Matteo Renzi e l’anima del PD
Dopo gli strappi su Primo Maggio, marchionnismi vari e liberalizzazioni eventuali, Matteo Renzi – per la prima volta da due anni a questa parte – sta rimodellando la sua strategia politico-comunicativa per recuperare voti a sinistra. Alcuni segnali si sono visti negli ultimi giorni, quando il sindaco rottamatore ha interrotto il suo silenzio mediatico durato quasi tre mesi. L’intervista all’Unità di sabato scorso e il «no» a via Craxi («non sarebbe pedagogico», ha detto) sono due segnali.
Alle riforme di Monti, pur giuste, manca «l’anima», dice il sindaco. «Va bene parlare di taxi, per carità, io imporrei lo scontrino fiscale ai tassisti. Ma quando affrontiamo le liberalizzazioni dobbiamo indicare le banche, le assicurazioni, le vere lobby. E comunque, nel calendario della politica, oggi il tema è un altro». L’anima appunto. «Sono del Pd, per il mio partito vedo un’opportunità, uno spazio enorme, drammatico: la diseguaglianza sociale nel Paese». Il divario fra ricchi e poveri è «cresciuto negli ultimi vent’anni, in Italia più che altrove. Io vedo famiglie confrontarsi con la difficoltà di arrivare a fine mese. Se nasce un figlio, i genitori hanno la preoccupazione di non farcela: non è giusto. Questo i tecnici possono non vederlo, ma i politici…».
Insomma: i professori della Bocconi non stanno fra la gente, non girano per le strade, non sanno come si vive per davvero. Tocca alla politica riempire il vuoto che i bocconiani non possono coprire. Insomma: fra lui e Veltroni, che ieri ha rilasciato un’intervista a Repubblica in cui dice, fra le altre cose, che l’articolo 18 non deve essere un tabù, i toni da rottamatore ce li aveva più l’ex segretario.
L’aggiustamento a sinistra però è legato anche a un’eventualità che finora Renzi e renziani hanno sempre considerato secondaria: un secondo mandato da sindaco di Firenze. Di questa ipotesi finora il rottamatore ha sempre parlato solo con i suoi. L’altro giorno però a La Zanzara di Giuseppe Cruciani si è lasciato scappare una frase abbastanza chiara: «La mia candidatura? Molto meno probabile di tre mesi fa», ha detto. Fino a poco tempo fa infatti il mondo politico era un altro. C’era ancora Berlusconi, il governo Monti non esisteva e Renzi aveva costruito il suo profilo “contro”. Contro la dirigenza del Pd, contro Berlusconi. Adesso che non c’è più il Cavaliere, si ritrova a passare dalla pars destruens alla pars costruens, cioè si trova a dover elaborare un programma di governo. Non basta più dire che è tutto sbagliato, tutto da rifare. Il problema è che Monti ha iniziato a fare le riforme che Renzi aveva indicato nelle cento idee per l’Italia della Leopolda. La proposta renziana insomma corre il rischio di invecchiare precocemente.
Renzi intanto continua a raccogliere fondi (70 mila euro a gennaio a Milano con una cena di imprenditori) e si sta dotando di un suo think tank (anche se lui preferisce chiamarlo do tank, un posto dove non solo si pensa ma soprattutto si fa qualcosa), che sarà diretto da Giuliano da Empoli, suo ex assessore oggi negli Stati Uniti per un periodo sabbatico, affiancato nella parte operativa da Giorgio Gori. Il 4 aprile uscirà il suo nuovo libro, sempre per Rizzoli, in cui le beghe amministrative – molto presenti in Fuori! – lasceranno il passo a una visione. Certo, come ha detto Renzi, la sua candidatura alle eventuali primarie, è appunto meno probabile di prima. Dipenderà – questo il suo ragionamento – anche da chi saranno gli avversari. Se c’è Bersani, la candidatura è pressoché certa. Diverso il discorso se ci dovessero essere Enrico Letta o Nicola Zingaretti, che però ha altre ambizioni e vorrebbe fare il sindaco di Roma. Con lui il giovanilismo non funzionerebbe, così come dire nannimorettianamente che con questi dirigenti da 4 o 5 legislature sul groppone il Pd non vincerà mai.