Renzi è tornato (di nuovo)
Ieri sera Renzi è tornato ufficialmente in campo con un’intervista al programma Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio. Lo ha fatto a “gamba tesa” proponendo alla Lega e al Movimento 5 Stelle un governo per cambiare la Costituzione e la legge elettorale e lo ha fatto usando ripetutamente il “noi”. Renzi si sente ancora il Partito Democratico. E per chi avesse dei dubbi, Renzi ha ricordato tra le righe che è lui a controllare il gruppo del PD al Senato e che quindi non teme alcuna concorrenza interna al partito. In altre parole, Renzi ritiene che non si possano fare accordi senza di lui, che quello che propone è l’unica alternativa per il PD e che ritiene di avere i numeri per imporla.
Nonostante dopo le elezioni avesse detto che non avrebbe parlato «per due anni» e che d’ora in poi sarebbe stato semplicemente il “senatore di Scandicci”, Renzi ha quindi deciso di interrompere il suo silenzio nella maniera più dirompente possibile, esattamente come aveva fatto nel gennaio 2017, quando a poco meno di due mesi dalla sconfitta referendaria e dalle sue prime dimissioni concesse un’intervista al Corriere della Sera.
In molti hanno osservato che oggi come allora il suo ritorno appare intempestivo. Il ricordo della sconfitta è ancora fresco e la sua immagine di leader non sembra abbia ancora beneficiato dell’effetto nostalgia. Renzi ha ricordato più volte a Fazio di essere tra i pochi politici che si sono dimessi in seguito alle sconfitte subite e ha sottolineato di averlo fatto per ben due volte. Difficilmente, però, gli spettatori di Fazio hanno avuto la sensazione che Renzi abbia “pagato lo scotto” delle sue sconfitte, visto che non ha mai trascorso più di qualche settimana lontano dalle prime pagine e visto che proprio mentre illustrava il prezzo pagato per i suoi errori era in televisione a dire come il suo partito avrebbe dovuto comportarsi in futuro.
Buona o cattiva che sia, Renzi ha comunque fatto la sua scelta. Ha ritenuto che un periodo di pausa non gli sarebbe convenuto e che invece era importante tornare subito sulla scena politica. Questo perché, come ha ripetuto più volte in passato, Renzi ritiene che la politica di oggi sia molto più veloce di un tempo. L’elettorato è liquido ed è facile recuperare una sconfitta, anche disastrosa, con una buona campagna elettorale. Come esempio di questa possibilità, Renzi ha citato anche ieri il suo modello, Emmanuel Macron, il presidente francese. Macron era il membro del governo meno amato della storia della Francia, ma nel giro di un anno ha fondato un partito ed è riuscito a vincere le elezioni.
Il caso di Macron, però, mostra anche confini e limiti del piano di Renzi. Al primo turno delle elezioni presidenziali francesi, Macron raccolse il 24 per cento dei voti, un risultato che in Italia lo vedrebbe dietro il Movimento 5 Stelle e dietro il centrodestra, cioè dove già oggi si trova il PD. Macron ha ottenuto la maggioranza dei voti, ma soltanto al ballottaggio e sembra questa la ragione per la quale anche ieri Renzi ha insistito così tanto sull’importanza dell’introduzione di una qualche forma di “spareggio elettorale”, che sia tra coalizioni (come quello già bocciato dalla Corte Costituzionale), o tra candidati, come potrebbe nascere dalla riforma della Costituzione che ha proposto.
Il suo obiettivo sembra piuttosto chiaro: introdurre nel sistema una qualche forma di bipolarismo e diventare il leader di una delle due metà politiche che ne risulteranno, quella moderata, centrista e rassicurante. In questo modo, è la sua speranza, l’esatta consistenza del PD al momento del voto conterà in maniera relativa poiché Renzi punta a essere il capo e il rappresentante di un’area più vasta del solo Partito Democratico.
Questa strategia, però, sembra avere almeno un grosso limite tattico che Renzi deve trovare il modo di superare: le esperienze recenti hanno tutte insegnato che quando è stato imposto un voto bipolare, per o contro qualcosa o qualcuno, l’area a cui fa riferimento Renzi si è sistematicamente rivelata minoritaria. Lo è stata in gran parte dei ballottaggi comunali degli ultimi tre anni e lo è stata in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre. In maniera meno esplicita, ma l’area di Renzi si è dimostrata minoritaria anche il 4 marzo.
Insomma, il risultato della sua intervista è che ha fatto capire chiaramente di essere ancora il leader indiscusso del PD, ha mostrato che i suoi avversari interni sono per il momento inconsistenti e che sono incapaci di mettere sul piatto temi diversi da quelli che ha imposto lui stesso (soprattutto “alleanza con il Movimento sì/no”). Ha illustrato a grandi linee la strategia nel medio termine, l’accordo per la riforma elettorale e costituzionale, con cui spera di tornare a diventare centrale, imponendosi come leader di un’area politica più ampia di quella che è riuscito a conquistare fino ad ora.
Ma cosa accadrà però se questo piano dovesse fallire? Per riformare Costituzione e legge elettorale serve l’accordo degli altri partiti, i quali per il momento non sembrano affatto inclini a un “governissimo” per fare grandi riforme tutti insieme. Se l’alternativa al fallimento di questo piano saranno elezioni anticipate, Renzi si troverà di fronte a una nuova scelta molto complicata: riprendere formalmente la guida del partito e affrontare la terza disfatta elettorale consecutiva, oppure prendersi una nuova pausa – per davvero questa volta – e lasciare che sia qualcun altro a prendersi il biasimo della sconfitta.