Il populismo è colpa della casta
Nell’articolo di prima pagina del Foglio di oggi, Francesco Cundari, direttore della rivista Left Wing, sostiene con argomentazioni efficaci una tesi che non è la prima volta che compare sul quotidiano: l’ascesa dei movimenti populisti in Italia, il Movimento 5 Stelle e la Lega, è dovuta alla collaborazione consapevole o inconsapevole di quelle stesse élite che i movimenti populisti dicono di voler combattere. Secondo Cundari «è questa la vera differenza tra l’Italia e tutti gli altri paesi occidentali sconvolti dal grande conflitto globale tra populisti ed élite: che da noi le élite stanno coi populisti. Il populismo italiano, infatti, non nasce dal basso, ma dall’alto».
Il “populismo dall’alto”, continua Cundari, si è espresso nel corso degli ultimi 30 anni attraverso i principali mezzi di comunicazione: televisioni, giornali e libri. Tutti, in un momento o nell’altro, hanno adottato atteggiamenti, temi e linguaggi “populisti”. Un esempio è quello della polemica contro la “casta”, iniziata nel 2007 con un fortunato libro dei giornalisti Gian Antonio Stella e Segio Rizzo che ha dato vita, scrive Cundari «a un intero genere letterario, con tutto il corredo delle mille varianti e degli innumerevoli tentativi di imitazione».
Ma secondo Cundari, sono altrettanto responsabili le campagne contro i «professionisti della politica», portate avanti da Repubblica, i famosi “girotondi” contro il governo Berlusconi e le suggestioni della rivista Micromega per quello che Cundari chiama «l’autogoverno della “società civile”». Dello stesso filone fa parte anche la famosa invettiva del regista Nanni Moretti che a una manifestazione dell’Ulivo nel 2002 gridò «Con questi dirigenti non vinceremo mai», ma anche i servizi contro sprechi e ruberie di politici da parte di trasmissioni come Striscia la Notizia e Le Iene.
Capostipite del filone, secondo Cundari, è l’inchiesta Mani Pulite e la copertura che le diedero giornali e televisioni, una copertura, accusa Cundari, del tutto sbilanciata sulle ragioni dei magistrati. Cundari indica anche un “pentito” del “populismo dall’alto”: Michele Santoro, popolare conduttore televisivo che per anni ha cavalcato molte delle campagne citate da Cundari, ma che in tempi più recenti ha ammesso di sentirsi “in colpa” per quelle che secondo lui ne sono state le nefaste e indesiderate conseguenze.
Il filo rosso che, secondo Cundari, unisce questi personaggi ed episodi apparentemente disparati è che in un modo o nell’altro rappresentano tutti tentativi di delegittimazione della classe politica. E sono tentativi che non provengono dal basso (o almeno: non solo), ma arrivano dall’alto, dalle élite che comandano televisioni, giornali e case editrici. Da questa costante opera di delegittimazione, Cundari fa discendere una debolezza cronica della classe politica italiana, dalla quale a sua volta discende la sconfitta delle tradizionali forze politiche italiane e l’ascesa dei populisti: Lega e Movimento 5 Stelle.
Presa a grandi linee, quella di Cundari è una lettura valida degli ultimi 30 anni di storia italiana. Si può di certo sostenere che una parte delle élite intellettuali ed economiche del paese abbiano fomentato critiche non sempre ordinate della classe politica italiana arrivando in alcuni casi a deligittimarla. Si potrebbe anche fare un passo in più, e sostenere che quelle stesse élite economiche lo abbiano fatto per allontanare da sé quelle stesse critiche (almeno nel dibattito pubblico, si sente molto parlare di politici corrotti, ma molto poco di ricchi corruttori).
Il problema è quando Cundari fa di tutto questo un fenomeno unico del nostro paese oltre che la causa principale (l’unica indicata in tutto il pezzo) dell’attuale situazione politica. Personalmente ho imparato a dubitare sempre di due cose: di tutto ciò che “succede solo in Italia” (non è quasi mai vero: siamo un paese piuttosto ordinario) e delle cause semplici che spiegano fenomeni complessi.
Il primo problema è che la sfiducia nella classe politica e nel funzionamento dei meccanismi democratici è diffusa e in crescita da anni in gran parte del mondo sviluppato. Più o meno ovunque esistano libere elezioni politici (e giornalisti) sono le categorie professionali universalmente più disprezzate. Il secondo problema è che l’analisi di Cundari sembra trascurare che effettivamente molte delle accuse alla classe politica italiana sono sostanziate. Ha ragione quando dice che l’Italia non ha la classe politica di un cleptostato africano, ma è anche vero che non ha i politici della Germania e almeno una parte della sfiducia delle persone è giustificata dal fatto che in passato ci sono stati veri, concreti e spettacolari casi di corruzione e ruberie.
Il terzo problema è quello secondo me più rilevante. In tutta l’analisi manca quello che dovrebbe essere il primo imputato di ogni processo per risalire alle cause dell’ascesa populista: il lungo declino economico e sociale del nostro paese, caratterizzato da una stagnazione ventennale dei salari reali, da una lenta e costante erosione nella qualità e disponibilità dei servizi, nel peggioramento delle condizioni di lavoro e, negli ultimi anni, dalla più grave e prolungata recessione europea dopo quella greca che ha portato i redditi delle famiglie al livello che avevano 25 anni fa.
Mi sembra azzardato sostenere che più che da questi dati reali, con i quali le famiglie italiane si sono misurate quotidianamente, la fiducia nei partiti politici sia stata erosa dai girotondi di Micromega o dagli editoriali di Marco Travaglio. Le polemiche contro stipendi d’oro e auto blu sono poca cosa di fronte al peggioramento sistematico della vita reale delle persone. Quando l’economia cresce e i figli stanno meglio dei padri nessuno si occupa del colore delle auto dei politici.
Cundari risponde ironicamente, e in maniera preventiva, a questa mia obiezione «Insomma – scrive nell’articolo – alla fine della fiera, in Italia anche il populismo è colpa della casta». “Colpa” forse non è la parola giusta, ma non è così sorprendente che dopo 25 anni buttati dal punto di vista sociale ed economico gli elettori abbiano deciso di rigettare senza appello la classe politica che alternandosi al potere aveva guidato il paese in quel periodo (tra l’altro è affascinante notare come gli elettori non abbiano avuto pietà per quegli stessi padri del populismo indicati da Cundari: Berlusconi è stato forse la vittima più illustre e sottovalutata del 4 marzo).
Più che la generica antipolitica, una buona chiave per leggere il successo o il fallimento dei leader politici in questi anni di turbamento mi sembra essere la loro capacità o meno di presentarsi come alternativi rispetto al passato. Alla fine di cosa è stato specchio il successo di Renzi se non della sua abilità di dipingersi come una forza nuova, radicalmente diversa e in contrasto con la politica degli anni precedenti? E cosa più di tutti lo ha dannato se non il suo spegnere rapidamente la sua carica innovativa nel grigiore parlamentare? Dall’altro lato vanno resi grossi meriti a Salvini per aver saputo presentarsi come radicalmente nuovo e alternativo, nonostante fosse il leader del partito più antico tra quelli ancora presenti.
Insomma, è consolante pensare che l’Italia sia un paese unico nel mondo occidentale, impossibile da governare per le inspiegabili idiosincrasie dei suoi elettori e della sua classe dirigente. Ed è altrettanto confortante pensare che quello accade oggi sia frutto del disegno più o meno intelligente di un’élite irresponsabile. Le cose però sono probabilmente molto più complesse di così. L’articolo di Cundari suggerisce un aspetto della vicenda peculiare e degno di essere approfondito (in particolare andrebbe studiato se e come il possesso di grandi gruppi editoriali ha permesso agli esponenti del grande capitalismo italiano di uscire quasi indenni dalla crisi, buttando tutta la colpa sulla politica), ma è solo una parte della storia.