domenica 20 Febbraio 2022
Una importante sentenza della Corte Suprema britannica sulla libertà d’espressione e sulla privacy permette di spiegare come la consuetudine italiana di “sbattere il mostro in prima pagina” (era il titolo di questo precoce film di Marco Bellocchio) non sia una condizione scontata. Nel Regno Unito, infatti, è vietato divulgare i nomi delle persone sottoposte a indagine prima che vengano formalmente incriminate o arrestate: o meglio, si considera che nella stragrande maggioranza dei casi, il diritto alla privacy di chi sia soltanto indagato prevalga sul diritto all’informazione da parte dei media, per via dell’indiscutibile e irrimediabile “danno alla reputazione” che questo genere di notizie comporta per le persone coinvolte.
L’attenzione dei tribunali a queste tutele è ulteriormente cresciuta nell’ultimo decennio, dopo lo scandalo che ha rivelato le pratiche spregevoli e illegali di alcuni tabloid per ottenere informazioni private su celebrities e privati cittadini. E il caso più famoso di questa severità è quello del cantante Cliff Richard, il cui nome fu diffuso da BBC dopo una perquisizione a casa sua (trasmessa in tv) nell’ambito di un’inchiesta per cui non fu poi mai perseguito, e da cui venne ritenuto estraneo ai fatti: Richard ottenne le scuse di BBC e della polizia per la diffusione della notizia, e diverse centinaia di migliaia di sterline di risarcimento (a BBC costò oltre due milioni comprese le spese legali).
Mercoledì la Corte Suprema ha rigettato un ricorso dell’agenzia di stampa Bloomberg che era stata condannata per aver citato il nome di un dirigente di una società americana coinvolto in un’inchiesta per corruzione, che non fu poi incriminato: il ricorso sosteneva che si trattasse di un caso in cui l’informazione sull’indagine avesse una pubblica utilità maggiore della tutela della privacy dell’interessato. Le critiche alla sentenza hanno aggiunto che ci sono casi in cui le notizie pubblicate su un indagato possono suggerire a persone con maggiori informazioni di condividerle con le indagini. La sentenza ha però confermato che il “danno alla reputazione” di una persona su cui non ci siano elementi per la formalizzazione di un’accusa non possa essere accettato.
Secondo il Guardian in seguito alle critiche alla sentenza il governo starebbe considerando una revisione delle norme in senso meno restrittivo per il diritto di cronaca.
Charlie è la newsletter del Post sui giornali e sull'informazione, puoi riceverla gratuitamente ogni domenica mattina iscrivendoti qui.