Rawlslandia, turismo e ricchezza
Non è vero che Berlino ha il triplo dei visitatori di Roma e c’è parecchio di cui discutere sui dati della distribuzione della ricchezza in Italia. Sono alcune delle imprecisioni fatte ieri nel corso della puntata di Servizio Pubblico.
Vittorio Sgarbi ha sostenuto che Berlino riceve ogni anno tre volte più visitatori di Roma. La notizia probabilmente arriva da questo articolo del Wall Street Jorunal nel quale, alla prima riga, si legge che Berlino avrebbe sorpassato Roma come numero di visitatori che hanno prenotato una stanza in albergo. Non viene fornita una fonte e nemmeno il numero dei visitatori di Roma, ma solo le presenze in albergo per Berlino: 22 milioni nel 2011 (altre fonti parlano di 25 milioni).
Che a Berlino ci siano il triplo di visitatori che a Roma è certamente falso, ma probabilmente è falso anche che Berlino sia, semplicemente, più visitata. Secondo Federalberghi, l’associazione di categoria degli albergatori, nel 2011 a Roma ci sono state 25 milioni di presenze negli alberghi. Secondo l’Ente bilaterale per il turismo Lazio sono stati addirittura 28 milioni. Non abbiamo trovato dati terzi sul numero di visitatori, ma diverse altre fonti sembrano indicare che Roma sia tutt’ora più visitata di Berlino. Sul sito del Parlamento Europeo abbiamo trovato questa infografica (senza cifre e senza fonte). Roma batterebbe Berlino anche nel turismo internazionale, quello che cioè conta solo i visitatori stranieri: più di 5 milioni nel 2010 contro 2,8.
Laura Puppato e Michele Santoro hanno poi insistito sulla distribuzione della ricchezza in Italia, sostenendo che il 10% degli italiani possiede il 45% della ricchezza nazionale. Si tratta di un dato corretto, come ha certificato un’analisi della Banca d’Italia di cui si è parlato molto qualche anno fa. Entrambi hanno sostenuto che sia una distribuzione “ineguale”. Ci eravamo già occupati qui di questo argomento e come l’altra volta ribadiamo che è più che legittimo ritenere questa distribuzione “ineguale”. Non è vero, però, che questa distribuzione sia “ineguale” rispetto al resto del mondo e – come vedremo tra poco – nemmeno in un mondo di quasi perfetta uguaglianza.
Nel documento della Banca d’Italia citato prima, ci sono alcuni paragrafi dedicati a come è distribuita la ricchezza in diversi paesi del mondo rispetto all’Italia. Si tratta, viene spiegato, di un argomento abbastanza spinoso perché, al variare degli indici che si usano per misurare la ricchezza, varia molto anche la posizione in classifica del singolo paese. Diverse ricerche, però, sembrano mostrare risultati convergenti per quello che riguarda l’Italia e sono risultati – diciamo così – incoraggianti. In Italia la ricchezza sarebbe distribuita meglio che in paesi come la Svezia, la Finlandia, gli Stati Uniti e la Germania. A questo contribuirebbe il fatto che moltissimi italiani posseggono una casa.
Ma come dovrebbe essere distribuita la ricchezza in un paese perfetto – dove con perfetto intendiamo “perfettamente eguale”? Un paio di anni fa, Sandro Brusco, economista del collettivo Noise from Amerika, ha fatto un divertente esperimento per vedere come sarebbe distribuita la ricchezza in un paese di “perfettamente eguali”, dove cioè ogni cittadino guadagna la stessa cifra. Se vi interessano i conti, vi consigliamo la lettura del post che è molto semplice e ben scritto. Qui ci limitiamo a darvi il risultato. Brusco ha immaginato due paesi: Rawlslandia Superiore e Inferiore.
Nella Superiore tutti i cittadini guadagnano e risparmiano la stessa cifra fino a che non si ritirano dal lavoro e percepiscono una pensione uguale per tutti. In questo paese inventato il 10% della popolazione più ricco (composto dai lavoratori subito prima e subito dopo gli anni delle pensione) detiene il 20% della ricchezza totale. In Rawlslandia Inferiore le cose funzionano diversamente – e in modo più simile alla realtà. Lungo il corso della carriera i lavoratori hanno degli aumenti di stipendio (1,5% annuo). In questo paese dove chiunque, alla stessa età, guadagna la stessa cifra, il 10% più ricco detiene il 40% della ricchezza totale – non molto distante dal 45% che c’è in Italia.
E ora una precisazione sull’Islanda. Dopo il nostro ultimo articolo, L’economista grillina, l’Islanda e tanti miliardi, abbiamo ricevuto alcune critiche per come abbiamo ricostruito la storia della crisi economica del paese. Ci è sembrato che la nostra spiegazione fosse chiara e che la maggior parte dei nostri lettori l’abbia intesa nel modo corretto, ma rileggendola ci siamo accorti che effettivamente abbiamo trattato con eccessiva leggerezza alcuni aspetti con il rischio di trarre in inganno i nostri lettori – cosa di cui ci scusiamo.
In seguito alla nazionalizzazione delle tre maggiori banche del paese, alla fine del 2008, il governo islandese decise di separare tutti gli asset domestici mettendoli in istituti che sarebbero sopravvissuti, mentre tutti quelli esteri furono sistemati in istituti destinati alla liquidazione. Questa scelta fu resa necessaria dal fatto che il debito totale del paese era arrivato a 50 miliardi di euro, l’80% circa causato dalle banche appena nazionalizzate. Si trattava di una cifra a cui non poteva fare fronte un paese con un PIL di 8,5 miliardi. Il risultato fu che solo una piccola parte di quei 50 miliardi venne restituita.
La “leggenda” alla quale ci riferivamo nell’articolo precedente è quella secondo cui la scelta di compiere questo fallimento obbligato sia stata compiuta tramite un referendum dai cittadini islandesi e che questo fallimento abbia causato perdite: “alle banche invece che ai cittadini”. Il referendum, come abbiamo scritto, riguardava solo la restituzione dei debiti di una controllata di una delle banche nazionalizzate – debiti che sono stati, comunque, in parte restituiti. Gli effetti che ha prodotto questa situazione in Islanda non sono stati affatto secondari: il PIL crollò, l’inflazione arrivò a punte del 20%, la moneta dell’isola venne svalutata rispetto all’euro e ci fu un aumento vertiginoso del debito pubblico.