La faccenda delle dimissioni in bianco
Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Libero
Martedì 26 marzo la Camera ha approvato con i voti di PD, SEL e Forza Italia il cosiddetto Disegno di legge Di Salvo contro le dimissioni in bianco. Si tratta di un legge che, una volta entrata in vigore, dovrebbe combattere una pratica illegale e, apparentemente, molto diffusa: quella di far firmare ad un dipendente una lettera di dimissioni al momento dell’assunzione. Il provvedimento è passato per pochi voti e dividendo la maggioranza. Il DDL è stato proposto da SEL e appoggiato da PD e FI. Hanno votato contro Nuovo Centro Destra, Scelta Civica e Movimento 5 Stelle. In questi giorni diversi politici hanno criticato il DDL che è stato accusato di tutto e dell’opposto di tutto. Secondo il M5S non servirà a tutelare i dipendenti, mentre secondo NCD e SC rappresenta un inutile aggravio di burocrazia per le imprese.
Che cosa cambia
Il DDL Di Salvo prevede che le lettere di dimissioni debbano essere scritte in un documento che va scaricato da internet o ottenuto dagli uffici pubblici. Questo documento è valido soltanto per 15 giorni: in questo modo è di fatto impossibile per il datore di lavoro far firmare con mesi di anticipo una lettera di dimissioni al suo dipendente. Con questo sistema le dimissioni del lavoratore saranno immediatamente effettive: il lavoratore firmerà il modulino valido per 15 giorni, il datore di lavoro ne darà conferma al ministero del Lavoro e il rapporto tra i due sarà immediatamente terminato.
Questo punto rende la nuova pratica sostanzialmente diversa da quella precedente e, secondo diversi esperti, peggiore per il lavoratore. A differenza di quanto hanno scritto molti in questi giorni, nell’ordinamento italiano esiste già una legge contro le dimissioni in bianco e anche contro le “dimissioni estorte”.
Attualmente le cose funzionano così: una volta firmata la lettera di dimissione, il dipendente deve confermare la sua effettiva volontà di dimettersi. Lo si può fare in vari modi: i dipendenti che appartengono alle categorie considerate più a rischio (lavoratrici madri o in procinto di sposarsi) devono confermare le dimissioni recandosi in una Direzione territoriale del lavoro, dove i funzionari sono tenuti a verificare che le dimissioni non siano state estorte o fatte firmare in anticipo. Se ai funzionari il dipendente non conferma la sua intenzione, la lettera di dimissioni rimane sospesa e il rapporto di lavoro non viene interrotto. Gli altri lavoratori invece possono confermare le dimissioni con un sistema più semplice, ma, in ogni caso, è sempre previsto un lasso di tempo tra il momento della firma delle dimissioni e la loro entrata in vigore. In questo spazio il lavoratore può revocare le sue dimissioni.
Che problemi ci sono?
A qualcuno di non molto esperto di diritto del lavoro entrambe le soluzioni, quella nuova del DDL Di Salvo e quella vecchia, sembrano efficaci nel prevenire il fenomeno delle dimissioni in bianco. In un caso non è fisicamente possibile firmare in anticipo una lettera di dimissioni, nell’altro è possibile che la lettera sia firmata, ma è inutile se non viene confermata in un secondo momento dal lavoratore.
Le soluzioni sono uguali, quindi? Non proprio. La nuova soluzione proposta dal DDL Di Salvo tutela meno i lavoratori dalle cosiddette “dimissioni estorte”. Immaginiamo che il datore di lavoratore riesca ad obbligare un dipendente particolarmente debole a firmare il modulino valido per 15 giorni. A quel punto non c’è più niente da fare per il dipendente, che sarà costretto ad abbandonare il posto di lavoro. Con il sistema attuale, invece, è sempre possibile per il lavoratore recarsi alla Direzione territoriale del lavoro e dichiarare che le sue dimissioni sono state estorte. Il lavoratore può anche semplicemente cambiare idea in un secondo momento, una cosa che non sarà più possibile fare con il nuovo sistema.
Quanto è diffuso il fenomeno?
Il DDL Di Salvo descrive l’intervento del governo come “necessario” perché al momento non ci sarebbero tutela sufficienti per i lavoratori (una cosa tutt’altro che sicura, come abbiamo visto prima), ma anche perché descrive il fenomeno come “una piaga endemica”. Per dimostrare questa tesi cita diversi dati. A quanto pare, secondo una ricerca della CGIL di Pistoia del 2007 addirittura il 15 per cento di tutti i contratti a tempo indeterminato (2 milioni circa, quindi) sarebbero stati sottoscritti in cambio della firma di dimissioni in bianco (la ricerca, al momento, non è disponibile, quindi è impossibile verificare le metodologie utilizzate).
In modo abbastanza incredibile, altri dati a sostegno della tesi della “piaga endemica” sono letteralmente copiati (parola per parola) da un articolo di Repubblica del gennaio 2012 (che li riporta senza citare la fonte). Il risultato è una frase dal significato grammaticale piuttosto oscuro:
Questa prassi illegale [le dimissioni in bianco] coinvolge il 60 per cento delle lavoratrici donne e il 40 per cento dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, e si estende anche, e con una percentuale del 25 per cento, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende.
La verità è che su questo fenomeno non abbiamo dati certi e, soprattutto, non abbiamo dati di alcun tipo da quando è entrata in vigore la riforma Fornero che, come abbia visto, mette in atto alcune misure efficaci nel contrasto al fenomeno delle dimissioni in bianco. In molti esperti ritengono i numeri utilizzati nel DDL di pura fantasia. Il Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro, ad esempio, ha definito il fenomeno delle dimissioni in bianco “più mediatico che reale”.