I veri numeri sul Femminicidio – 2
Nell’ultima settimana il nostro articolo sul femminicidio ha ricevuto diverse risposte critiche (qui, qui, qui e qui ad esempio). Abbiamo ricevuto obiezioni di tre tipi: sui dati, semantiche e di opportunità. Visto che qualcuno si è preso la briga di leggere quello che abbiamo scritto e di scrivere delle buone e argomentate critiche, il minimo che possiamo fare è rispondergli.
Secondo Giulia Siviero (@glsiviero) i dati ISTAT che abbiamo riportato non sono pertinenti all’argomento perché non sono divisi per genere e motivazione. Nelle statistiche viene riportato il numero delle donne assassinate non diviso in omicidi compiuti da altre donne, da uomini, in omicidi legati alla criminalità comune o quelli che sono veri e propri “femminicidi” (o femicidi, come vedremo tra poco). Il commento di Siviero è indubbiamente corretto e ai dati ISTAT mancano proprio queste precisazioni. Già nel nostro articolo della scorsa settimana ci eravamo posti il problema:
Il tasso di omicidio di donne non è la stessa cosa del numero di femminicidi – nell’accezione comunemente accettata un femminicidio è un omicidio di una donna da parte di un partner o di un conoscente. Può essere che mentre il totale di omicidi sia rimasto costante, il sottoinsieme dei femminicidi veri e propri sia aumentato. Può essere, ma non esistono dati per affermarlo e, come sostiene Tonello nel suo articolo, gli indizi fanno pensare che non sia così.
Sempre sui numeri: Giovanna Cosenza (@giovannacosenza) e Loredana Lipperini (@lalipperini) sostengono che se i numeri assoluti sono costanti – come dimostrano i dati ISTAT – la percentuale delle donne assassinate sul totale degli omicidi è in aumento. Il che è vero, ma non ci è d’aiuto nel cercare di capire se i femminicidi sono in aumento o meno. Come avevamo scritto una settimana fa:
Anche i conti sulla percentuale totale di omicidi di cui sono vittime le donne rispetto al totale degli omicidi, hanno poco senso. Dai primi Anni ’90, quando gli omicidi ebbero un’impennata a causa delle guerre di mafia e camorra, gli omicidi sono costantemente diminuiti. Ma ad essere uccisi di meno erano gli uomini, le vittime principali delle guerre di mafia. A fronte di un calo degli omicidi di uomini, quelli di donne restavano stabili e questo ha portato la loro incidenza sul totale ad aumentare (anche se il loro numero in assoluto non aumentava).
La seconda obiezione è di natura semantica: femminicidio, ci fanno notare, è un termine con un significato diverso da femicidio. Quest’ultimo indica gli omicidi di genere, cioè quegli omicidi compiuti da uomini nei confronti delle donne per motivi legati alla misoginia. Il primo raggruppa tutta una serie di fenomeni come discriminazioni, violenze, stupri e molestie. Nel campo specialistico dell’antropologia e della criminologia questi due termini hanno due significati diversi e riconosciuti.
Non è così nel linguaggio comune: in quasi tutti gli articoli e nei servizi giornalistici il termine femminicidio è stato usato come sinonimo del termine femicidio. In questo caso specifico è difficile dare la colpa ai giornalisti: femicidio e femminicidio, etimologicamente, sono esattamente la stessa parola. “Femi” o “femmin”, che vuol dire di femmine e -cidio, dal latino caedere, che vuol dire uccidere.
Ma l’obiezione più tagliante è certamente quella che ci fa Giulia Siviero e che Andrea Zitelli (@andreazitelli_) ha efficacemente riassunto: potremmo definirla un’obiezione di “opportunità”. Ecco cosa scrive Zitelli:
E anche se le uccisioni di donne in Italia non fossero in aumento perché ridimensionare nel dibattito pubblico un problema strutturale interno alla società?
Questa critica è una delle più difficili da liquidare con una scrollata di spalle per chi fa factchecking. Un altro modo di dire la stessa cosa è: perché smontare quelle campagne politiche o mediatiche che, magari piegando un po’ i dati, si propongono un obbiettivo degno e meritevole? Non è un’obiezione da poco. Si tratta di una corda tesa su un baratro che dobbiamo percorrere fino in fondo. Del tema ne avevamo già parlato qui (nelle risposte ai commenti) e gli avevamo dedicato un intero articolo qui.
Ci sono due risposte: una più brutale, l’altra più pratica. Leviamoci subito il sassolino nella scarpa di quella brutale. Il mestiere di giornalista non è quello di orientare o manipolare il dibattito pubblico verso un obbiettivo ritenuto giusto o meritevole. Il mestiere del giornalista ha a che fare con la verità, o con la più ragionevole approssimazione che è possibile raggiungere.
Sopratutto in un paese dove il dibattito pubblico è arretrato, pieno di falsità, manipolato da una parte o dall’altra, per noi giornalisti il dovere di tutelare la correttezza di numeri e dati è doppiamente forte. Non è solo questione di controllare i numeri dopo la virgola, ma di controllare i centesimi dopo la virgola e di essere pronti a rettificare quando ci sbagliamo. Soltanto applicando a noi stessi un rigore estremo otteniamo il diritto a chiedere rigore anche agli altri.
La seconda obiezione è più pratica. Questa critica parte da un presupposto: parlare di un fenomeno e dipingerlo con toni emergenziali aiuta ad adottare policy o atteggiamenti culturali da parte dell’opinione pubblica in grado di curarlo. Dall’altro lato, criticare gli eccessi emergenziali, sortisce l’effetto opposto: diminuisce l’interesse e rallenta il cambiamento.
Noi pensiamo che invece sia vero l’opposto. La retorica dell’emergenza continua, per cui certi fenomeni continuano e anzi peggiorano nonostante i progressi sociali e culturali che la nostra società ha faticosamente raggiunto, sortisce l’effetto opposto a quello che si vuole ottenere. Fa sentire le persone impotenti e rischia di renderle ciniche e indifferenti: «sono 30 anni che le pubblicità progresso mi dicono che i bambini africani muoiono di fame. All’inizio donavo anche dei soldi, ma se dopo 30 anni non è cambiato niente allora non ne vale la pena» (in realtà la fame nel mondo sta diminuendo da anni).
È tutto da dimostrare che la retorica dell’emergenza abbia un effetto positivo sulle policy adottate dallo stato. L’esperienza di questi ultimi anni avrebbe dovuto insegnarci che spesso, quando costretti ad agire sull’onda emotiva, i politici producono leggi e soluzioni altrettanto emotive e altrettanto poco efficaci.
Trasferiamo questo ragionamento nell’Italia del 2009: sui media e nei discorsi dei politici impazza il dibattito sulla sicurezza. L’Italia viene dipinta come un paese sempre più pericoloso e le città come trappole mortali. Chi faceva notare che la criminalità in realtà non era affatto in aumento, poteva essere criticato perché: “in aumento o no la criminalità non è forse un problema?”. La retorica emotiva ed emergenziale produsse le camionette dell’esercito per strada: a detta di tutti gli esperti un orpello inutile che non ha fatto nulla per ridurre la criminalità e ha finito con l’aumentare la percezione di insicurezza.
Eccoci quindi al punto finale: qualunque ragionamento che parta da dati scorretti o, addirittura, dall’assenza di dati e da una pura percezione emotiva, difficilmente potrà produrre policy efficaci. A volte combattere una giusta battaglia sulla base delle informazioni sbagliate può portare anche a ottenere risultati opposti a quelli che si volevano raggiungere.