Il partito pirata del Prenestino
In tempi di crisi finanziaria globale, rischia di sembrare un lusso occuparsi di rivoluzione tecnologica, diritti d’autore e open government: la pubblicazione di tutti gli atti di stati e amministrazioni per consentire l’accesso delle informazioni ai cittadini . Ma questo è il progetto dell’Internazionale dei Partiti Pirata, movimento transazionale fondato a Bruxelles nel 2010 e presente in oltre 40 stati: far diventare essenziale ciò che potrebbe apparire superfluo. Perché occuparsi di data retention, cioè di raccolta e conservazione dei dati personali, quando c’è gente che perde il lavoro? Perché combattere per la legalizzazione dello scambio di file – e contro il terrorismo psicologico di quegli spot proiettati nei cinema che equiparano un ladro di borsette a chi condivide un paio di canzoni su Internet – quando c’è chi i computer neanche li possiede? Christian Engström, primo deputato del Partito Pirata Svedese eletto a Bruxelles, paragona la missione dei bucanieri a quella dei Verdi, che quarant’anni fa cominciarono a dettare l’agenda sulle politiche ambientali. “Ora tutti i partiti hanno punti programmatici che si riferiscono all’ambiente”. Ecco, la sfida dei pirati è far sì che anche gli altri partiti si pongano le loro stesse domande: come possiamo gestire la società dell’informazione? Come preservare la libertà su Internet? “La nostra esistenza – dice Engström – obbliga gli altri a confrontarsi con le ‘nostre’ issues. Non le possono ignorare a lungo”.
Qualche piccolo risultato lo hanno ottenuto. Il Piratpartiet a Bruxelles fa parte dei Verdi-Alleanza Libera Europea insieme a partiti ambientalisti, regionalisti e indipendentisti come il Partito della Nazione Corsa e la Sinistra Repubblicana di Catalogna. Da non molto i Verdi hanno fatto propri alcuni capisaldi del movimento sulla questione dei diritti intellettuali: “La condivisione di copie, la diffusione o l’utilizzo di un’opera tutelata dai diritti d’autore di altri non dovrebbero mai essere vietati se avviene in un ambito non commerciale e senza scopi di lucro”. Uno dei principi-guida dell’internazionalismo pirata è proprio questo: l’accesso totale, perfino parossistico alle informazioni. Sono due facce della stessa medaglia: se nei rapporti privati il file sharing è considerato uno strumento di ampliamento del sapere, soprattutto per chi ha mezzi limitati, nei rapporti pubblici esso si trasforma nella messa in pratica di un vecchio adagio del fisico Edward Teller: “La migliore arma di una dittatura è la segretezza, la migliore arma di una democrazia è l’apertura”.
Con queste basi Rick Falkvinge fondò nel 2006 il Piratpartiet svedese, che sta all’origine dell’oltrismo internazionalista pirata (“Non siamo né socialisti né liberali”). Falkvinge è stato l’ideologo e il frontman del movimento. Ne ha tracciato il cammino. Qualche volta è andata male, altre molto bene. L’exploit delle elezioni europee – 7,1 per cento – non si è ripetuto alle Politiche del 2010 in Svezia, nelle quali il Piratpartiet è crollato allo 0,7. Come si spiegano i risultati altalenanti? Al di là dello zoccolo duro dei giovanissimi che compongono questi partiti – Ung Pirat, o schieramento “under” del Piratpartiet, è stata per parte del 2009 e per il 2010 la più grande organizzazione politica giovanile per numero di aderenti – i partiti pirata hanno assorbito, oltre al motivo generazionale e un senso di sfiducia nei confronti del mondo degli adulti, anche una certa insofferenza verso la politica, la stessa che si vede negli altri movimenti che in queste settimane hanno colonizzato ampi spazio del dibattito pubblico: gli Indignados e Occupy Wall Street.
Naturalmente questo rischia di rivelarsi un successo umorale. Nel 2009 il Partito svedese ebbe un buon risultato alle Europee anche perché in quel periodo sui giornali si discuteva molto del processo a The Pirate Bay, un sito per la condivisione dei file che ha permesso a tanti, per esempio, di riuscire a guardare la loro serie televisiva preferita senza sganciare un centesimo. Certo è che le corporation, nelle vesti di censori del presunto diritto a guardarsi gratis Friends sul computer di casa, non hanno un grande appeal e quindi involontariamente portano un sacco di voti ai partiti pirati. Quindi è vero, come spiega Denis Simonet, presidente del Piratenpartei Schweiz, il partito pirata svizzero, che si è creato negli ultimi vent’anni un nuovo spazio politico da occupare: “Falkvinge la chiama Infopolicy, noi la chiamiamo Digital policy”: soluzioni di governo per l’epoca 2.0. Ma è altrettanto vero che non di soli bit può vivere l’uomo: nel corso degli anni il movimento si sta trasformando da partito di nicchia a partito più generalista. In Germania il Piratenpartei alle elezioni di Berlino ha preso 15 seggi anche perché nel suo programma ha aggiunto punti sulla legalizzazione delle droghe leggere, il trasporto gratis e l’introduzione del reddito minimo garantito. Ed è altrettanto vero che la trasparenza a ogni costo produce paradossi. È il caso di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, accusato di pratiche poco trasparenti. “Julian aveva e ha un’idea alla James Bond di Wikileaks”, ha spiegato una volta il suo ex portavoce Daniel Domscheit-Berg. “Un’organizzazione sotterranea. Per l’insurrezione, diceva. Il contrario della trasparenza che pretende dal mondo. Io ho sempre sostenuto che le cose dovessero essere gestite diversamente. Fino al momento della rottura”.
È interessante capire se succederà qualcosa in Italia. Il presidente italiano, Athos Gualazzi, lo scorso dicembre ha annunciato che alle prossime elezioni politiche ci saranno anche loro; vedremo come aggiorneranno il loro programma elettorale visto che il movimento internazionale si è sempre speso contro le intercettazioni, considerate una violazione del diritto di riservatezza dei cittadini. Sul sito italiano invece c’è ancora un comunicato del 2010 di adesione alla “grande mobilitazione per dire no al disegno di legge Alfano, che ostacola il lavoro di magistrati e giornalisti e rende i cittadini meno sicuri e meno informati”. In Germania il Partito pirata che di recente ha avuto tanti consensi nel 2008 lanciò una campagna politica contro le intercettazioni. Alcuni attivisti scoprirono dei documenti riservati dai quali risultava che il governo utilizzava dei software per intercettare le telefonate via Skype e li diffusero. Insomma: per quanto generalista possa diventare il partito dei pirati, ci sono delle specificità che gli appartengono, ha un suo core-business. Una di queste è proprio il diritto all’oblio e all’anonimato. Due cose non garantite da social network tipo Facebook e Google+, come testimonia anche la storia di Zhao Jing, giornalista politico e blogger cinese meglio conosciuto come Michael Anti. Qualche tempo fa Facebook gli ha disattivato l’account, nonostante avesse più di mille “amici”, proprio perché usava uno pseudonimo; lui, molto arrabbiato, si è trasferito subito su Twitter, dove invece queste restrizioni non esistono. Anche su Google+ sono accettate solo identità verificate. Eppure anche nel mondo reale possiamo fare un sacco di cose senza rivelare chi siamo. Possiamo apparire in pubblico senza essere riconosciuti, comprare cose in contanti senza lasciare traccia dei pagamenti. Perché su Internet, che è il non-luogo della openness, queste possibilità dovrebbero essere inibite?
“Ogni giorno – scrive Falkvinge sul suo blog – diciamo cose che non diremmo in altri contesti. Reagiamo a certe notizie con parolacce o frasi fuori luogo, per esempio, ma queste esternazioni nascono per restare effimere. Scompaiono non appena escono dalla bocca. Chi mai sarebbe a proprio agio se tutto ciò che viene detto, ogni singola parola, fosse registrato, archiviato e reso consultabile?”. I pirati italiani poi, oltre a chiarire qualche loro piccola crisi identitaria, dovranno anche confrontarsi con il loro vero competitor: il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Anche lui divinizza la Rete. Non a caso l’ultimo libro del comico genovese autoimprestatosi alla politica, scritto a quattro mani con Gianroberto Casaleggio, si chiama “Siamo in guerra. Per una nuova politica. La rete contro i partiti”.
Il piccolo e ignorato partito italiano, intanto, ha iniziato un percorso di autorevisione. A dicembre in uno scantinato del Prenestino si sono riuniti i membri del Partito Pirata per approvare un nuovo statuto che “pone la democrazia partecipativa nel cuore del funzionamento del partito”. I pirati italiani hanno adottato il software LiquidFeedback del Piratenpartei, “una piattaforma di comunicazione che permette di sviluppare decisioni politiche ragionevoli e studiate in dettaglio, abilita ogni pirata ad occuparsi dei temi per se più interessanti, al contempo delegando il resto a chi ha competenze specifiche in altre aree. Tutti sono dirigenti e portavoce”.