La retorica sulla guerra a Gaza
Il conflitto israelo-palestinese continua. O meglio il conflitto tra l’esercito israeliano e le milizie di Hamas. O meglio il bombardamento di Gaza. O meglio l’operazione Protective Edge e il tentativo di fermarlo, o di reagire quantomeno. (Si può reagire a una difesa?) O meglio la resistenza palestinese all’ennesima prevaricazione colonialista di Israele. Molto di quello che si scrive in questi giorni su quello che accade lì (in Israele, in Palestina, nella Striscia di Gaza? non è semplice nemmeno definire i confini geografici di questo conflitto) è – nel migliore dei casi – un processo di continua ricontestualizzazione: storica, geopolitica, terminologica. Del resto appena si pronuncia la prima frase di un abbozzo di analisi, si sente arrivare subito il fiato del commentatore pronto a inveire, a dare dello stronzo, a replicare nella cruenta piccola virtualità un fantasma del conflitto reale. Difendi Hamas? Ma come fai? Difendi Nethanyahu? Ma come fai? Non ti schieri? Ma come fai? Inviti al silenzio? Vigliacco. Mostri le foto dei bambini morti? Ricattatorio. Non le mostri? Pavido. L’hai letto l’articolo degli ebrei che guardano i bombardamenti come se fosse uno show televisivo? L’hai letto il pezzo su Hamas che utilizza i bambini come scudi umani?
Dopo qualche giorno anche gli articoli di giornali si sono polarizzati. Da una parte c’è chi continua a raccontare le storie presuntamente strappalacrime (vedi la vicenda giornalistica pessima ma istruttiva di Umberto De Giovannangeli, che ricicla un pezzo di sette anni fa e poi si giustifica adducendo come scusa il simbolismo della ripetitività), dall’altra c’è chi prova a spiegare in modo più chiaro e articolato possibile gli elementi in gioco. Su Rivista Studio, per esempio, e sul Post, Anna Momigliano e Giovanni Fontana si sono giustamente sentiti in dovere di esimersi dagli editoriali engagé e di riannodare i fili punto per punto, volando almeno un po’ più alto del commento de core all’emergenza quotidiana.
Ma quello che è evidente a chi in questi giorni legga, s’informi, attraverso le voci meno confuse della stampa italiana e internazionale, è che lo stallo non è solo quello di una situazione compromessa da decenni di stupidità politica – quella che ha prodotto (diciamolo per essere chiari e provare a evitarci qualche insulto) da una parte la leadership di un’organizzazione come Hamas che non riconosce Israele, dall’altra la leadership di Netanyahu che di fatto perpetua uno stato di occupazione militare di un territorio come la Striscia di Gaza.
L’impasse è anche quello di due retoriche incastrate alla perfezione in un double bind speculare.
Hamas dichiara che vuole ammazzare tutti, militari e civili, ma i razzi che lancia vengono intercettati dallo scudo Iron Dome e non fanno vittime. Netanyahu dichiara che non vuole uccidere civili, ma ne uccide una trentina al giorno.
Così l’asimmetria dei 200 e passa e morti dalla parte palestinese e una donna morta di crepacuore per lo scoppio di un missile spinge molti giornalisti o presunti tali a cretini dilemmi, del tipo: vorresti che ci fossero più morti dalla parte israeliana, ti sembrerebbe una guerra più equilibrata?
D’altronde poi nessuna delle due parti ammette che questa è una guerra: da una parte è resistenza, dall’altra protezione preventiva. Hanno ragione entrambe le parti (e quindi ovviamente una ragione inutile e idiota), perché si nutrono della retorica del nemico oltre che della propria.
Facciamo un’ipotesi. Cosa accadrebbe se i bombardamenti su Gaza veramente non uccidessero civili? La destra sionista perderebbe consensi – come, la forza militare d’Israele non è così efficace?
Oppure. Cosa accadrebbe se veramente i razzi palestinesi uccidessero civili? La simpatia internazionale per le ragioni dei palestinesi entrerebbe seriamente in crisi.
I ragazzi ammazzati, bruciati vivi, servono a entrambe le parti. Hamas e Netanyahu vivono per la propria sopravvivenza, che gli è garantita dalla demente, prevedibile, ferocia dell’altra parte in gioco. Cosa c’è di più atrocemente ridicolo di un esercito che manda ogni tanto degli sms per avvertire la popolazione prima di bombardare? Cosa di più atrocemente idiota di chi risponde a questi avvertimenti usando degli scudi umani?
Molti degli analisti internazionali in questi giorni scrivono che l’obiettivo di questa escalation non è null’altro che l’escalation. Che per Netanyahu questa prova di forza è una specie di lavacro nel sangue vitale per un rito di oppressione che ha da sette anni come liturgia quotidiana un embargo per una popolazione stremata. Che per Hamas, dall’altra parte, questo serve a dimostrare una capacità di guidare un popolo palestinese privo di leader credibili, radicalizzando i contrasti.
Ma vorrei aggiungere una piccola notazione.
In questa discussione poi c’è sempre più spesso un grande assente. Noi. Ecco, sembra che il conflitto riguardi una storia della quale siamo da anni al massimo empatici spettatori. Eppure, se forse c’è qualcosa di chiaro in quest’edizione 2014 della guerra tra israeliani e palestinesi è che le cose stanno cambiando e molto sul piano internazionale. Le primavere arabe sono fallite in tutto il Maghreb tranne (forse) in Tunisia, la Siria è una terra devastata, l’Isis sta diventando una realtà in espansione. L’idea di un ceto medio arabo, della crescita di un’opinione pubblica sul modello di quella europea, sembra ogni giorno di più un mito fragile. Dal punto di vista storico, sembra di essere regrediti alla fine degli anni ’70, con una differenza però di non poco conto. Il pacifismo e l’internazionalismo non esistono più. Non esiste una cultura pacifista né una cultura internazionalista, se non in sacche di residuale volontariato. Non esistono per una ragione ben precisa: da anni abbiamo smesso di pensare a cosa accadeva al di là dei nostri piccoli orti. Sono state dismesse le redazioni all’estero, la geografia è stata ridotta nell’insegnamento a scuola, i giornali hanno deciso che era interessante solo quello che accadeva ad Arcore o a Garlasco. Fino a dieci anni fa, mi ricordo che quando d’estate andavo alla Festa dell’Unità o di Liberazione, ero assediato da militanti che mi chiedevano interesse per qualche conflitto rimosso dai media; oggi mi vendono saponette bio.
Qualche giorno fa una mia amica storica – storica nel senso che fa la storica di professione -, Vanessa Roghi, mi raccontava la puntata che aveva preparato per un programma Rai Tre su Giorgio La Pira. Molte delle cose che mi diceva sul sindaco-profeta, cattolico e di sinistra, non le conoscevo, ma non mi meravigliavano. Una cosa invece mi sembrò sorprendente: il suo impegno per la pace tra Israele e Palestina. I viaggi che fece, dopo la Guerra dei Sei Giorni, tra gli ebrei a Hebron e tra i palestinesi nella Gerusalemme Est occupata. Che idea incredibile, quasi eroica, ingenua, fanciullesca, della politica, mi dicevo, eppure. Oggi mi chiedevo quale sindaco si spingerebbe in un viaggio sotto le bombe? Quale sindaco penserebbe che quella storia non è solo una notizia da prima pagina, ma qualcosa che lo riguarda di persona?