domenica 13 Febbraio 2022
Un’altra storia delicata che sta circolando molto nel mondo dei media americani riguarda ancora degli errori compiuti diversi anni fa e oggi arrivati al pettine: in questo caso non in un tribunale, ma nel podcast di una giornalista, Vicky Ward, che ha raccontato che una sua precoce traccia (era il 2003) sugli abusi criminali di Jeffrey Epstein fu accantonata dall’allora direttore di Vanity Fair Graydon Carter, che scelse di non pubblicare le prime accuse di molestie sessuali contro Epstein raccolte allora da Ward. Secondo Ward una combinazione di complicità maschile tra uomini potenti e timore delle conseguenze spinse Carter (un’istituzione nella storia di Vanity Fair e della mondanità statunitense, direttore dal 1992 al 2017) a non dare seguito alle ipotesi di Ward, che aveva parlato con due vittime di Epstein.
Dopo la ricostruzione di Ward nel suo podcast, il New Yorker (settimanale che appartiene allo stesso gruppo editoriale di Vanity Fair, Condé Nast) ha dedicato un articolo a indagare e verificare le accuse di Ward contro Carter, presentandole come confuse e contraddittorie e di fatto assolvendo l’ex direttore e indicando Ward come una giornalista sulla cui affidabilità c’erano molti dubbi all’interno del giornale. Ward ha risposto nella sua newsletter con un lungo testo indignato (che allude ancora a complicità maschili, ma anche a complicità aziendali) che ha riportato molte delle conversazioni avute tra lei, Carter ed Epstein intorno alle accuse poi taciute nel suo articolo del 2003. E una nuova newsletter, venerdì, che sostiene che la ricostruzione del New Yorker finisca in realtà per darle ragione.
A margine della sostanza del contendere, sono interessanti le riflessioni di Ward sulla difficoltà di ricostruire con certezza ed esattezza i dettagli di cose avvenute quasi vent’anni fa, e di come gli umanissimi dubbi della memoria possano essere usati contro chi li confessa.
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