La differenza fra vincere e stravincere
No, il punto non sono le battute, non è il “Fassina chi?”, non può essere un gioco di parole a indignare e a provocare le dimissioni. Anche se è legittimo, da parte della minoranza del Pd, usare tutti gli strumenti dialettici che crede migliori. Matteo Renzi quando non era segretario per anni ha attaccato frontalmente la dirigenza che poi ha battuto nei gazebo. Il giorno della nomina di Franceschini segretario disse che era stato eletto il “vice disastro” e va da sé che il suo predecessore era, dunque, il disastro: Veltroni, secondo Renzi più bravo a scrivere libri che a fare politica. Probabile dunque che Fassina pochi giorni fa e Gianni Cuperlo si siano dimessi strumentalmente, approfittando di una mancanza di stile del segretario. Lo avrebbero fatto comunque. Ma il punto non sono le battute. E non è neanche in discussione la legittimità del mandato di Renzi da segretario. Renzi ha vinto il congresso, la Direzione del Pd ha votato sull’accordo proposto dal segretario e in futuro si esprimerà su altro. È l’argomento principale, spesso usato da Renzi in questi giorni, che fa riflettere. Sostenere, come premessa di ogni ragionamento politico, che alle primarie di dicembre hanno votato “milioni di persone” e che quindi è di fronte a loro, e solo a loro, che si deve rendere conto, può essere pericoloso. I “milioni di voti” non possono essere un argomento valido per giustificare tutto, senza mediazioni in senso letterale. Siccome il popolo ha deciso – quale popolo, poi? –, il plebiscito diventa permanente e inattaccabile. “Sotto le monarchie – scriveva Tocqueville in Democrazia in America – il dispotismo era disonorato; stiamo attenti che le repubbliche democratiche non lo riabilitino e che, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere degradante”.