Tutti questi morti
“Non voglio lodare la morte, ma nella sua imminenza la morte conferisce una certa bellezza alle proprie ore – una bellezza che non ha corrispettivi, ma che è travolgente”. È una frase che trovate a pag. 74 di Questo buio feroce. Storia della mia morte di Harold Brodkey (Fandango 2013, traduzione di Delfina Vezzoli); e questo potrebbe essere il motivo, consideravo, per cui quest’estate ho letto tre libri sulla morte – uno molto bello (questo di Brodkey), uno lodatissimo ma sopravvalutato (Il tempo della vita di Marcos Giralt Torrente, Elliot 2014, traduzione di Pierpaolo Marchetti), uno lodatissimo e meraviglioso (Il posto di Annie Ernaux, L’orma 2014, traduzione di Lorenzo Flabbi) – anche se, è pur vero, che ci sono delle spinte inconsce che con tutta probabilità ci avvicinano a leggere libri che ci mettono di fronte alla scomparsa di una persona, alla sua mancanza, alla paura di questa mancanza, e al dolore. Ognuno probabilmente ha le sue ragioni, sono personali, e spesso non sono trasparenti nemmeno a se stesso.
Ma la bellezza di cui parla Brodkey, sono convinto – ed è una convinzione, come posso dire, corroborata non solo da una specie di speranza, ma da esperienze che più personali sono intime -, è indubitabile: ed è questo incanto che ti porta a immergerti in questo genere di libri. Non si tratta semplicemente l’incanto di riflesso di chi si mette sul bilico del burrone per sentire la forza dell’aria nei polmoni, ma una sorta di immaginazione inversa: quella di Orfeo con Euridice probabilmente, l’idea di potersi per un attimo affacciare nel mistero, in modo pudico, quasi infantile.
Mi sono letto in pochi giorni questi tre libri mentre i siti di notizie mi raccontavano la morte in ogni sua declinazione possibile – i massacri di Gaza, lo sterminio degli yazidi, l’esecuzione di Ferguson, la decapitazione di Foley -, mostrandomi video e foto di corpi che muoiono o appena morti, di cadaveri freschi, di autopsie, in una sorta di lancinante educazione alla paralisi da sguardo e all’anestesia da troppo sangue. Posso interpretare e indignarmi, arrabbiarmi e schierarmi, ma non riesco a commuovermi per queste morti ingiustissime, ma lontane, simboliche, troppe, ed è questa incapacità di reale commozione, di reale possibilità di elaborazione del lutto (che sia dolore o rabbia) di fronte a questa teoria di morti, che è in sé un sentimento terribile: il sentire dentro di sé un principio di disumanizzazione, una lucidità non richiesta.
Credo sia anche per questo che a un certo punto ho letto queste tre storie privatissime, che non parlavano di massacri di popoli o della devastazione delle guerre, perché solo nell’estensione di un’esperienza personale, nel processo analogico che ci consente la letteratura e che invece anche il migliore giornalismo spesso annulla, è possibile rintracciare quell’impressione etica – un qualche tipo di sentimento affidabile e nostro a tal punto da essere saldo – da cui compiere poi, per altri versi e in altri tempi, il passaggio verso una coscienza politica.
Il libro più atroce in questo senso è Questo buio feroce. Harold Brodkey lo inizia così: “Ho l’AIDS. E la cosa mi coglie di sorpresa. Non ero più a rischio fin dal 1977, vale a dire che le mie esperienze, le mie avventure in campo omosessuale, risalgono agli anni Sessanta e Settanta, e a quell’epoca contavo sul tempo e sull’astinenza per stabilire in quale misura fossi libero dal contagio e per proteggere gli altri e me stesso. […] Comunque non ha molta importanza. Ho l’AIDS. Ho avuto una polmonite da Pneumocystis carinii, che mi ha quasi ucciso. Improbabile o no, le analisi del sangue, la conta dei linfociti T, il fatto che fosse Pneumocystis, significa che ho l’AIDS e devo morire. E questo è quanto”.
Il libro è stato pubblicato in America nel 1996, l’anno stesso della morte di Brodkey, ed è il racconto degli ultimi tre anni della sua vita. Nonostante avessi amato, letto e riletto, i suoi racconti – quelli di Primi amori, altri affanni e quelli di Storie in un modo quasi classico – che l’hanno consacrato come uno dei talenti più puri (e forse sprecati) del Novecento letterario statunitense (“il Proust americano”, la celebre definizione di Harold Bloom); mi ero sempre tenuto discosto da questa “storia della mia morte” come recita il sottotitolo, con una distanza simile, mi dico, a quella di chi ha paura di un contagio. Quella parola AIDS all’inizio, esibita in maiuscolo, mi allontanava. Non la voglio conoscere questa storia della tua morte. È troppo tua, mi dicevo. È troppo dolorosa. È un dolore che non mi va di ascoltare. Ed è vero che Brodkey non fa velo su nulla: nell’epigrafe che apre il libro scrive: “Non vedo l’utilità della riservatezza. O meglio, non vedo l’utilità di affidare una testimonianza alle mani, o alla bocca di altri”. È chiaro che sono le parole di uno scrittore: la mia morte – è il sottotesto – me la racconto io, con le mie parole e con i miei aggettivi, con la mia sintassi levigata e con il mio ritmo sulla pagina. Perché qualcun altro deve farlo al posto mio, magari in modo sciatto e irrispettoso? Ma c’è dell’altro. L’esibizionismo di Brodkey è ambivalente: è sì una forma di narcisismo confessa, ma è anche un atto di generosità incredibile. Brodkey si denuda. Parla della sua infanzia: un ragazzino bellissimo (“sessualmente irresistibile”, uan sorta di condanna), abbandonato dalla sua famiglia originaria, adottato e molestato dal padre adottivo. Parla del declino del suo corpo e del suo amore per la moglie Ellen, applicando il virtuosismo ipersensoriale della sua scrittura ai microeventi di una degenza ospedaliera o ai colloqui con il medico Barry. Eppure Questo buio feroce è un libro completamente privo dei barocchismi che pure innvervano i racconti di Brodkey; e se dovessi citare, come ho fatto prima, quelle frasi che raccolgono la sua capacità icastica di scrivere della morte, da pari a pari verrebbe da dire, o in modo ontologicamente asimmetrico, finirei per ricopiare almeno una buona metà del libro.
“Si può essere stanchi del mondo – stanchi dei re della preghiera, dei re della poesia, i cui rituali sono un intrattenimento umano e gradevole, ma assolutamente irritante perché non hanno alcuna realtà – mentre la realtà in sé continua a essere molto preziosa. Il desiderio è di intravedere degli squarci di reale. Dio è un’immensità, mentre questa malattia, questa morte che è in me, questo piccolo evento pedestre circoscritto entro confini tanto precisi, è semplicemente reale, privo di miracoli – o di istruzioni”.
E pur essendo il suo libro meno letterario, ovviamente, Questo buio feroce è un libro sulla letteratura, sulla fede profonda che la letteratura ha di dare senso alle cose. Narrare apre rivelarsi, per Brodkey, l’atto che una volontà debilitata dalla malattia può compiere per strappare all’inconsistenza approssimata, schiumosa della malattia e della morte, il valore di una scommessa. E quando nell’ultima pagina suggella: “Non posso cambiare il passato, e non credo che lo farei. Non mi aspetto di essere capito. Mi piace quello che ho scritto, i racconti e i due romanzi. Se dovessi rinunciare a quello che ho scritto per guarire da questa malattia, non lo farei”, si resta – io almeno resto – di stucco. Quel che mi sta dicendo Brodkey cos’è? Una dichiarazione di estrema presunzione, l’idea di poter scrivere ogni capitolo di sé, anche quello che non ci è concesso dalla nostra mortale natura? O una confessione di consapevole ed estrema resa alla fraglità della nostra esistenza: cosa possiamo fare se non accettare la storia che siamo stati?
C’è un passaggio alla fine del libro di Brodkey che dice: “Le storie vere, le storie autobiografiche, come pure alcuni romanzi, iniziano molto prima, prima dei fatti descritti, prima della nascita di alcuni personaggi del racconto”. In un certo senso è un’ammissione dei limiti e dei desideri che si percepiscono leggendo Questo buio feroce. Se forse una buona metà della letteratura cerca di ritrovare il tempo perduto della nostra infanzia, l’altra metà va in cerca di un tempo ancora più remoto, quello in cui non c’eravamo o non ci saremo – la storia del mondo senza di noi.
In questo senso il libro di Annie Ernaux è un capolavoro. Sia data lode alla casa editrice L’Orma per aver finalmente dato il giusto credito editoriale a questa scrittrice così rara: tra il 1982 e il 1983 scrisse questo piccolo memoir, Il posto, che è il racconto adamantino della vita del padre dell’autrice (e di lei e della sua famiglia) a partire dalla sua morte. Se nel caso di Questo buio feroce mi veniva da ricopiare almeno metà del libro, in questo caso la tentazione è quella di riscriverlo per intero, talmente è stato prosciugato da ogni parola in eccesso, persino – si potrebbe dire – da ogni singolo segno di punteggiatura in avanzo, da ogni spazio bianco.
Pag. 11-12: “Mia madre è comparsa in cima alle scale. Si tamponava gli occhi con un tovagliolo che probabilmente aveva portato con sé quando era salita in camera dopo pranzo. Con voce neutra ha detto «È finita». I minuti seguenti non li ricordo. Rivedo soltanto lo sguardo di mio padre mentre fissa qualcosa dietro di me, lontano, le labbra contratte a lasciare scoperte le gengive. Credo di aver chiesto a mia madre di chiudergli gli occhi. Attorno al letto c’erano anche mia zia materna e suo marito. Si sono offerti di aiutare per rassettarlo e rasarlo, bisognava sbrigarsi prima che il corpo si irrigidisse. Mia madre ha pensato che avremmo potuto vestirlo con l’abito che aveva inaugurato tre anni prima per il mio matrimonio. L’intera scena si è svolta con grande semplicità, senza pianti né singhiozzi, mia madre aveva soltanto gli occhi rossi e una sorta di perpetua smorfia sul volto. I gesti erano compiuti con calma, senza disordine, accompagnati da parole qualsiasi. Mio zio e mia madre ripetevano «ha fatto davvero in fretta» oppure «com’è cambiato». Mia madre si rivolgeva a mio padre come se fosse ancora vivo, o comunque abitato da una forma peculiare di vita, simile a quella dei neonati. Più volte l’ha chiamato con affetto «povero paparino»”.
La tentazione di riscriverlo tutto ha, credo, una ragione di tipo terapeutico, come dire. Il posto ha una capacità di lenire un dolore che non è semplicisticamente quello per i ricordi luttuosi che ognuno si tiene con sé, la zavorra più pesante e preziosa. La lingua e la costruzione di questo memoir sembrano ricalcare le pagine dello Straniero di Camus, a partire dal suo famosissimo incipit.
“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: ‘Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.’ Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: ‘Non è colpa mia.’ Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo.”
Dove per Mersault nello Straniero o per i personaggi che sono figli e nipoti (si pensi a quelli di Houelleubecq e all’incipit del suo Piattaforma: “Mio padre è morto un anno fa. Io non credo alla teoria secondo cui si diventa veramente adulti solo alla morte di genitori; veramente adulti non lo si diventa mai.”) guardare alla vita e alla morte diventa un esercizio di pura visione fenomenica che ci può condurre, nel migliore dei casi, a renderci consapevoli di una sorta di ironico determinismo al quale dobbiamo arrenderci; Ernaux rovescia questo punto di vista, valendosi però degli stessi strumenti. L’uso di coordinate secche, tempi verbali tutti all’indicativo, prime persone che non rendono conto di null’altro che quello che vedono. Nessun sentimento, nessun ragionamento, nessuna conclusione: pura osservazione. Eppure le relazioni invece di perdere senso, invece di essere risucchiate nel maelstrom delle leggi atomiche per dirsi quantomeno organiche e vive, acquistano incredibilmente una tenerezza inimmaginabile, attraverso frasi di una riga appena.
A pagina 86-87, Ernaux parla di quando invitava nel paese dei suoi – i suoi genitori figli di famiglie povere che erano riusciti a gestire un piccolo negozio di alimentari – le sue compagne dell’università. Borghesi in un ambiente popolare.
“Decidere cosa preparare da mangiare era una fonte di preoccupazione, «alla signorina Geneviève piacciono i pomodori?». Si faceva in quattro. Quando ero ospite presso la famiglia di una di queste amiche, ero ammessa a condividere in maniera naturale uno stile di vita che non era modificato dal mio arrivo, a entrare nel loro mondo, che non temeva lo sguardo di un estraneo, e che mi veniva aperto davanti perché avevo dimenticato i modi di fare, le idee e i gusti per il mio. Attribuendo uno statuto festivo a quello che, in altri ambienti, non era altro che una banale visita come le altre, mio padre intendeva onorare le mie amiche e fare la figura di uno che sapeva vivere. Rivelava soprattutto un’inferiorità che le mie compagne riconoscevano loro malgrado, ad esempio quando lo sentivano dire «buongiorno, come la sta?»
Un giorno, con sguardo fiero: «Non ti ho mai fatto vergognare».”
Mi sono riletto questa pagina più volte. Questa riga finale è pura perfezione letteraria. Credo che nella semplice giustapposizione di questi tre eventi (i due inviti speculari, la frase del padre) ci sia la matrice di milioni di rapporti tra genitori e figli. E Ernaux mette insieme, senza quasi nemmeno il bisogno di una subordinata, questa tensione eterna. La sua rarefazione ha, per chi scrive, qualcosa di miracoloso. Il suo uso del correlativo oggettivo è da applausi a ogni pagina. Le sue apposizioni sono ognuna una perla. Ernaux scrive una virgola, poi mette delle virgolette e infila una citazione: non serve il contesto, né il soggetto, non serve nemmeno il verbo. La quantità di sottinteso di cui Il posto (107 pagine in una gabbia molto piccola) si fa carico è tale che è difficile non ammettere, quando si è finito di leggerlo, di essere stati parte della famiglia Ernaux. Quando a pagina 104 ritorniamo al momento della morte del padre e la scena ci viene descritta con altre parole, simili a quelle dell’inizio di pagina 11-12, ci sentiamo davvero di appartenere a qualcosa di così prezioso: la letteratura rende possibile l’entrare a far parte così profondamente della vita di qualcun altro.
“A mezzogiorno e mezzo ho messo il bambino a dormire. Non aveva sonno e saltava sul letto con tutta l’energia che aveva in corpo. Mio padre respirava a fatica, i grandi occhi spalancati. Mia madre ha chiuso bar e drogheria verso l’una come tutte le domeniche. È risalita in camera da lui. Mentre lavavo i piatti sono arrivati i miei zii. Dopo aver fatto visita a mio padre si sono sistemati in cucina. Ho servito del caffè. Ho sentito mia madre camminare lentamente al piano di sopra, cominciare a scendere. Ho creduto, nonostante quei passi lenti, inusuali, che stesse venendo a prendere il caffè. Era ancora sulla curva delle scale, ha detto piano: «È finita».”
Un intero libro è servito ad aggiungere prima di «È finita», questo semplice inciso: “Ho creduto, nonostante quei passi lenti, inusuali, che stesse venendo a prendere il caffè.”
Cosa si potrebbe dire di più intenso?
Il posto è anche questo un libro sulla scrittura, pur non essendolo esplicitamente, anche se racconta l’emancipazione culturale di Annie (da figlia di proletaria, a insegnante di ruolo: il posto sta anche a indicare la posizione professionale raggiunta). Ma lo è soprattutto perché mostra la forza espressiva del pudore. Dal punto di vista tecnico Il posto è uno dei libri con il miglior uso della punteggiatura che abbia mai letto. Questo non vuol dire una maestria a sé, questo significa esser riusciti a trovare il modo di utilizzare le pause, gli stacchi, i vuoti, per rendere i tempi emotivi della narrazione, senza mai dare l’impressione di deciderne uno: come se si stesse meramente scansionando il flusso degli eventi, del mondo e delle anime.
È talmente un libro perfetto Il posto che parlo a fatica di un altro libro che pensavo fosse anche questo commovente. Per certi versi Il tempo della vita di Marcos Giralt Torrente sembra un libro gemello a quello di Ernaux, ma di fatto, lo si capisce fin dai titoli (secco l’uno, enfatico l’altro), è un libro contrapposto. E se pure ci sono pagine e invenzioni che fanno riconoscere la qualità della scrittura di Torrente, di fatto non si comprendono gli elogi sperticati e i premi che ha ricevuto, compreso il Premio Strega europeo.
Il tempo della vita è un libro impudico, pieno di dettagli ostentati. Finanche verboso, e ricattatorio.
Dopo la morte del padre, Torrente decide di scriverne. Non è quasi una scelta: non riesce a scrivere nient’altro, dice. E le prime pagine, quelle in cui racconta le difficoltà letterarie e personali di fronte alle quali si trova, tra il dolore e l’incomprensione, sono forse le più belle del libro.
“Tutti hanno un padre e tutti i padri muoiono. Tutte le storie di padri e figli sono inconcluse, tutte si somigliano”.
In realtà Il tempo della vita smentisce proprio questo assunto. Molte storie non si somigliano. Non che non ci sia un principio di verità in quello che dice Torrente: raccontare del proprio padre è un gesto di tracotanza e di umiltà. Vuol dire prendere la parola su – o meglio, contro – chi ce l’ha avuta su di noi, prima di noi; ma significa anche fare i conti fino in fondo con la propria storia, aderire a ciò che qualcun altro ha scritto per noi.
Se questo processo di arroganza e resa in Ernaux e persino nel narciso Brodkey è evidente, in Torrente è tutto ancora in divenire, confuso, spesso sgangherato. Il materiale che la sua memoria ha raccolto è offerto al lettore spesso senza un filtro o con troppi filtri. I modelli a cui all’inizio confessa di essersi ispirato, da Joan Didion a Rick Moody, gli fanno da ostacolo più che da aiuto. Molte delle pagine del Tempo della vita sono appunti di un diario, citazioni di episodi della vita della famiglia Torrente che forse non volevamo sapere. Se leggendo Il posto o Questo buio feroce, mi sono sentito accolto nell’intimità delle famiglie Ernaux o Brodkey, proprio perché il mio posto era restare sulla soglia, nel caso di Torrente ho provato la sensazione contraria. Come quella di chi vi invita a casa sua e finge che non siete un ospite. Fai come fossi a casa tua, se preso alla lettera, è un invito disgustoso.
Torrente è ansiogeno nel raccontare anno per anno tutta l’evoluzione dei rapporti tra lui e il padre, lo fa attraverso lunghi elenchi di episodi, anno per anno, mese per mese, citazioni dai diari che il padre scriveva. Ma dire tutto di qualcuno non ce l’avvicina. È lo stesso motivo per cui non ci innamoriamo di qualcuno che magari corrisponde perfettamente alle caratteristiche che vorremmo possedesse il nostro amante dei sogni.
Pag. 68: “Aveva la tendenza a ingrassare. Gli piaceva mangiare e bere e, da vanitoso qual era, era sempre scontento del suo peso. Era un cuoco abile, ma gli piaceva anche la cucina più ordinaria, con la quale calmava l’ansia che lo divorava”.
Già queste righe sarebbero quasi troppe per me, anche se ci sono notazioni suggestive. Ma Torrente prosegue:
“Aveva un debole per i fritti e per tutto ciò che conteneva besciamella; preferiva la carne al pesce ma amava molto il baccalà e le alici e anche le melanzane; gli piacevano gli insaccati, i maccheroni, i pudding, le polpette, gli piaceva il cappuccio, la barbabietola, il tonno, il fegato con la cipolla; non gli piacevano le altre frattaglie e non era troppo appassionato di insalate, e quasi per niente di frutti di mare e molluschi, per niente di pesce crudo. Gli piaceva la cucina cinese, quella indiana e la messicana, gli hamburger e le salsicce. Gli piacevano il vino e la birra.
Quasi tutte le sere beveva qualche bicchierino ma non aveva, almeno che io sappia, un liquore preferito. Li sceglieva in base alle scorte e alle fluttuazioni dei suoi gusti. Rum, whisky, gin, bourbon…”
Ci sono varie frasi che ho sottolineato nel libro perché mi piacevano, ma accanto a questa pagina ho scritto Che palle!. Quando Torrente nell’ultima frase scrive che suo padre non aveva un liquore preferito “almeno che io sappia”, mi veniva da dire Per fortuna! Per fortuna che c’è qualcosa che sfugge alla tua penna indagatrice, iperdescrittiva. Dopo un po’, mentre leggevo il libro, non mi sono più immedesimato nel figlio scrittore che cerca di ricordare e ricostruire la storia del padre e della loro relazione, ma con un padre che da morto non può rispondere all’invasione egotica del figlio intento a svelare, spesso senza dargli un valore, qualunque aspetto della biografia paterna. Visto che Torrente aveva bisogno di dire tutto, avrei voluto che ne sapesse meno.
Saperne meno, non vedere tutto. Credo sia l’unico modo per entrare in relazione con qualcuno.
Quando l’altro giorno ho letto la notizia della decapitazione di James Foley, ho avuto tutto il giorno la tentazione automatica di cliccare il video. Non sono un bambino, mi dicevo, è il dovere d’informazione.
Non l’ho fatto, e in fondo sono contento. Proprio ieri mi è venuto a trovare a casa per fare due chiacchiere un mio amico che fa il giornalista. Aveva le occhiaie, non aveva dormito bene, e uno dei motivi era la morte di Foley. L’aveva conosciuto due anni fa, a Bengasi, dove questo mio amico era andato anche lui come reporter di guerra. Ci aveva fatto colazione insieme un po’ di mattine. Allora Foley era già stato rapito e rilasciato una prima volta. Com’era?, gli ho chiesto, ed era una domanda stupida. Il mio amico mi ha risposto in modo elusivo: non poteva dire di conoscerlo, ci aveva scambiato poche parole. Io e il mio amico abbiamo parlato d’altro.
Ma poi ripensandoci mi è venuto in mente questo: la nostra fame di conoscere tutto, il nostro desiderio di vedere come l’altro sia così simile a noi, genera esattamente l’effetto opposto: in fondo non saprò mai qual è stata la vita e quali i pensieri di James Foley, come non saprò cosa ha veramente provato Brodkey mentre moriva, o il padre di Annie Ernaux quando ha aperto il negozio, o il quello di Marcos Giralt Torrent quando si è separato dalla moglie. Ma alle volte mi basta vedere l’ansia e la commozione di chi gli stava vicino anche solo per qualche momento per sentirlo vicino, un essere umano non troppo diverso da me.