Tre cose che ci ha insegnato il 2018
Il 2018 è stato un anno denso di eventi politici, dalla piccola rivoluzione delle elezioni italiane del 4 marzo, alla crisi che ha colpito i due pilastri della stabilità europea, il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Ci sono almeno tre cose sulla politica dei nostri giorni che l’anno appena trascorso ci ha insegnato.
1. Fare la rivoluzione non è facile
La maggioranza uscita dalle elezioni del 4 marzo ha ribattezzato il nuovo esecutivo “governo del cambiamento”, un appellattivo che si è dimostrato più efficace come calamita per i consensi che come descrizione del suo operato nei suoi primi sei mesi di vita. Il “governo del cambiamento” si è dimostrato piuttosto un “governo della continuità” che ha mantenuto e in alcuni casi ampliato le cattive pratiche dei suoi predecessori, dalle nomine clientelari nella RAI alla gestione sbrigativa dei processi parlamentari.
La manovra, approvata in fretta e furia negli ultimi giorni dell’anno, ha dato un’ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile tramutare i propositi rivoluzionari in pratica di governo. Dopo un’aspra ma non troppo inusuale trattativa con l’Unione Europea, il “governo del cambiamento” ha fissato un deficit appena 0,2 punti superiore a quello del 2018 e un punto inferiore a quello che in campagna elettorale aveva promesso di fare l’allora segretario del PD Matteo Renzi.
La manovra si è confermata in continuità con il passato anche nel contenuto: zero o quasi investimenti e riforme strutturali, ma bottino pieno di regalie per gli elettorati chiave dei due partiti di maggioranza, dal reddito di cittadinanza per disoccupati e sottoccupati del Sud ai tagli di imposte e gli sconti pensionistici per autonomi e 50-60enni del Nord. Anche le risorse spese per queste misure sono comparabili a quelle usate per scopi simili in passato: circa 10 miliardi di euro sia per Reddito di cittadinanza che per il bonus da 80 euro; tra i 2 e i 4 miliardi l’anno per quota 100 così come per le varie salvaguardie per esodati e altri interventi sulle pensioni dei governi a guida PD.
Nel resto d’Europa altri “governi del cambiamento” hanno incontrato simili difficoltà. Dopo lunghe trattative, il governo di Theresa May che sosteneva che “Brexit means Brexit” ha prodotto un accordo con l’UNione Europea che se approvato manterrà lo status quo in quasi tutte le questioni cruciali. In Francia, il presidente Macron ha dovuto abbandonare i suoi propositi di riforma del paese e dell’intera Europa di fronte alle più violente proteste di piazza da decenni, a un gradimento politico sprofondato ai livelli del suo predecessore e alla decisione della leadership tedesca di respingere qualsiasi sostanziale riforma dell’eurozona.
Il 2018 ha dimostrato che nel bene e nel male il sistema non è affatto facile da cambiare. Anche se gli elettori hanno mostrato di premiare coloro che premettevano i cambiamenti maggiori, una volta insediatisi i “rivoluzionari” hanno quasi ovunque dovuto fronteggiare potenti forze conservatrici che per il momento sembrano aver ottenuto la meglio.
2. Siamo nell’età dell’oro delle teorie del complotto
In tutte le epoche sono esistite persone che credevano che il mondo venisse mosso da gruppi di occulti manipolatori, ma soltanto in alcuni determinanti momenti storici le loro teorie sono diventate dominanti nel discorso pubblico. Nel suo libro How democracy ends, pubblicato la scorsa primavera, il capo del Dipartimento di Politica dell’Università di Cambridge David Runciman ha scritto che ci troviamo in uno di questi momenti. Quella che stiamo vivendo è probabilmente “l’età dell’oro” delle teorie del complotto.
Non è una questione che riguarda una sola parte politica, come gli eventi del 2018 ci hanno dimostrato in maniera lampante. Un volta che la mentalià del complotto diventa mainstream risulta difficile non utilizzare le sue lenti per leggere la realtà, indipendentemente dalla parte politica di appartenenza. Negli Stati Uniti, ad esempio, esponenti moderati della sinistra accusano il presidente Trump di essere un burattino nelle mani di Putin, mentre gli “hacker russi” sono diventati il caprio espiatorio per qualsiasi sconfitta subita dell’establishment, dal referendum su Brexit a quello in Catalogna. La paranoia ha raggiunto il punto che negli ultimi giorni un quotidiano liberale come il New York Times ha chiesto ai dipendenti delle grandi società della Silicon Valley di smettere di opporsi alle richieste dei loro datori di lavoro di collaborare con il Pentagono e i servizi segreti americani, in nome della lotta agli hacker cinesi e russi.
L’Italia ha visto probabilmente alcune delle manifestazioni più estreme di questa mentalità, in particolare con il successo alle elezioni del 4 marzo delle attuali forze di maggioranza. Il Movimento 5 Stelle è un partito per molti versi fondato sulla mentalità del complotto e il leader della Lega Matteo Salvini sostiene o strizza l’occhio a gran parte delle teorie del complotto diffuse negli ambienti della destra radicale. Nel frattempo, Silvio Berlusconi continua a sostenere di essere stato vittima di innumerevoli “golpe” italiani o internazionali, mentre opinionisti di primo piano ipotizzano che il governo si stia preparando in segreto ad uscire dall’euro. Nemmeno la sinistra si salva: negli ultimi sei mesi parecchi esponenti del PD hanno accusato il governo di ordire disegni autoritari. Senza parlare poi delle teorie del complotto che circondano la Casaleggio Associati, numerose quanto quelle sostenute dal suo fondatore.
Il modo in cui le teorie del complotto hanno permeato ogni angolo del dibattito pubblico dimostra che siamo di fronte a qualcosa di più di un pugno di politici che usano i social network per diffondere falsità (una spiegazione che sembra, a sua volta, una teoria del complotto). Considerato che soltanto una democrazia malata potrebbe restare vittima di attacchi informatici di hacker russi, o potrebbe cadere a causa di un colpo di mano autoritario organizzato da politici a malapena in grado di utilizzare correttamente la propria lingua, la principale ragione della diffusione di questa mentalità è probabilmente la crescente sfiducia nell’attuale sistema politico che serpeggia nei paesi sviluppati.
Le teorie del complotto rappresentano una scorciatoia efficace per spiegarsi come mai l’attuale sistema politico abbia smesso di produrre risultati desiderabili. Il 2018 ci ha insegnato che combattere i complotti è probabilmente come combattere i sintomi e lasciare che la malattia si sviluppi. Non serve contrastare frontalmente ogni bizzarra teoria diffusa in angoli remoti del web, ma piuttosto bisogna cercare il modo di ricostruire la fiducia nel sistema politico.
3. Il divario tra la realtà e il discorso pubblico
In una frase, il 2018 ci ha insegnato che gli elettori vogliono il cambiamento rispetto a un sistema di cui non si fidano più, ma questo cambiamento è quasi impossibile da attuare. La domanda più importante diventa quindi: cosa accadrà quando le forze rivoluzionarie riusciranno a mantenere solo una frazione degli epocali cambiamenti che avevano promesso? Una possibilità è che coloro che si sono piegati alle pressioni conservatrici saranno spazzati via da una nuova generazione di rivoluzionari più determinata e in grado di mettere in atto le sue promesse, con le conseguenze positive o negative che questo comporterà.
Gli eventi del 2018, però, sembrano indicare come più probabile lo scenario opposto. Ossia che la richiesta di cambiamento che sembra così pressante e per alcuni minacciosa, sia in realtà più formale che sostanziale, che riguardi più il discorso politico che la sua pratica. Ne abbiamo avuto diversi esempi, anche se parziali. Salvini, che per gran parte della campagna elettorale si era mostrato uno dei leader più estremisti del panorama europeo, ha considerevolmente moderato i suoi propositi mano a mano che si avvcinava al governo, ma invece che subire un contraccolpo ha ottenuto i migliori risultati nella storia del suo partito. Il Movimento 5 Stelle, che invece i toni ha scelto di non abbassarli, appare al contrario in considerevole difficoltà. Qualcosa di simile si vede anche nel Regno Unito, dove nonostante gli scarsissimi risultati del negoziato su Brexit, i conservatori britannici sono ancora dati a poca distanza dal “rivoluzionario” Labour di Jeremy Corbyn.
In altre parole sembra essersi allargato il divario tra un dibattito pubblico surriscaldato dai tempi e i toni dei social network e una realtà politica dove la dose di cambiamento effettivamente richiesta dagli elettori appare tutto sommato contenuta. Non sembra ancora arrivato il momento in cui torneranno di moda i politici pacati e rassicuranti ed è quasi certo che per un periodo ancora relativamente lungo il successo politico dipenderà in buona misura dalla capacità di dissociarsi dai leader del passato e porsi con un atteggiamento critico nei confronti di un sistema che ha largamente deluso le aspettative. Sembra però improbabile che l’Europa di oggi, sempre più anziana e tutto sommato ancora benestante, sia davvero disposta ad affrontare gli sconvolgimenti che molti leader di oggi sembrano convinti di dover annunciare per vincere le elezioni.