I giornali chiudono
I giornali chiudono. Alle volte in modo velocissimo. Pubblico di Luca Telese per esempio ci ha messo poco più di tre mesi. Ha dilapidato 650.000 euro e lasciato un sacco di giornalisti a spasso – casse integrazioni ballerine – e almeno un centinaio di collaboratori non pagati. Anche Pagina 99 ha chiuso il quotidiano dopo un paio di mesi per reinventarsi come settimanale. Ha chiuso Terra: giornale ecologista, dal 2009 al 2011 era in edicola tutti i giorni, 16 pagine 1 euro, poi è diventato mensile, poi non è più uscito – i giornalisti, che avevano fatto istanza di fallimento, sono ancora in causa con l’azienda per il saldo degli arretrati e sono finiti tutti in cassa integrazione (il sito è completamente bianco con delle scrittine html un po’ malinconiche). Liberazione ha salutato i suoi lettori il 19 marzo scorso dopo aver provato a restringersi, rinnovarsi, uscire solo on line (sul sito, cristallizzato da quattro mesi, campeggiano un comunicato di Paolo Ferrero, una pubblicità dell’università telematica eCampus e un video sull’eredità di Chàvez nel nuovo Venezuela). Il riformista ha chiuso definitivamente due anni fa; qualcuno che ci lavorò ancora spera nei soldi di un’onda lunghissima del liquidatore. Hanno chiuso la maggior parte delle edizioni locali dei quotiani nazionali. E le riviste, come XL. E i grandi e piccoli quotidiani dimagriscono, prepensionano, ondeggiano sull’orlo del precipizio, non assumono, licenziano, sopravvivono con la cassa integrazione a rotazione, abbassano i compensi a un livello talmente infimo che scarseggia persino l’ossigeno… Dal Foglio al manifesto, dal neonato Garantista alle corazzate Repubblica e Corriere.
Certo, si potrebbe osservare, ancora con la carta nel 2014… Ma anche i giornali on-line sembra rischino di chiudere. Il sito del Paese sera – “la voce di Roma”, solo digitale da anni ormai – è ancora funzionante, ma seconda notizia in home page, dopo quella del traffico della Capitale lento e costoso, è questa: “La proprietà ha annunciato informalmente che tra qualche giorno porrà in essere la liquidazione della società. I contratti rinnovati dai giornalisti nel mese di marzo diventeranno carta straccia. Il gruppo Parsitalia Media ha fatto un passo indietro, nonostante avesse già fatto investimenti in funzione dell’ingresso nella società”. Italia Oggi (a proposito, da loro come va?) ogni tanto declama delle sorte di bollettini medici sull’informazione nativa della rete. L’ultimo era preoccupante per Linkiesta e per l’Huffington Post, un milione di euro di perdite annuali per uno; gli investitori verrano in soccorso? Gli altri vanno un po’ meglio; ma chi ce la farà nel darwinismo digitale: giornali più classici come Il Post e Lettera 43 o le macchine sforna-articoli tipo Giornalettismo o Fanpage? E infine in questi giorni d’estate – i peggiori per essere sensibili agli interessi dei lavoratori, me ne rendo conto – l’allarme suona per l’Unità. La casa editrice, la NIE di Matteo Fago, è in liquidazione; il PD non sa bene che fare. Renzi l’ultima volta che ne ha parlato ha buttato lì l’ipotesi di una spending review casareccia: due giornali per un partito sono troppi. Intendeva l’Unità ed Europa, che vive quasi solamente online ormai. E potrei continuare.
A spulciare la rete, emerge una fungaia di comunicati sindacali agguerriti, di appelli dei giornalisti all’editore affinché con un orgoglio imprevisto salvi la baracca, agli investitori che samaritanamente ci ripensino, ai lettori che solidarizzino. L’impressione è quella di osservare una montagna che crolla, al rallentatore. Una parabola impietosa, ma forse normale, quasi fatale uno direbbe: nell’era dell’informazione su internet, tutto cambia, tutto ciò che è solido evapora nell’aria. C’è un elemento di questo declino dei giornali che però appare meno prevedibile del resto. C’è una nota che stona nelle pagine dei commiati, delle lettere di solidarietà. I commenti. I commenti dei lettori sono un coro decisamente uniforme, e – almeno per me – spiazzante. Dicono: “Chi è causa del suo male pianga se stesso. Se è diventata come i giornali di B. questa è la fine che merita”, “Si trovino un lavoro con le loro competenze (se le hanno…), e se avranno successo sarà per meritocrazia e non grazie ai finanziamenti pubblici. La pacchia è finita!”, “Finalmente. Chiudessero ste merde”, “Se non hanno lettori perchè dovremmo pagare tutti noi i loro stipendi? Io non leggo quel giornale e quindi non voglio finanziarlo!”, “Godo. Giornale divoratore di soldi pubblici. Si cercheranno un lavoro vero. Come me, che lavoro senza che lo Stato mi sovvenzioni”. “Questi giornaletti senza aiuti di stato non vanno da nessuna parte. Speriamo ne chiudano altri, di quelli che prendono i nostri soldi”.
Su Facebook, su Twitter, ovunque, il tenore è simile. Chi si mette dalla parte dei lavoratori, viene sbeffeggiato. Chi ricorda la storia della testata o si appella al valore del pluralismo, considerato uno zombie. Chi difende il finanziamento pubblico, direttamente un ladro. Anche tra colleghi, tra giornalisti, la solidarietà è solo di facciata, si sente piuttosto un’aria da mors tua, viticina mea. È arrivato il repulisti. Soffiano gli spiriti animali.
Che senso ha tutto questo? Sono così brutti, vecchi, sorpassati, malgestiti questi giornali che chiudono, quelli sprofondati nella crisi nera, quelli che provano a respirare con più forza mentre noi vediamo la corda che si stringe rapidamente intorno al loro collo? Sono così mal pensati anche i giornali nuovi? Sono vittime di business model toppati in pieno quelli che accumulano debiti incompensabili? A quale segno dei tempi stiamo assistendo? Cosa vuol dire: che la coscienza di classe è un residuato novecentesco canceroso da ripulire tipo l’eternit? Che una civiltà giornalistica di tutelati (professionisti, articolo 1…) sta finendo, distrutta dalle orde di freelance, forse preparati, sicuramente sottopagati, sconfitta – leggi: schiantata – dagli eserciti di opliti produci-click? Perché non si manifesta nessuna solidarietà tra lavoratori? Perché effettivamente ci si sente in due trincee opposte: i vecchi e i giovani? Perché c’è un retrogusto dolce a veder affondare quel giornale in cui un caporedattore l’altroieri mi ha rifiutato un pezzo, non rispondeva mai alle mail e adesso è disoccupato come me? O è una banalissima Schadenfreude? Gioiamo delle disgrazie altrui, proviamo un piacere misto al sublime nel contemplare il disastro, declini che somigliano a affondamenti: finalmente se ne vanno a casa, quelli scarsi, gli stipendiati coi soldi pubblici, i parassiti, chiedessero i soldi agli strozzini per pagarsi i mutui?
Ma seppure questa è la risposta di default, l’istinto, la reazione belluina, la dichiarazione à la Grillo – grande pedagogo dell’odia il prossimo tuo – c’è un altro interrogativo più pungente che ci si rivela appena le bollicine sulla superficie si sono dileguate e la pietra legata alla corda si è ormai inabissata: noi, siamo sicuri di essere quelli bravi noi? Quelli che – nella crisi di sistema – si salverebbero, perché hanno affinato le competenze: le lingue fluenti, la dimestichezza con wordpress e con le infografiche, la velocità, la disponibilità perenne, la versatilità? E ancora, più a fondo, una domanda che scova un’altra domanda, come se avessimo scoperto una vena scavando in un terreno che non pensavamo così friabile: Noi, che cosa proviamo? Quale sentimento, dico? Visto che non abbiamo avuto mai nessuna certezza, possiamo sempre sentirci al riparo nella stiva, come gli schiavi nelle rotte dall’Africa all’America nel 1700? Conosciamo bene il futuro che ci aspetta; allora forse è preferibile soccombere nella prossima burrasca?