L’onere della prova per le famiglie gay
La sentenza 601 della Prima Sezione della Corte di Cassazione ha sancito nero su bianco che la genitorialità omosessuale è tanto valida quanto quella eterosessuale e che pensarla diversamente costituisce un «mero pregiudizio». Forzando un po’ la mano (non se ne dolgano i giuristi) nella discussione politica e sociale del nostro paese vige, de facto, l’inversione dell’onere della prova in tema di omogenitorialità. In altre parole, l’onere di provare la “bontà” della famiglia omogenitoriale è attribuita a chi la vuole difendere e non a chi l’accusa, senza alcun fondamento, di non essere “normale”.
Questa è stata la seconda considerazione alla lettura della notizia: d’ora in poi, grazie a questa sentenza, chi si ostinerà a non attribuire pari dignità alla famiglia omogenitoriale, dovrà provarlo. Questo l’effetto più rilevante che sortirà nel dibattito politico e sociale del nostro paese: stigmatizzando il pregiudizio, spetterà a chi offende dimostrare la fondatezza delle sue affermazioni e non ai soggetti discriminati, pratica invalsa per molti temi compresi nell’area dei diritti civili. Ma non produrrà automaticamente questo effetto, sarà necessario avere tanta cocciutaggine per ribadirne il valore, in ogni dibattito. In altre parole, toccherà ai singoli cittadini farsene carico.
«Ogni tanto pare di vivere in un paese civile» è invece la prima considerazione che una pronuncia simile provoca in maniera spontanea e diffusa. La prima, ma non necessariamente la più corretta. Perché si prova un senso di sollievo quando si costata che “almeno” la magistratura si assume l’onere di dipanare il groviglio nebuloso in cui giace la tutela dei diritti civili nel nostro paese. Proviamo un sentimento quasi di gratitudine. Ma sbagliamo soggetto.
La gratitudine dovrebbe, infatti, avere come suoi primi destinatari gli attori del procedimento, ossia quei singoli cittadini, ostinati e coraggiosi, che adiscono le corti dei tribunali per ottenere giustizia. Alla magistratura si deve il rispetto per il compito che doverosamente svolge, costretta com’è, spesso, a farsi anche carico di compiti non suoi.
Ma la gratitudine deve essere rivolta ai nostri concittadini che hanno il coraggio e la forza di dire NO fino in fondo. Non si conoscono i loro nomi, stavolta, ma nessuno dimentica Eluana Englaro.
In un paese che quando va bene ignora i diritti civili mentre li bistratta quando va male (vedi la legge 40 in materia di fecondazione assistita) sono ormai i cittadini che, soli, combattendo i loro drammi personali speso finiscono per innestare nel sistema il virus del cambiamento. Nel sistema, perché nella società il cambiamento è contagioso, duttile e comunque più veloce di un sistema giuridico e politico quasi immobile.
Il comune sentire è più sensibile ed evoluto, ma la copertura dei media alla notizia non ha reso un buon servizio alla causa, passando la notizia come il “via libera alle adozioni gay” e attivando quindi una serie di stereotipi e pregiudizi duri a morire. Qui, invece, c’è in ballo un aspetto differente della questione ossia il concetto stesso di genitorialità; se consideriamo, infatti, che la pronuncia verte sul caso di una donna che ha avuto, prima, un figlio da un matrimonio etero e poi ha vissuto la sua genitorialità all’interno di una convivenza omosessuale ecco che la vicenda si rivela per quello che è: un caso di scuola ideale per abbattere i pregiudizi sull’omogenitorialità. Altrimenti, dovremmo dedurne che la stessa donna è da considerarsi una buona madre se eterosessuale e una madre “inadeguata” se omosessuale.
Esattamente quell’inversione dell’onere della prova che questa sentenza ha finalmente stigmatizzato.