La leggenda e la falena
Pare incredibile come la bruttezza possa diventare così emozionante come accade nel tennis. Ci sono volute quasi cinque ore di miniera perchè Novak Djokovic avesse la meglio su Andy Murray nella seconda semifinale degli Australian Open. Cinque ore di gioco bruttino, fatto di infiniti scambi da fondo vinti da chi reggeva meglio la fatica in quel momento. A fine partita Djokovic ha guardato, con quella commozione che si prova nel parlare con una leggenda, in direzione di Rod Laver e gli ha detto: “La ringrazio signore di essere rimasto così a lungo a guardarci. Mi scuso solo di averla costretta a vedere due giocatori piazzati perennemente sulla linea di fondo. Sarebbe stato bello farle ammirare un po’ di gioco a rete ma siamo fatti così”.
Era una partita attesa, perchè era la ripetizione della finale dell’anno scorso, persa malissimo da Murray e perchè lo scozzese ora si allena con Ivan Lendl e tutti si aspettano che faccia il salto di qualità (leggi: vinca uno Slam). La partenza è stata scoraggiante, con Andy subito ad inseguire, contratto e nervoso, incapace di tenere risolvere gli scambi, infiniti, che inevitabilmente venivano vinti dal serbo. Una quarantina di minuti che non lasciavano sperare nulla di buono e che invece hanno fatto da preludio alla rimonta di Murray.
Rimonta nata da un improvviso appannamento di Djokovic, da sempre alle prese con problemi respiratori, scomparsi nel 2011 ma che a tratti sono sembrati in procinto di tornare protagonisti. Novak ha iniziato ad aggirarsi per il campo ciondoloni, con le gambe pesanti, neanche avesse le pattine per la cera. La testa improvvisamente è scesa di 90% verso terra, gli occhi si sono spenti e Djokovic ha cominciato a boccheggiare. Aria che se ne va da una parte, aria che torna dall’altra con Murray intento a colmare la distanza e capace di prendere la testa nel terzo set.
Ma i drammi non vengono mai da soli e se da una parte mancava ossigeno nei polmoni, dall’altra ha iniziato a mancarne in testa. I pensieri si potevano quasi leggere nel cranio madido dello scozzese, intento a ripetersi a mo dì mantra “non puoi perdere, non puoi perdere”. E così occasioni da una parte e dall’altra, continui ribaltamenti di fronte sino all’inevitabile tiebreak che Murray ha inaspettatamente portato a casa raccimolando tutte le energie mentali a sua disposizione.
Energie che sarebbero servite nel quarto set in cui Djokovic ha ripreso vigore tanto da partire a razzo e chiuderlo in brevissimo tempo. Il quinto set non prometteva nulla di buono, stesso blocco mentale da una parte, stessa caparbietà dall’altra. In un battibaleno Murray serve sul 2 a 5 e la partita sembra finita. Eppure. Eppure le cose cambiano ancora, Murray diventa un novello Nadal, lotta su ogni punto e si porta addirittura alla palla break per andare a servire sul 6 a 5 in suo favore.
Dall’altra parte però non c’è Federer. C’è un giocatore che, con il suo atteggiamento sbruffone e presuntuoso, è in grado di rimanere appeso ad un filo e di restarci a lungo. Bastava guardarlo in faccia Djokovic quando gli si è abbattuta la tempesta Murray e il pubblico si è schierato compatto affianco alla rimonta dello scozzese. Chiunque sarebbe sprofondato nel panico, lui rideva. Murray faceva un vincente, lui rideva. Murray gli toglieva il servizio, lui rideva. Rideva perchè sapeva che avrebbe avuto un’ultima occasione per tornare padrone del match.
Lo sapeva e la attendeva come solo i campioni sanno fare. Un sorriso che si è trasformato in risata quando, sdraiato a terra per celebrare la vittoria, una falena si è librata in volo palesemente scocciata del disturbo arrecatole dal campione in carica. Forse questa sconfitta farà bene a Murray. Ha capito che si può perdere in maniera diversa, lo si può fare lottando e con orgoglio, senza lamentarsi ad ogni punto e ragionando. Questa partita farà sicuramente bene a Nadal che, con 24 ore di riposo in più, avrà stappato qualche bottiglia di birra mentre si godeva comodamente l’incontro in cameretta.
Djokovic b. Murray 63 36 67 61 75