I problemi di Ignazio Marino a Roma
Sarà solo questione di percezione da cronache locali ma in questi giorni mi pare che Ignazio Marino si sia risvegliato dopo un prolungato letargo di vari mesi in cui è riuscito nell’impresa non facile di inimicarsi qualunque suo sostenitore della prima, della seconda, e dell’ultim’ora. Non so quanti articoli ho letto contro di lui sui quotidiani nazionali e romani, non so se lui stesso si sia reso conto del risentimento diffuso per la sua inerzia (“Manco sotto Carraro ho visto ‘na roba del genere”), non so se ha idea di quanti morti si becca ogni sera verso le sei dai pendolari sulla Ostiense-Viterbo o sulla Fara Sabina-Fiumicino “lui e quella sua cazzo di bicicletta”, non so quante persone anche a lui vicine mi hanno detto: ‘Non lo sopporta nessuno, fa tutto da solo, si crede stocazzo’, non so se lui sappia che tutti nel suo partito lo chiamano con sprezzo l’Allegro Chirurgo, non so quanto siano martellanti per le sue orecchie le voci che vorrebbero elezioni anticipate e una candidatura di Marianna Madia al suo posto addirittura il prossimo inverno… Di fatto, leggendo distrattamente i giornali, l’ho rivisto comparire in giro questi giorni, più tonico del solito, più assertivo – forse qualche ufficio stampa ha cercato di rivedere un po’ la strategia comunicativa che l’ha portato a essere in un anno di Campidoglio più odiato di Alemanno, e vi giuro non era facile.
Fatto sta che, per esempio, la riapertura dopo cinque mesi della Tangenziale , con una serie di dichiarazioni da amministratore lungimirante (“Avremmo potuto solo togliere la terra con la ‘pala’, come qualcuno suggeriva ironicamente con scritte sui new jersey e invece siamo andati in fondo per risolvere il problema sulla collina mettendo in sicurezza la vita di dozzine di famiglie che abitano in palazzine che erano a rischio”.) gli ha risparmiato le ulteriori bestemmie dei circa 50000 automobilisti che per più di 160 giorni si sono sobbarcati un’ora e mezza di traffico in più per andare e tornare dal lavoro. Tra quelli c’ero anche io e mi chiedo adesso che la questione è miracolosamente risolta se per caso non ci sia stato un sesquipedale deficit di comunicazione: le spiegazioni sul senso del riassetto stradale sarebbero state provvide anche prima della conclusione dei lavori?
Altro esempio: ieri Marino si è fatto vedere anche al Ninfeo di Valle Giulia, e ha rivendicato il ruolo attivo che il Comune ha scelto di tenere di nuovo per il Premio Strega – cinquantamila euro di stanziamenti: “È importante che Roma continui questa tradizione della sponsorizzazione, non possiamo sottrarci. È un premio importante, è molto significativo che da tanti anni si tenga nella nostra città e al quale hanno partecipato scrittori importantissimi come Umberto Eco”.
Insomma credo che Marino abbia realizzato che la sua immagine pubblica, soprattutto tra i giornalisti politici e gli operatori culturali a Roma (ossia quelli che questa immagine la modellano), si sia nutrita di un fortissimo discredito e che stia provando come può a rimediare.
Purtroppo per lui la questione non è solo di immagine. Perché il busillis che si trova a maneggiare in questi giorni è una patata incandescente: la questione dell’assessore alla Cultura.
Come saprete, Flavia Barca – in giunta per circa un anno, discussa e criticata assai soprattutto per la sua abulia – si è dimessa il ventisei maggio scorso, e da allora la sede di Piazza Campitelli è vacante. Ma quest’assenza non è solo letterale, assume piuttosto significati evidentemente simbolici, e produce un’esasperazione trasversale in chiunque si occupi anche solo marginalmente di cultura a Roma. L’espressione di questa rabbia virata all’incredulità si può esprimere a) in toni goliardici con l’occupazione per un giorno dell’assessorato da parte degli attivisti del Valle – vestiti con maschere, occhialini da mare e occhiali da sole, cappelli, in mano, pinne, fucili, ombrelloni, secchielli e palette, in conferenza stampoa hanno fatto loro il minimo sindacale dell’incazzatura: “Dal Palladium all’Eliseo a un’Estate Romana sbrindellata, la situazione è ormai insostenibile. Per quanto ci riguarda invece, da tempo il sindaco sostiene che la soluzione è vicina, ma sono passati mesi e non siamo riusciti a parlarne”. Oppure si può esprimere b) con editorialesse al veleno dal tono blasè come quella di Francesco Merlo: Il grande crac culturale titolava Repubblica in prima un lunghissimo articolo che non risparmiava nulla a Marino, con tiro fittissimo di strali (e anche qualche freccia spuntata – la topica sul Romaeuropafestival che chiude); dall’editoria ai teatri, dall’opera all’archeologia, tutto – secondo Merlo – sembra gestito male, se non malissimo a Roma.
In sovrappiù, alla mancanza dichiaratamente strutturale di fondi, alla chiusura di luoghi storici (vedi ieri il pezzo su quella, probabile, dell’Eliseo), alla diciamo nonsimpatia di Marino, alla sua idea di mecenatismo quantomeno discutibile (vendere agli sceicchi del Qatar il “brand Roma”?), alla vacanza dell’assessorato, è arrivata anche la polemica sugli esiti del bando dell’Estate Romana – Graziano Graziani l’ha ricostruita in questo pezzo, L’estate del nostro scontento, in cui al di là della contingenza delle accuse incrociate, sottolinea una questione di fondo rispetto alla questione delle politiche culturali, quella di una condivisione sulla valutazione: “Ciò che è un valore incontrovertibile per un settore della città è frutto di amicizie politiche per un’altra. Ciò che per qualcuno è una manifestazione storica, per altri è il segno di una città inamovibile che non è in grado di rinnovarsi”. Cosa significa? Che per molti anni l’organizzazione culturale a Roma è funzionata a isole, se non a feudi, automatismi spesso divenute cancrene, con un’ignoranza reciproca rivendicata e nessuna visione di sistema.
Rispetto a questo tipo di critiche come ha reagito Marino? È molto interessante leggersi per intero l’intervista che gli ha fatto Concetto Vecchio per Repubblica. Eccola.
Sindaco Marino, “Repubblica” denuncia il degrado della cultura a Roma, il senatore Zanda la invita a un colpo di reni, e il capogruppo del Pd in Comune dice che bisogna cambiare passo. Lei pensa di essere ancora in sintonia con il suo partito e con la città?
Sì, assolutamente. Guardi che i romani sono contenti che ci sia un sindaco che vada in giro in bici. Ogni volta incontro un cittadino che mi pianta le mani sul manubrio e non mi lascia andare finché non mi ha raccontato la dimensione della buca davanti a casa sua. Preferivano forse un sindaco in autoblu?.
Veramente le rimproverano di non avere una visione sul futuro della città.
Forse si dimentica la crisi nella quale ci dibattiamo. I consumi culturali diminuiscono dappertutto, le vendite dei libri sono in calo, la gente risparmia anche sulle cure odontoiatriche. La riprova è che nella notte dei musei, quando si entrava a un euro, abbiamo registrato 250mila presenze: con la mia bicicletta sono andato a controllare la fila alla mostra di Frida Kahlo, beh arrivava a piazza Venezia.
Insomma, è solo colpa della crisi?
No, non dico questo. Credo, ad esempio, che i privati devono dare di più. Così il sistema non regge. La filantropia è stata troppo trascurata. I donatori del Teatro dell’Opera hanno versato appena 3 milioni di euro su un bilancio di 58. È troppo poco. Però mi reputo soddisfatto: il Teatro l’ho ereditato con un disavanzo di 10,4 milioni euro e quest’anno avremo un attivo di 200mila.
Sì, ma la sua giunta non ha nemmeno un assessore alla Cultura. Com’è possibile?
Solo da un mese. Ho lavorato bene con Flavia Barca, ma ora serve una figura di eccellenza, che abbia chiara la dimensione della sfida. Fare l’assessore alla Cultura a Roma è come fare il ministro in un medio paese europeo.
Sarà il professore Andrea Carandini?
È una persona straordinaria, ma ho una rosa di candidati, e prima di scegliere voglio compiere un’operazione di ascolto.
E quanto ci vuole?
Il tempo che ci vuole.
Le rimproverano anche il mancato governo. Perché non fa le nomine?
A quali si riferisce?
Assessore a parte, sono senza vertice il Macro, le biblioteche, la Casa del cinema. Come lo spiega?
Ma la casa del cinema scade a settembre, sulle biblioteche opereremo a giorni e non perché il tema è stato sollevato dai giornali.
Lei che voto si dà?
Il voto me lo daranno gli elettori tra quattro anni.
E lei pensa di convincerli?
(Marino si alza e ci invita sul balconcino con vista sui Fori). Guardi lì, il Foro di Augusto. Fino a settembre la sera c’è una rivisitazione storica con Piero Angela. Abbiamo venduto 30mila biglietti a 15 euro. È un successo, no? E le Scuderie del Quirinale aperte tutta l’estate, vogliamo parlarne?.
Non è troppo poco quel che ricavate dal sistema dei musei? Francesco Merlo si è trovato al Montemartini con altre quattro persone.
Ho controllato: il Montemartini fa 112 biglietti al giorno, 41mila all’anno. Non è tanto, convengo, ma i Musei capitolini fanno 500mila ingressi.
Infatti, sono gli unici. Avete un giacimento enorme e non lo fate fruttare. Non è un delitto?
I piccoli musei bisognerebbe renderli gratis. Prenda il Carlo Bilotti: ha 18 De Chirico, ma ogni visitatore ci costa 45 euro. Bisognerebbe eliminare la biglietteria, spostare il personale alle Scuderie del Quirinale: dove davvero serve.
Roma è l’unica città al mondo con due soprintendenze. Le sembra sostenibile?
Non lo è, e ne ho già parlato con il ministro Franceschini. Stiamo lavorando benissimo con lui. Guardi, quello spicchio, il Foro di Cesare: è nostro. Il resto no.
Lei a marzo è andato dagli emiri a proporre il brand Roma. Che ne è stato?
Ne ho parlato con il sultano Bin Abdulaziz, e poi l’ambasciatore in Qatar e anche con la first lady azera. Sono disposti a restaurare i nostri monumenti, ma in cambio vorrebbero esporre le nostre opere nei loro Paesi.
Il concerto dei Rolling Stones è stato un successo, ma tutti parlano solo dei 7mila euro per il Circo Massimo. Lei sconta un problema d’immagine?
Io penso che ci sia un po’ di provincialismo. È stata una straordinaria vittoria, tutti i media del mondo hanno celebrato l’evento e noi qua a parlare ancora dei 7mila euro. Mah!
Ma al suo partito che la critica sulla cultura cosa risponde?
Che ho portato la cultura nelle periferie. Lo sa che quaranta su 57 eventi dell’estate romana si terranno fuori dal centro storico. Questa è la mia visione.
La sua solitudine non nasce dal fatto che Renzi è freddo con lei? Teme l’ombra della Madia?
Non è vero. I rapporti sono ottimi. Sono reduce da un importante colloquio con Delrio.
Fare il sindaco di Roma è più difficile che fare il chirurgo?
Molto di più, in sala operatoria devi salvare una vita umana alla volta. Ma non sono preparato psicologicamente alla sconfitta. Non posso che vincere.
Non ci vuole un’analista della comunicazione per evidenziare come Marino sembri sempre sul chi va là, si dimostri scioccamente impermeabile alle critiche, rivendichi in modo spocchioso i suoi successi (“Sono andato a controllare con la mia bicicletta…”), non usi nemmeno un minimo di captatio benevolentiae, e come per un politico dire di sé “non sono preparato psicologicamente alla sconfitta” non sia la battuta migliore. Ma è un altro il passaggio che m’interessa sottolineare, quello sulla nomina dell’assessore alla Cultura. “Ho lavorato bene con Flavia Barca per un anno, ora serve una figura di eccellenza”, dice. Il che vuol dire, per chi legge: la Barca non lo era. Anche qui, non proprio un’uscita elegante. E vuol dire: serve un nome altisonante. E l’unico che cita anche Marino è quello di Andrea Carandini, classe 1937, archeologo di fama, attuale presidente del Fai.
Ora credo che in nodo della questione sia proprio qui: nel pensare – dopo aver letto gli articoli di Merlo e di Graziani o dopo aver visto cosa vuol dire fare il sindaco di Roma per un anno – che una personalità come Carandini possa essere una figura indicata per un impegno – Marino qui lo riconosce – che “è come fare il ministro in un medio paese europeo”. L’impressione che io, come molti altri abbiamo di molti che hanno amministrato la città in questi anni è la loro poca conoscenza del territorio. L’immagine di una Roma “grande bellezza” o quella di una Roma “sacro Gra”, con un centro storico bellissimo e decadente e le periferie degradate da riqualificare è una specie di pregiudizio molle e insinuante che spinge a costruirsi idee di una città inesistenti, frutto di percezioni ristrette, semplificanti… La critica di mancanza di visione che si rimprovera a Marino e che Marino, anche questa ovviamente, respinge al mittente ha proprio questo senso: all’assessorato di Roma non serve una figura di eccellenza, ma un amministratore dotato di competenza e umiltà da una parte e originalità dall’altra. Qualcuno che in questi anni, spesso bui, e stracolmi delle retoriche peggiori, dalla Roma futurista di Alemanno e dei gran premi automobilistici all’Eur, alla finta grandeur veltroniana, abbia lavorato con costanza anche nell’ombra, scontrandosi con le rendite di posizione, interpretando e provando a contrastrare la crisi di sistema che il mondo della cultura attraversa, provando a inventare modelli e iniziative e non solo a fare il burocrate. Ogni ambito, anche a Roma, ha prodotto per fortuna figure di questo genere, nomi riconosciuti in modo trasversale. La fatica che Barca ha fatto per un anno per conoscere, incontrare, intessere rapporti, formare tavoli di lavoro, etc… potrebbe essere risparmiata al futuro assessore, se per esempio questa consapevolezza se la fosse già creata in anni di presenza sul territorio.
Provo a farli questi nomi negli ambiti che conosco. Nel mondo del libro (tra parentesi, rimango abbastanza freddo per l’elezione di Paola Gaglianone al presidente delle Biblioteche romane avvenuta due giorni fa: di quale riconoscimento si faceva forte? quale inventività aveva dimostrato in questi anni? Si vedrà) spicca per la quantità e la qualità dell’impegno da anni una persona come Luisa Capelli. Antropologa di formazione internazionale, fondatrice di uno dei migliori progetti editoriali italiani degli ultimi anni, Meltemi, docente (con un contratto economicamente ridicolo) a Tor Vergata di Economia e gestione delle imprese editoriali, curatrice e organizzatrice da un po’ di tempo delle giornate sull’editoria Librinnovando, esperta come pochi altri in Italia di editoria digitale, e soprattutto capace di avere una visione politica sul futuro dei libri: dai rapporti tra istituzioni e privati, alle questioni di sistema, la proprietà intellettuale, l’accesso ai contenuti, etc… È una persona con una solida formazione novecentesca, ma che non ha nessuna di quelle nostalgie bibliofile che molti spacciano per passioni, se non per competenze… Darle un ruolo di assessore o almeno di direttrice della Casa delle Letterature dimostrerebbe un coraggio inedito per Marino, e sarebbe ripagato dalla possibilità che Roma – la città di una Biblioteca Nazionale (oggi caricatura di se stessa), delle biblioteche storiche, degli archivi, della piccola e media editoria – diventasse un vero polo editoriale e una città della cultura del libro.
Vogliamo fare un’altro nome, un altro nome eccellente ma non di fama? Una donna che negli ultimi anni in tutta Italia è stata capace di ripensare intorno ai libri e alle biblioteche un diverso rapporto tra istituzioni e cittadini, facendo, nel suo piccolo, della cultura veramente la chiave di un nuovo welfare, e riconoscendo alle biblioteche il ruolo di presidi democratici? Antonella Agnoli. Qui trovate il suo curriculum. Agnoli ha lavorato in piccoli comuni e grandi città, a Venezia, a Bologna, a Seattle, a Helsinki, a Maiolatis Spontini, a Cinisello Balsamo, progettando biblioteche multimediali che nel giro di poco tempo hanno completamente trasformato l’accesso alla cultura dei luoghi dove si inserivano. Utenti della biblioteca moltiplicati anche di dieci volte, una partecipazione civile inusitata. I suoi libri, Le piazze del sapere, o l’ultimo, La biblioteca che vorrei. Non sarebbe sfidante investire su di lei, sulla sua visione?
Per il mondo del teatro il nome che può venire in mente con facilità non solo a me è quello di Veronica Cruciani. Regista quarantenne, il cui lavoro sul palco è oggetto di una stima condivisa da tutti gli addetti teatrali, mainstream e indipendenti, ha dalla sua un’esperienza da imitare: negli ultimi dieci anni è riuscita, con un impegno e una costanza unici, a creare al Quarticciolo, nella periferia orientale di Roma, un modello di teatro di quartiere riconosciuto, lodato, tanto da chi fa teatro che da chi semplicemente ci abita vicino. La sfida di poter coniugare sperimentazione con teatro popolare (Muta Imago, Michele Santeramo o Virgilio Sieni con Valerio Aprea, Massimiliano Bruno, Geppy Cucciari), la capacità di coinvolgere le scuole, gli universitari, i centri anziani, gli utenti della biblioteca, è stata vinta. Con pochissimi soldi a disposizione – quest’anno ha fatto il direttore artistico gratis – e con la minaccia molto attuale che il budget dell’anno prossimo le venga decurtato di un quarto, ha trasformato un teatro di cintura in quello che doveva essere, non una microcattedrale nel deserto, ma un riferimento per tutto il quartiere.
Capelli e Cruciani (come anche Agnoli) hanno di fatto svolto un ruolo di supplenza in questi anni, hanno mostrato come si possa conservare e trasmettere il senso del pubblico, hanno usato i contributi degli attori privati sempre nell’ottiva di una funzione pubblica, hanno cercato di capire come trovare nuove modalità di finanziamento partecipato. Si sono fatte un mazzo encomiabile. Non è per me un valore positivo in sé svolgere una supplenza rispetto alla politica: Capelli e Cruciani sanno fare benissimo il loro mestiere – l’editore e la regista – ma hanno compreso che, in una fase di crisi, non ci si può limitare all’eccellenza nell’impegno professionale: occorre invece provare a riformare le condizioni di sistema, dato che la produzione teatrale o la produzione libraria si sono modificate profondamente negli ultimi anni.
Sono proposte quelle che ho provato a fare, che – più che i tre nomi in sé – indicano delle caratteristiche, un metodo, e soprattutto un’aspettativa. Che la politica accompagni i processi virtuosi, e non li eterodiriga. Un assessore alla cultura deve soprenderci, inventare quello che non c’è. Non è detto che non debba essere un non politico a rivestire il ruolo di assessore: ce ne sono – anche a Roma (Andrea Valeri, per esempio nel primo municipio) di amministratori locali, di funzionari che riescono ad avere insieme capacità gestionale e inventiva, rapidità nel governare la macchina amministrativa e visione. Sarebbe bello anche che Marino, che si fa vanto di un nuovo modo di fare politico, rendesse trasparenti i criteri dei suoi processi decisionali. Non si tratta di azzeccare il nome, ma di capire quali sono i desideri che esprime una città.