Che fare del PD
A Sannazzaro de’ Burgondi c’è una delle raffinerie più grandi d’Italia con il suo Green Data Center, che ospita l’High Performance Computing di Eni per l’esplorazione e la modellistica di giacimento degli idrocarburi nel mondo. Questa raffineria è cresciuta con il lavoro di migliaia di operai come Pasquale, che arrivò dalla Sicilia a quattordici anni sessant’anni fa. I primi tempi dormì sui cartoni in Stazione Centrale a Milano, poi trovò lavoro qui, in raffineria. Si sposò, fece due figli maschi, riuscì a farli studiare e ora lavorano entrambi, uno lontano da casa, mentre Pasquale è in pensione da un po’.
L’ho conosciuto al gazebo del PD per le elezioni del 4 marzo: sono stata candidata per la Camera dei Deputati al collegio uninominale di Vigevano-Voghera per il Partito Democratico, un collegio che aveva il bollino della “missione impossibile” fin da subito. E infatti ho perso, qui il centrodestra ha superato il 50% dei consensi.
Pasquale mi ha raccontato che ha sempre votato a sinistra, dal PCI al PD, e che l’avrebbe fatto di nuovo ma che una cosa dovevamo fare noi del partito: “Basta negri”.
Lui non ne può più di vederli ciondolare in giro per il paese e ha deciso, insieme con la moglie, di non dare loro nemmeno più l’elemosina fuori dal supermercato. “Io ho sempre votato a sinistra, ma ora per questi qui non c’è lavoro, devono stare a casa loro, è diverso da quando siamo arrivati noi.” In compenso, sfamano il vicino di casa, un quarantenne italiano e separato, che a fatica riesce a pagare l’affitto: “Mia moglie gli prepara un piatto caldo al giorno, lo stesso che mangiamo noi, e la domenica un pasto completo: primo, secondo, contorno e pure il dolce.”
Ho scelto Pasquale (un nome di fantasia) perché racchiude nella sua storia molte delle domande a cui dobbiamo rispondere. Gli immigrati arrivarono dal Sud a decine di migliaia negli anni Cinquanta e Sessanta per soddisfare il bisogno di manodopera delle aziende manifatturiere pavesi, mentre i richiedenti asilo di oggi sono al massimo poche decine per ciascun paese (e in tantissimi a guida prevalentemente di centrodestra si rifiutano di farlo, saturando così le quote dei loro vicini più civili e accoglienti).
Mi sono candidata al Parlamento perché ho visto arrivare la mareggiata e ho ritenuto di dover fare la mia parte nel mettere “dei sacchi di sabbia vicino alla finestra” per dirla con Dalla. Al posto della mareggiata, è arrivato uno tsunami: gli elettori italiani hanno scelto per il 70% partiti con programmi xenofobi, populisti, antieuropeisti o sovranisti, il 70% degli italiani vuole politiche di destra, vuole il protezionismo dei dazi e l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, vuole tenersi vicini i neofascisti e scacciare a pedate gli immigrati.
Esiste ancora una parte d’Italia antifascista, riformista, di sinistra, per i diritti civili e l’Europa, lo ius soli e l’accoglienza, il reddito d’inclusione e non l’elemosina, lo sviluppo delle imprese e il sostegno al lavoro, le pari opportunità per tutti, anche per chi è nato dispari. Ma noi ora siamo le macchie, il leopardo è tutto il resto (e qualcuno pronto a smacchiarlo c’è sempre).
Ma se anche una porzione dell’attuale ridotta base elettorale chiede “Basta negri!” noi che cosa rispondiamo a Pasquale? Che ha ragione lui? O che ha sbagliato partito?
Quanti elettori di centro sinistra la pensano come lui?
Il Ministro Minniti ha indicato in un’intervista di qualche giorno fa un errore particolare: “quel modo che abbiamo di spiegare i sentimenti come la rabbia e la paura ma di non saperli rappresentare e governare, di essere pragmatici ma senza organizzare più le passioni, di cercare i risultati ma con una estraneità intellettuale che giustamente ci viene rimproverata come supponenza”. È come se, continuando a condannare la politica di pancia, il PD avesse azzerato l’empatia, finendo per stare sullo stomaco a parecchia gente.
Non è un atteggiamento solo dell’era renziana, non è un errore solo di alcuni dirigenti. Ci sono diversi errori o criticità che attraversano tutti i livelli del partito, vediamo d’incominciare a raccontarne alcuni. Ad esempio, molti rifuggono dall’empatia perché la disprezzano, ritenendo – a torto – che solo la mera elucubrazione razionale debba alimentare le proposte politiche.
Matteo Renzi vinse il congresso del 2013 anche grazie alla tattica con cui circondò la struttura organizzativa dei circoli con i comitati spontanei, che coinvolsero moltissimi cittadini. Funzionò, ma si tradusse subito dopo in un enorme spreco di energie, perché non ci fu alcun volontà politica di assorbire quegli stessi comitati nel PD che molto spesso a livello locale si guardarono bene dal farlo. In fondo, lo zoccolo duro dei perenni iscritti è una gran comodità in un partito in cui la struttura territoriale, poco valorizzata o sostanzialmente ignorata dall’alto, viene facilmente contingentata dalle dirigenze locali. Si conoscono tutti, sai in ogni momento dove ciascuno di loro si piazzerà sullo scacchiere degli equilibri interni (anche adesso che abbiamo un PD acefalo, per dire).
Tra gli iscritti attuali ci sono pochi ventenni (sotto l’organizzazione dei GD, i Giovani Democratici) e tantissimi pensionati, mentre la fascia dei trenta-quarantenni è quasi sparita, nelle periferie e sui territori minori (altra faccenda sono le città, ma questo già lo sappiamo).
Questo partito non ha i “boots on the ground” come la Lega né le milizie digitali del M5S (uso di proposito un gergo militare), pronti a condividere status e notizie a manetta e creare ogni giorno “ole social”.
Noi siamo stati troppo a lungo fermi, immobili come un semaforo, come Corrado Guzzanti nell’imitazione di Prodi, indecisi: “perché se molliamo il vecchio, perdiamo gli anziani, se abbracciamo l’innovazione va a capire dove finiamo” pensano in tanti e così barcolliamo, convinti invece di mantenere così l’equilibrio.
C’è chi si ostina a leggere il presente con le categorie del passato, ma non ci sono più le tute blu e i colletti bianchi, il pubblico impiego e la borghesia imprenditoriale, quando bastava accaparrarsi il consenso elettorale di uno di loro ed eri a posto. Ora ci sono laureati con dottorato e manager cinquantenni disoccupati, impiegati amministrativi finiti a lavorare nelle logistiche, liberi professionisti senza incarichi da anni, mentre l’industria tecnologica e informatica cerca profili che non trova, e operatori manuali senza tutele o con redditi troppo bassi.
Leggo all’interno del PD analisi troppo ancorate al passato – che si pensa di conoscere meglio dell’oggi – ma la realtà è molto più complicata e sempre più complessa: il complicato è una “difficoltà imprevista che ostacola il regolare svolgimento di un programma”, mentre la complessità genera incertezza per le sue numerose e spesso sconosciute variabili con cui sfugge al controllo e spaventa. La complessità richiede curiosità e resilienza per essere superata. Ora mancano le persone e mancano le competenze, dobbiamo far posto al senso di accoglienza per le prime e al rispetto per le seconde. Serve resilienza. Abbiamo bisogno del confronto diretto e aperto per misurarci, senza paura, oppure ammettendola proprio per superarla. Troppo spesso si è ritenuto che non dichiarare un problema fosse sufficiente per ridurlo al silenzio, invece lo si allontanava rinunciando a controllarlo e risolverlo, altrimenti continueremo convinti ciascuno di avere ragione mentre gli altri non capiscono un tubo. Che è proprio la certificazione della propria imbecillità.
Il Partito Democratico ha una base elettorale variegata al pari delle altre forze politiche ma, mentre per gli altri questa varietà è un vanto, noi andiamo in tilt e, mentre loro fanno la somma dei bisogni, aggiungendo mele a pere, noi cerchiamo il massimo comune divisore.
È cambiato il modo con cui si coinvolgono e si convincono le persone, il microtargeting e le micro campagne sono un indicatore interessante (e che io stessa ho utilizzato in campagna elettorale) di un approccio corretto alla complessità: vi ricordate le felpe di Salvini? Erano tutte diverse una dall’altra, una per ogni località, una per ogni micro gruppo di riferimento. Tutti a prenderlo in giro. Non era un fenomeno da baraccone, si stava proponendo come il riferimento di ciascun micro gruppo, di ciascuna località, di ciascuna associazione o sindacato di categoria. La politica del patchwork di Lega e M5S sarà pure fatta con le toppe di tanti bisogni sparsi, ma copre quasi per intero il bacino elettorale.
Ci piace? Non ci piace? Vogliamo ricamare o darci all’uncinetto, invece di cucire patchwork? In ogni caso, dovremo decidere se la richiesta di Pasquale fa parte del corredo o no.