La «coda lunga» della politica
In epoca berlusconiana sono nati diversi movimenti dal basso. La loro gestazione originata su Internet poi ha trovato sbocco fisico nelle piazze da riempire, con il passaggio dai gruppi su Facebook all’offline delle manifestazioni. Il Popolo Viola, le donne di Se non ora quando?, e anche il beppegrillismo dei Vaffanculo Day avevano tutti in comune un nemico da abbattere, il berlusconismo, e un sistema di organizzazione della protesta orizzontale e web based.
La questione però non riguarda solo Berlusconi. Il quale effettivamente è stato il coagulante, l’obiettivo, il nemico, tutte cose che servono quando in un gruppo si devono eliminare le differenze e concentrarsi solo su ciò che unisce. Adesso che Berlusconi non è più al governo sono venute meno le ragioni sociali di un sacco di partiti e alleanze e movimenti; ma non le altre concause. Ciò che è nato in questi anni è frutto della «coda lunga» di cui parla Chris Anderson in un suo bello e fortunato saggio, in Italia pubblicato da Codice Edizioni. Anderson si occupava di economia della Rete, ma lo stesso concetto di «coda lunga», che spiega benissimo perché siamo passati da un mercato di massa a una massa di mercati, può essere applicato alla politica.
Questi movimenti sono delle nicchie, talvolta molto consistenti, di persone che hanno preferito evitare di affidarsi ai partiti in crisi di rappresentanza per creare dei movimenti di autorappresentanza. Una cosa che vediamo tutti i giorni in settori diversi dalla politica, dall’informazione all’intrattenimento; se la televisione trova un concorrente in YouTube e nella programmazione cinematografica personalizzata, nella quale ognuno può costruirsi il suo palinsesto, la politica dei movimenti e delle nicchie è la risposta alla politica mainstream dei partiti di massa. I quali sono sempre meno di massa così come le nicchie sono sempre meno di nicchia. Anche questi movimenti hanno un obiettivo, di cui parla Alessandro Lanni nel suo libro Avanti popoli! pubblicato da Marsilio: quello della «disintermedazione». Ovvero, «far fuori i partiti novecenteschi intesi come sinonimo del vecchio modo di rappresentare il popolo dentro il palazzo, la ‘mediazione’ tra le istituzioni e i cittadini».
Per provare a far fuori i «partiti novecenteschi» però servono passaggi successivi, cioè una traduzione nelle cabine elettorali. Cosa che fino a questo momento non è capitata perché i movimenti hanno scelto di non candidarsi alle elezioni politiche (l’unico a presentarsi, ma alle urne locali, è stato il M5S). Da qualche tempo a questa parte però circola l’idea che, siccome la sfiducia nei confronti dei partiti è alta, una risposta potrebbe essere quella di creare delle liste civiche (come spesso si fanno nelle competizioni amministrative) per le politiche. Ne parlava anche Mannheimer qualche giorno fa sul Corriere della Sera. Al netto dell’astensionismo, che secondo lui si farà sentire,
«resta una quota ampia di attuali indecisi che si recheranno comunque alle urne. Costoro potranno essere più facilmente conquistati da una forza politica che riesce ad attribuirsi un’immagine di “nuovo” e “diverso” dai partiti tradizionali. Che esprima una netta rottura rispetto al modo di fare politica che siamo abituati a conoscere e che gode di una così bassa reputazione tra i cittadini. Ne sono un esempio varie liste presentatesi in occasione delle prossime amministrative. Alcune sono ancora l’espressione di formazioni politiche tradizionali, ma altre costituiscono il tentativo di un rinnovamento nell’offerta politica».
Non ho la palla di vetro e diffido sempre di chi si mette a fare il futurologo in politica. Però alcune vittorie elettorali (da Firenze a Napoli, a Milano) sono arrivate proprio perché quei candidati si proponevano come una «disintermediazione». Resta ancora da capire se quel modello di candidatura possa funzionare anche fuori dalle città e, prima ancora, se possa essere applicato anche a movimenti che non vogliono leader ma al massimo dei portavoce.