L’era del permaloso
L’atmosfera politica che leggo sui giornali assomiglia sempre di più a quella che respiro tutti i giorni, al bar, sul posto di lavoro, mentre sto in fila in macchina, nelle assemblee politiche e in quelle condominiali, nelle discussioni di persona, in quelle al telefono e in quelle on-line… In questo senso, potrei dire, la distanza tra Paese Reale e Paese Legale si è accorciata. Dove mi giro vedo una specie di contagio esteso di una forma parossistica di permalosità. Mi sono sentito attaccato dalle tue parole, mi hai offesa sul piano personale, non solo le parole ma sono i gesti che contano, non solo i gesti contano ma anche certi sguardi, ogni atto, anche quello più involontario, mi può ferire. E io mi ritengo un attore sociale solo se mi sento offeso.
L’Italia è un Paese strano. Così senza mai aver sviluppato una cultura del politicamente corretto (che comprendeva una crescita civile verso una società più rispettosa e multiculturale), ha sviluppato solo gli anticorpi e rubricato direttamente l’espressione “politicamente corretto” tra gli epiteti ridicolizzanti, lasciando che espressioni di xenofobia e razzismo oggi siano tutto sommato tollerate come sinonimi di sincerità sanguigna, di schiettezza fuori dai denti; allo stesso modo, verrebbe da dire, senza mai aver sviluppato una cultura garantista, ha sostituito – alla tutela delle vittime e imputazioni delle responsabilità – il vittimismo e il senso di colpa come motore delle relazioni sociali e politiche.
In un film del 1996 di Antonio Rezza, Escoriandoli, c’è un episodio esemplare di questo avvitamento: il protagonista, il poeta Giacane (Antonio Rezza) entra in una profonda crisi esistenziale e viene travolto dai sensi di colpa per aver calpestato, su un autobus affollato, il piede a un grassone a cui ha chiesto scusa. Giacane perseguita in tutti i modi il grassone, continuandogli a chiedergli scusa, una richiesta che man mano diventa straziante: Giacane non si sente veramente perdonato dal grassone, e morirà di crepacuore per questo. La vendetta postuma però di Giacane sarà implacabile: la sua amica Lauretta si vendicherà uccidendo in un barbaro modo il ciccione “responsabile” della morte di Giacane.
Il paradosso del permaloso, di chi si sente offeso è proprio questo. Se noi immaginiamo una società che invece di interrogarsi sulle cause dei conflitti, debba prima di tutto elaborare le offese, vorrà dire che continueremo a incagliarci in un vortice di malanimo, in cui le questioni di merito spariranno, sepolte dai diatribe interminabili di hai iniziato tu e dichiarazioni ufficiali, lettere e controlettere, smentite e precisazioni. E noi, noi consorzio sociale, noi senso comune, come possiamo mai valutare la traumaticità di sensibilità così esposte? E davvero dobbiamo fare politica a partire da qui?
Se autori come la Wieworka, o Girard, o Zizek hanno analizzato come nel nuovo millennio, nelle contese storiche, lo status sociale della vittima sembra essere diventato l’unico soggetto di diritti, degno di ascolto, e portatore di verità, il permaloso, l’offendibile, si rivela come la versione esponenziale della vittima. È una vittima preventiva, si potrebbe dire. Una vittima perennemente potenziale.
Se Richard Sennett in Autorità scriveva: «Nulla di più pericoloso di una condizione in cui l’idea stessa di diritto, “quello che mi spetta”, si può esprimere solo nella forma di “quello che mi è stato negato”», oggi potremmo aggiornare questa visione dicendo che nulla è più pericoloso di una condizione in cui l’idea stessa di diritto si può esprimere solo nella forma di “quello che mi ha ferito”.
E bene l’hanno capito molti nuovi conservatori, dispersi anche tra i pentastellati o tra i piddini, che basano la loro autorevolezza politica sulla loro permalosità e quindi sul ricatto della sensibilità.
David Foster Wallace ha inventato un paio di personaggi geniali. Uno è Eric Clipperton in Infinite Jest: un bravo tennista ma incapace di perdere che gioca sul campo con una racchetta in mano e una pistola puntata alla tempia nell’altra, ponendo ai suoi avversari un ricatto costante: se non vinco mi sparo. Un’altra è la persona depressa, protagonista di un racconto di Brevi interviste con uomini schifosi: la persona depressa è talmente depressa che coinvolge in un ricatto senza fine chiunque abbia a che fare con lei e non faccia nulla per alleviare le sue sofferenze.
L’esito sociale del contagio della permalosità è un mondo in cui tutti girano ad occhi chiusi nel traffico e si lamentano poi se qualcuno li ha messi sotto. Questo non vuol dire ovviamente che i deboli, i sensibili non debbano essere tutelati, difesi e protetti; ma ci sono le strisce, e le strisce stanno a significare invece un’attribuire anche ai deboli e agli indifesi uno statuto di responsabilità, non accettare la loro autopassivizzazione, non ridurli a vittime potenziali.
Uscire dal paradosso del ferito, del permaloso non è difficile. A Roma si dice: se s’incazza si scazza. La permalosità è una reazione a tempo. E molto spesso è evidente come giganteschi dibattiti politici che occupano le prime pagine dei giornali evaporino con la stessa velocità per cui appunto a qualcuno è passata l’offesa. Meno facile però è guarire dalla cronicizzazione di questa abitudine del dibattito a diventare una contrapposizione di sensibilità ustionabili. Forse sarebbe utile imparare l’abitudine a mettersi creme antisolari se si ama la luce d’agosto.