Bersani, Renzi e le guerre di religione nel Pd
Più passano i giorni, più questo 2012 assomiglia parecchio al 2008. Matteo Renzi che gioca al «mi si nota di più», mi candido o non mi candido, ma in realtà ha già deciso cosa fare da grande, Renzi che critica i gruppi dirigenti ritenendoli inadeguati. Anche nel 2008 accadde lo stesso. Passò un paio di mesi così, facendo intendere che prima o poi avrebbe deciso; accelerava, poi rallentava, poi di nuovo accelerava, teneva tutti sulla corda. Giornalisti, avversari. Si parlava, comunque di lui. Poi affittò il Palacongressi e disse: gente eccomi, ci sono.
Più passano i giorni, più questo 2012 assomiglia parecchio al 2008. Renzi che scalpita, la nomenclatura del Pd che lo attacca, gli dice di stare al suo posto, di mettersi in fila, di non fare troppo lo spaccone, di non candidarsi e pensare di fare il sindaco. A Firenze gli dissero «non ti candidare, fatti un altro giro in Provincia». Da Roma arrivarono le disposizioni sulle primarie, di coalizione e aperte pure quelle, tanto che i candidati del Pd erano quattro e c’era un candidato della sinistra. Poi s’inventarono, a gara in corso, quella regola del quaranta per cento, la soglia da raggiungere per evitare il ballottaggio, e apparve evidente il tentativo della segreteria, guidata da Veltroni, di creargli qualche impiccio. Alla fine vinse lui, superando la soglia di poco, e improvvisamente un’intera classe dirigente fiorentina, che aveva prosperato per decenni, sparì.
Solo che sono passati quasi quattro anni da quell’autunno-inverno 2008, e nel frattempo è successo di tutto, nel Pd, nel centrodestra, nel Paese. Ma nonostante sia appunto successo di tutto, compresa la caduta di Berlusconi e l’arrivo di Monti, per un inarrestabile istinto all’autoconservazione e alla riedizione della storia, magari sotto altre forme, di cose già viste, siamo di nuovo daccapo. Un rinnovatissimo sentimento antipartitico che ora trova pieno sfogo in Beppe Grillo e una nuova, nascente, guerra di religione, dopo quella durata per 17 anni. Dopo aver accantonato (anche se non del tutto), per naturale consunzione del contesto politico, la contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani, adesso se ne vorrebbe introdurre un’altra. Qualcuno si sente orfano di Berlusconi, e ora vorrebbe trasformare tutti in renziani e antirenziani.
Il sindaco di Firenze ha le sue responsabilità: in questi anni ha alimentato lo scontro, perché la polarizzazione aiuta a vincere le battaglie politiche, se non altro quelle interne, anche se ieri ha saggiamente evitato polemiche. Ma le frasi dell’altro giorno del responsabile economico del Pd Stefano Fassina («Io a differenza sua ho avuto una lunga esperienza professionale fuori dalla politica. Lui è un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino») sono solo viscere e curva sud. Tenuta presente, invece, la bravura di Bersani nell’evitare finora il clima da veleni-e-guerra civile, è sempre stato questo uno dei problemi del Pd quando ha scelto la via della demonizzazione: il tutti contro uno. Ma questo è proprio il terreno su cui Renzi sa giocare meglio. Più il partito lo demonizza, più lo rende simpatico anche a chi nel migliore dei mondi possibile non lo voterebbe.
(Aggiungo che tocca pure ai duellanti inventarsi qualcosa affinché lo scontro non degeneri, preservandolo dalle tifoserie. Di tutto c’è bisogno adesso fuorché nuove scissioni, una parolina che a sinistra piace, come la storia insegna, davvero troppo).