Investire nella cultura costa poco e rende molto
Con la cultura e il turismo non si mangia, se nessuno te li paga. Se la pubblica amministrazione, per prima, non è disposta a spendere – meglio, a investire – in turismo e cultura. Gli enti locali stanziano ogni anno somme ingenti per i lavori pubblici (strade, manutenzione del verde e delle scuole, illuminazione pubblica…) che coprono buona parte del loro bilancio; fanno bene, perché molto spesso sono spese necessarie e indifferibili. Però, altrettanto di frequente, riservano gli spiccioli alla cultura e al turismo.
Per i lavori pubblici si rivolgono ai professionisti: iscritti agli albi, imprese edili, società di capitali; per le seconde si rivolgono raramente a case editrici, agenzie di comunicazione, società di DMO (destination management organization) e troppo spesso al mondo del no profit. È qui che sta “l’inghippo culturale”.
Per asfaltare le strade, rifare tombini, realizzare rotatorie ingaggiano – giustamente – gli ingegneri, ma per pubblicare libri, costruire storytelling dei prodotti e del commercio locale, implementare le politiche giovanili, fare marketing del territorio si rivolgono al mondo del no profit, del volontariato, delle associazioni. Perché costa meno ed è più facile da fare: è sufficiente accordare un contributo ad uno soggetto del no profit che realizzerà il progetto a costi concorrenziali. È un circolo vizioso micidiale, perché restano compresse nel mondo del no profit (dentro le associazioni culturali, turistiche, storiche, escursionistiche, enogastronomiche…) le competenze e i talenti – soprattutto di giovani e donne – che dovrebbero essere valorizzati e messi a reddito.
Con 200.000 euro si asfalta – per bene – un solo chilometro di strada, uno solo. Quanta strada faremmo invece fare alla cultura con 200.000 euro? Eppure, non troverete tanti amministratori locali disposti a cambiare destinazione a una cifra del genere, semplicemente perché ci sono più cittadini che vogliono l’asfalto di quanti non chiedano politiche culturali di qualità. Non è quindi solo colpa degli enti locali, ma di tutti noi e del modo che abbiamo di intendere la cultura e l’industria culturale (e turistica). La cultura è un servizio e un diritto, ed è sempre più ampia la richiesta di partecipazione e di cultura. Ma non basta. La cultura non cresce se non trova un vettore economico, e crea reddito solo se crea indotto. Quella che manca è una cultura della cultura, la consapevolezza profonda dell’importanza economica di una vera e propria industria della cultura diffusa, che è tuttora sicuramente ostacolata nel suo sviluppo anche dalla carenza di leggi e strumenti adeguati di politica industriale.
I beni culturali, gli eventi e gli attrattori turistici sono un prodotto da mettere al centro dell’azione così come la gestione del denaro pubblico è da considerarsi un investimento, che deve attrarre anche i capitali privati. I musei, i beni culturali e i luoghi attrattori turistici sono da intendersi come luoghi di produzione e non solo di conservazione della cultura. Mi hanno insegnato che la cultura e il turismo non aspettano ma, soprattutto, non muoiono mai: semplicemente, si spostano da un luogo all’altro del mondo. Se comprendessimo fino in fondo il loro impatto economico, quanto profitto potremmo far emergere dal no profit?