio a Internet:
- approccio mendicante : “per questa campagna non abbiamo budget, quindi ‘facciamo Internet'”
- approccio stregone: “mi fai un video virale?”
L’idea che se non ci sono soldi si possa “fare Internet” cela una premessa sbagliata: Internet è la Caritas, dà senza chiedere.
Invece Internet (in tutti i suoi aspetti: produzione e owned/bought/earned media) costa. Ha semplicemente soglie di accesso con costi molto inferiori agli altri mezzi e garantisce spese in spazi media più razionali e mirate, ma il lavoro creativo richiesto non è di qualità inferiore a quello necessario per gli altri mezzi.
C’è, tuttavia, ancora questa convinzione sbagliata presso molti e cioè che la Rete sia un mezzo in cui tutto costa poco, inclusi i creativi. Nel paese in cui non pochi manager vantano “un ragazzino amico di mio cognato che mi fa lo stesso sito a un decimo del prezzo” la squalificazione del lavoro creativo online (che è buona parte del lavoro creativo totale) è un accidente probabile anche nei progetti più seri.
Anche l’idea che la Rete sia uno stregone che possa produrre miracoli segnala una premessa fallace: i miracoli sono industrializzabili e riproducibili.
Se ci fosse una scienza che garantisce contenuti virali, cioè che circolano automaticamente grazie al passaparola degli utenti, chi sarebbe così stupido da fare contenuti che necessitano di un investimento media per essere diffusi?
Il creativo onesto che spiega al cliente che i contenuti non nascono virali ma lo diventano in base a meccaniche difficilmente prevedibili e controllabili, sovente legge sulla faccia del suo interlocutore il pensiero: “Ecco, non è capace e mette le mani avanti!”.
Nei ragionamenti avventati dei clienti rispetto alla Rete spesso si legge un mix di ingenuità e insufficiente conoscenza d’ambito.
Fino a quando la Rete sarà considerata da alcuni alla stregua dei “sistemoni” sicuri per vincere alla roulette (cioè una soluzione che non si padroneggia ma che per sentito dire pare garantisca benefici facili e a poco prezzo), le professionalità non tecniche legate a quel mondo saranno sempre considerate poco utili e pagate di conseguenza.
In molti casi, cioè, è vero il paradosso per cui le aziende sono più disposte a investire in prodotti e servizi online che in diffusione interna della conoscenza di ciò che comprano.
A questo punto dovrebbe esserci un paragrafo in cui ragiono su possibili soluzioni a tutti questi mali. Il tema è così complesso da richiedere altri spazi, altri tempi e soprattutto altre competenze. Mi limito a osservare che buona parte dei problemi sembrano nascere da una scarsa diffusione, in particolare nella piccola e media impresa, di culture (i nuovi scenari creativi e le nuove professionalità collegate) che per loro natura sono inafferrabili poiché in evoluzione costante.
Formare i clienti affinché siano in grado di valutare e quindi valorizzare (e quindi pagare) meglio il lavoro creativo mi sembra una soluzione ragionevole, ma è il minimo.
Servirebbe, credo, un’operazione culturale “di settore”, che congiunga gli sforzi di creativi analogici, digitali, assunti, freelance, ecc., e vada incontro al mercato, spiegando(si). I tempi, però, non mi sembrano buoni: il settore della comunicazione è in crisi nera ed è in atto una guerra tra poveri (della peggior specie: ex ricchi) che non fa ben sperare in operazioni ecumeniche.