In Libia siamo vicini a un accordo
Domenica sera l’inviato speciale dell’ONU Bernardino Léon ha annunciato che i delegati dei due governi della Libia, quello di Tripoli vicino agli islamisti, e quello riconosciuto internazionalmente di Tobruk, hanno raggiunto un accordo parziale per creare un governo di unità nazionale. Si tratta di un momento importante soprattutto per l’Italia, il paese europeo che risente maggiormente del caos nel paese. È dalla Libia che partono le decine di migliaia di migranti che ogni anno sbarcano in Italia, mentre il caos nel paese danneggia direttamente i nostri interessi economici ed energetici, come ha dimostrato il rapimento dei quattro tecnici italiani lo scorso luglio. La creazione di un governo di unità nazionale consentirà probabilmente l’invio nel paese di un contingente militare internazionale a guida italiana che contribuirà a ristabilire l’ordine nel paese, alla lotta agli scafisti e forse anche alla sconfitta dell’ISIS che in Libia non è mai stata così forte come in queste settimane.
Partiamo proprio dall’ISIS, il tema che più spesso interessa la stampa quando si parla di Libia. Marco Arnaboldi, collaboratore dell’ISPI, spiega che l’ISIS libica è oggi allo zenit della sua potenza: «Fino allo scorso febbraio l’ISIS poteva contare in Libia soltanto su alcuni gruppi sparsi di combattenti. Oggi invece possiede una struttura più centralizzata e circa tremila combattenti». Nell’ultimo numero di Dabiq, la rivista pubblica inglese dall’ISIS, è comparsa per la prima volta un’intervista a quello che il giornale definisce il “leader” dell’ISIS in Libia. La pubblicazione dell’intervista, spiega Arnaboldi «è un gesto propagandistico interessante, perché arriva pochi mesi dopo l’invito dei leader dell’ISIS ad andare a combattere non solo in Siria ed Iraq, ma per la prima volta anche in Libia».
In altre parole l’ISIS continua a rafforzarsi in Libia e continuerà farlo ancora a lungo se non troverà avversari sulla sua strada. Secondo Arnaboldi, le forze libiche fino ad ora non hanno mostrato una volontà particolarmente determinata nello sconfiggere l’ISIS. Le cose potrebbero cambiare grazie all’accordo annunciato domenica da Léon e all’ingresso nel paese di un contingente internazionale. Si tratta però soltanto di un primo passo: ora è necessaria l’approvazione dei parlamenti di Tripoli e Tobruk e quella dei leader delle potenti milizie che controllano il paese e su cui i due governi esercitano soltanto un controllo molto labile. «Questo accordo, come qualsiasi altro accordo, sarà contestato dai “duri” di ogni fazione», ha spiegato Mattia Toaldo, ricercatore esperto di Libia presso l’European Council for Foreign Relations.
Il più potente tra questi “duri” che hanno molto da perdere dalla creazione di un governo di unità nazionale è probabilmente il generale Khalifa Haftar, una reliquia del vecchio regime oggi alleato con il governo di Tobruk. La milizia di Haftar è la cosa più vicina ad un esercito che esiste oggi in Libia e rappresenta il più grosso ostacolo alla firma degli accordi: «Secondo il piano annunciato da Léon – spiega Toaldo – i vertici militari dovranno essere azzerati e quindi nominati nuovamente dal nuovo governo: è difficile che Haftar sia disposto ad accettare il rischio di essere messo da parte». Haftar, però, dipende molto dai suoi alleati all’estero – il governo egiziano e quello degli Emirati Arabi Uniti. Secondo Toaldo: «Se i suoi mandanti regionali gli diranno di accettare è probabile che Haftar metterà da parte le sue riserve». La sua approvazione probabilmente aprirebbe le porte della Libia alla missione militare a guida italiana.
Quali saranno i compiti di questo contingente non è ancora per nulla chiaro. Secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies e direttore della ricerca sul Medio Oriente presso il Centro Militare di Studi Strategici, quello che servirebbe è «una risoluzione dell’ONU che sia specifica sul mandato del contingente internazionale, sul tipo di intervento da effettuare e sulle regole di ingaggio da adottare». In altre parole bisognerà capire se lo scopo della missione sarà solo proteggere le nuove istituzioni libiche, o se agli obbiettivi si aggiungerà anche la lotta agli scafisti o addirittura quella contro l’ISIS.
L’altro tema importante da affrontare è se l’Italia è in grado di guidare una missione del genere. Secondo Pedde, deve essere innanzitutto chiaro che «non dobbiamo andare in Libia con l’idea di appoggiare i laici contro gli islamisti», o in altre parole Tobruk contro Tripoli: «Se questo è il nostro obbiettivo allora è meglio che ce ne restiamo a casa». Il problema, come avevo scritto nel precedente dispaccio sulla Libia, è che il presidente del Consiglio Matteo Renzi sembra molto vicino alle posizioni di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, che come abbiamo visto appoggiano una parte specifica nell’attuale conflitto. Essere percepiti come alleati di una delle due parti rischia di trasformare il contingente in un bersaglio per la parte avversa.
Ma c’è anche un secondo problema: «È quello dell’operatività militare: per compiere una missione simile ci serve la disponibilità economica e quella logistica e sia per l’uno che per l’altro aspetto la situazione è tutt’altro che florida – spiega Pedde – Le nostre forze armate sono già sottoposte a uno sforzo considerevole a causa delle numerose missioni inviate in tutto il mondo: Libano, Kosovo, Afghanistan e numerose altre più piccole che però occupano comunque personale qualificato. Inoltre quella in Libia sarebbe di gran lunga la missione più rischiosa di tutte quelle in cui i nostri militari sono attualmente impegnati».
Aldilà di tutte le difficoltà, secondo Pedde, c’è anche una considerazione etica da fare: «È necessario un contributo internazionale per trovare una soluzione alla crisi libica per la quale noi occidentali abbiamo una grossa responsabilità». Come ho scritto in passato, possiamo discutere sulla giustezza o meno dell’intervento che nel 2011 portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi, ma il disinteresse che abbiamo mostrato per la Libia nei quattro anni successivi è una colpa dalla quale difficilmente possiamo sentirci assolti. Oggi che i nostri interessi economici e politici coincidono con quelli etici è forse arrivato il momento di impegnarci seriamente.
Questo è il nono “dispaccio” di una serie settimanale con cui cercherò di raccontare le guerre che stanno attraversando il mondo musulmano. Qui ho raccontato il progetto. Qui potete trovare gli altri dispacci.