Capita a tutte
Sono stata aggredita sessualmente tre volte nella mia vita, molestata molte di più, ho perso il conto. La prima volta avevo tredici anni, la seconda ventidue e la terza trentotto. La prima fu una persecuzione durata mesi da parte di un ragazzo che frequentava la mia stessa scuola media, un bullo con il suo branco, di cui avevo rifiutato le avances per mesi; alla fine, riuscì nell’intento di aggredirmi per strada nel buio nebbioso prima di cena, mentre tornavo da casa di un’amica dove ero stata a fare i compiti. Il giorno dopo passò col suo branco sotto le finestre di casa mia urlando: “Marchiafava puttana!”.
La seconda volta il mio fidanzatino delle medie, incontrato dopo dieci anni una sera in discoteca, si offrì di darmi un passaggio, ma una volta saliti in auto si diresse subito in aperta campagna per aggredirmi sui sedili dell’auto. Dovetti tirare fuori tutta la mia rabbia, anche fisica, per fargli cambiare idea. Mi scaricò in malo modo sotto casa.
La terza volta pernottavo nel solito albergo convenzionato con la mia multinazionale; grazie alle riunioni terminate prima del solito ero riuscita a fare un salto prima di cena nell’area benessere; era la prima volta che ci entravo, perché l’ingresso era consentito solo in costume adamitico e le altre volte di andarci con i colleghi proprio non mi andava. Quella volta, forte del fatto che non mi conosceva nessuno, ero scesa per farmi una bella nuotata in piscina e poi ero entrata nella sauna. Si chiacchierava del più e del meno con altri ospiti, compreso l’uomo seduto accanto a me che però, non appena gli altri se n’erano usciti, mi mise le mani addosso: mi pietrificai per un tempo che mi parve lunghissimo (un minuto, tre, proprio non lo so) e poi fuggii.
Mi sono sentita schifosa io, tutte e tre le volte.
Mi sono nascosta io, tutte e tre le volte.
A quattordici anni, al liceo, mi davano già della femminista e io manco sapevo che cosa volesse davvero significare. Sono diventata femminista per difesa, perché sapevo per esperienza dove porta la risata indulgente per l’apprezzamento pesante: alla solidarietà col carnefice.
Chi è vittima di aggressioni sessuali si sente in colpa per non aver fatto abbastanza per “mettersi in sicurezza”: in fondo, che diamine, bastava farsi accompagnare a casa dall’amica, non accettare il passaggio dall’ex fidanzatino e di certo non frequentare da sola la spa dell’albergo. Bastava non vivere in maniera indipendente, da libera.
L’essenza dell’abuso è proprio questa: ti chiedi in maniera ossessiva che cosa hai fatto tu di sbagliato. Ti senti in colpa perché pensi di aver fomentato il desiderio altrui e invece non eri tu che dovevi trattenerti: era il violento dall’altra parte. Non è mai questione di desiderio sessuale, è sopraffazione e potere. Sei vittima di una violenza, non complice. È che le reazioni degli altri, quando confidi il tuo trauma o quando leggi degli orrori che altre hanno subito, mica ti convincono e di certo non ti rassicurano.
Perché l’ho scritto ora? Perché forse ora l’attenzione e la sensibilità al tema stanno aumentando.
Mi sento più nuda adesso di quando sono stata aggredita nella spa e so che per queste mie righe potrei essere attaccata, sbeffeggiata, compatita, ignorata. Faccio politica da dieci anni, anni in cui ho capito che spesso – quando i temi coinvolgono le persone nel profondo – devi essere tu a svelarti per prima, per convincere gli altri a fare altrettanto. Quando confessi di aver subito aggressioni sessuali, trovi sempre, ma sempre sempre, qualcuna altra (e anche qualcun altro) che ti risponde con la sua storia.
Non c’è altro modo per fare capire a tutti e a tutte che questa violenza viene esercitata nei confronti di troppe, di quasi tutte, se non quello di alzare la mano e dire “Anche io”.
Compio cinquant’anni tra due mesi e questo è il regalo che ho deciso di farmi: “Anche io”.