Criticare Renzi come e perché
Renzi sta facendo cose. O meglio, sembra che Renzi stia facendo cose. Da due mesi insediato al governo, l’immagine del trentanovenne presidente del consiglio è quello di uno che non sta mai fermo, a ritmo di una riforma al mese come ha detto, di conferenze stampa con le slide, e slogan efficaci come #lasvoltabuona su Twitter. Il merito di quest’attivismo è probabilmente il suo, il merito di quest’immagine è probabilmente di Filippo Sensi che in questi pochi mesi è diventato il suo angelo custode – ben più pare di un addetto stampa, ma una specie di principio di realtà continuo: uno in grado di fargli riconoscere in tempo reale quali sono le questioni politiche urgenti sul piatto.
Il fatto che Renzi si stia dando da fare risulta, sui giornali, diciamo anche nell’opinione pubblica, un bene in sé. Anni di palude, di traccheggiamenti, di veti incrociati, di proclami persi nel vuoto, hanno devastato la nostra fiducia minima nella classe politica, la cui indifferenza, incompetenza e inconcludenza sono le tre I che l’hanno contraddistinta – caratteristiche genetiche più che difetti di percorso.
Pierluigi Battista ieri sulla prima del Corriere sintetizzava con il suo solito tono desengagé questo senso di insofferenza per le critiche all’attivismo di Renzi e stentava a contenere un’entusiasta adesione all’azione di governo:
«Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa “deriva autoritaria”. O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali. Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell’«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l’impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile».
L’insofferenza esplicita di Battista è per quelli che ieri i giornalisti filo-renziani chiamavano i “parrucconi”, ossia i promotori dell’appello di Libertà e Giustizia sui pericoli di autoritarismo, quel gruppo composito che Renzi stesso aveva liquidato prima con una battuta: «Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà e Zagrebelsky», per poi provare a azzittire con un aut-aut che sapeva di ricatto: «O passano queste riforme o me ne vado».
Ora, senza indulgere subito nella mia di insofferenza, mi viene da prendere alla lettera quel passaggio-concessione dell’editoriale di Battista – «Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe» – per tentare di mettere a fuoco quali sono le critiche di metodo e di merito che vengono poste a Renzi e ai renziani.
Di metodo.
1) Le riforme istituzionali forse avrebbero bisogno di un consenso ampio e qualificato, che non si ottiene con le forzature, con gli aut-aut, con l’ansia della calendarizzazione.
2) Il governo Renzi-Delrio questo consenso ampio e qualificato se lo dovrebbe ancora di più conquistare visto che di fatto è arrivato a Palazzo Chigi con una doppia forzatura.
[E qui faccio una parentesi: prendiamo uno come me. Nel 2013 voto, come elettore di Sel, il programma «Italia Bene Comune» che prevede una serie di riforme portate avanti da un’alleanza Pd-Sel. Voto con una legge fetente, che non mi permette di esprimere preferenze sui singoli candidati scelti dalle segreterie di partito, con – nel migliore dei casi – bilancini a là Cencelli che corrispondono alle correnti interne dei partiti. Alle elezioni le cose vanno come vanno. Bersani lascia, Sel va all’opposizione. Va in carica il governo Letta, che io non avevo votato. Avrei preferito riandare alle elezioni: sic. Poi arriva il governo Renzi, per un cambio all’interno del Pd (le primarie e i riposizionamenti). Io che non sono un elettore Pd, subisco il cambio di governo. Forse dovrei diventare un elettore del Pd, mi dico per ottenere un minimo di rappresentanza: e governativa, e istituzionale.]
Di merito.
Le critiche che vengono fatte alle riforme proposte da Renzi, anche quelle che gridano all’allarme, hanno un punto comune: l’ipotesi di riforma del Senato insieme all’ipotesi di legge elettorale avrebbero come esito una concentrazione di potere eccessiva, con bilanciamenti deboli. Questo è più o meno quello che viene definito pericolo di autoritarismo. Forse la definizione può essere eccessiva, preventiva; ma quando Walter Tocci scrive sull’Unità: «L’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20 per cento degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione.
Si tratta di un worst case scenario, certo, che potrebbe diventare un presidenzialismo selvaggio senza bilanciamenti se si indebolisse anche la funzione politica del Senato facendone il dopolavoro degli amministratori locali. Il capo del governo non avrebbe difficoltà a concedere qualcosa agli interessi locali per ottenere il consenso dei nuovi senatori non eletti direttamente dal popolo e quindi sprovvisti delle garanzie dell’articolo 67 della Carta. Non avrebbero, infatti, la libertà di mandato e non rappresenterebbero la nazione intera, poiché sarebbero obbligati all’indirizzo di governo dell’Ente di provenienza, come ammette in parte il testo del governo», o quando prosegue: «Viene spesso usato a sproposito l’esempio del Bundestrat, dimenticando che il sistema tedesco non solo è bilanciato ma non si darebbe mai una legge elettorale con l’abnorme premio di maggioranza dell’Italicum», o quando Ida Dominijanni scrive sul suo blog: «Il rafforzamento dei poteri del premier; e si può facilmente immaginare che di un premier così rafforzato si richieda, o prima o poi, l’elezione diretta. Per la quale, grazie all’Italicum, basterebbe il 37 per cento dei votanti, ovvero meno del 30 per cento del corpo elettorale. Dopodiché il premier si troverebbe a regnare con pieni poteri sull’unica Camera superstite, nella quale disporrebbe, sempre grazie all’Italicum, di una schiacciante maggioranza costituita da parlamentari scelti da lui stesso, nella doppia qualità di candidato premier e segretario del partito cui spetta la formazione delle liste elettorali bloccate”; ecco è difficile non essere un minimo dubbiosi.
Questi dubbi non sfiorano i sostenitori di Renzi e del suo piglio decisionista. Ieri la cloud socialnetworkara di chi si interessa di politica è stata elettrizzata dal sedicente scoop di Claudio Cerasa, che dal suo blog sul Foglio, aveva scovato un disegno di legge del 1985 in cui Rodotà (Rodotà-tà-tà, come lo chiama con gran simpatia Cerasa), insieme ad altri proponeva il monocameralismo. A parte il modo non so quanto corretto di riprendere idee di trent’anni fa (in un mondo in cui esisteva il Pci, la Democrazia Cristiana, il brigatismo rosso, Černenko e Nick Kamen) e inchiodarci le persone (io per dire, nel 1985, ero perché in Italia governassero gli sceriffi e volevo essere uno di loro), sarebbe stato utile leggersi in maniera attenta quel disegno di legge.
Rodotà e gli altri estensori del progetto di legge avevano in testa una riforma istituzionale che riprendesse lo spirito della Costituzione in modo da aumentare un bilanciamento dei poteri: erano a favore del monocameralismo puro – e lo facevano in nome di un’apertura democratica (comunista e socialista, veniva ben specificato) – mentre l’Italia aveva un sistema elettorale proporzionale. Lo facevano insomma, ed è esplicito nel documento, proprio perché un parlamento bloccato dai pentapartiti di turno e quei partiti bloccati dalle correnti di turno avevano di fatto cannibalizzato il ruolo dell’esecutivo. Ora, dopo vent’anni di maggioritario e con l’ipotesi di un ipermaggioritario come l’Italicum, il rischio sarebbe chiaramente opposto: non un potere legislativo che si mangia quello esecutivo, ma quello esecutivo che ingloba quello legislativo (ed è chiaro che la questione dei nominati qui non è marginale). Inoltre Rodotà e gli estensori della legge, pur ovviamente non volendo, mettevano in guardia proprio dai pericoli di quel modello di riforma del Senato che ha esposto l’altro giorno Renzi, il bicameralismo imperfetto.
Cito da pagina 6: «La designazione dei membri di un ramo del Parlamento da parte di entità soggettive diverse anche se rappresentative (ma appunto perché tali e perciò diverse) del corpo elettorale, comporterebbe necessariamente una riduzione-manipolazione del potere del corpo elettorale e l’allontanamento di questo, titolare ed esercente del potere sovrano, dagli organi investivi della funzione rappresentativa centrale dello Stato democratico. Comporterebbe, in realtà, una compressione della sovranità popolare». Ed era lungi anche dall’essere immaginato, viene da dire, il referendum che toglieva le preferenze multiple, il Porcellum che toglieva le preferenze, o l’ipotesi che in questo Senato delle autonomie 21 senatori siano di nomina presidenziale.
La compressione della sovranità popolare: questo credo sia il nodo. È chiaro che Renzi sia animato di buone intenzioni riformistiche, ma è come se corresse, e troppo, sul binario sbagliato. La grave ferita che abbiamo subito nei decenni in cui la politica è diventato sinonimo di perdita di tempo, inefficienza e corruzione non è stato soltanto quello del deficit di rinnovamento, ma del deficit di rappresentanza. I nostri voti non hanno contato, le nostre opinioni (all’interno di un sistema mediatico impiccato alla corda del conflitto di interessi e dei giornali che hanno sostituito i partiti) nemmeno. Ora quello che chiederei a Renzi non è più efficienza, ma più ascolto e più coinvolgimento. Vorrei che auspicasse più dibattito, non di meno. Proprio perché la sua ambizione ha a cuore, come sembra, riforme strutturali, che si tratti di lavoro o di istituzioni. Può meravigliarsi che persone distrutte dalle fatemorgane della flessibilità evocate da Treu o da Fornero, oggi accolgano il Jobsact come l’ennesima profezia di sventura? Non gli viene da riflettere sul fatto che un Senato delle autonomie possa dare la stura a un secessionismo de facto, con regioni più forti contro regioni più deboli, in un’idea di unità nazionale che si deve difendere dalle proposte deliranti tipo quella di Farinetti di ieri («Il Sud Italia è in una condizione terrificante molto più grave i quello che si immagina. È stato fatto troppo welfare nelle istituzioni. Nel Sud c’è da fare un unico grande Sharm El Sheikh dove ci va tutto il mondo in vacanza»)?
Finisco con una notazione personale. Ho avuto una fortuna, in quest’ultimo anno, di far parte della giuria di CheFare, il premio – 100000 euro – che l’associazione Doppiozero ha creato per i progetti culturali. Domenica scorsa sono stato tutto il giorno a sentire le esposizioni dai parte dei nove finalisti. Erano progetti, potrei definirli così per riassumerne il senso, di riqualificazione civile: progetti elaborati da e per Gela e Lampedusa, da e per chi vive nelle periferie di Mazara del Vallo, nel territorio della provincia di Foggia, nelle periferie di Torino, o nei territori urbani desertificati da anni di mancato investimento culturale. Le parole che ritornavano in tutte presentazioni erano tipo “cittadinanza attiva” o “gestione condivisa” o, la migliore, “relazioni significanti”. Ero attonito, stordito, ipersensibile. La crisi della politica in questi ultimi anni ha creato immani disastri e risentimenti radicatissimi, ma anche – paradossalmente – un nuovo innamoramento per una politica dal basso, per un desiderio di partecipazione. Investire su questo desiderio profondo e non sui suoi feticci è il compito etico di questo governo e di quelli che verranno, farsi investire dalle critiche di chi – associazioni sul territorio, lavoratori precari, educatori, sindacalisti di frontiera, piccoli amministratori locali – hanno retto per molti anni la cosa pubblica in assenza di una politica capace di sostenerli è una necessità irrimandabile.