domenica 27 Settembre 2020
Praticamente tutto quello che riguarda i contenuti dei giornali, le cose che decidono di raccontare e come, discende da valutazioni economiche: è sempre stato così – i giornali sono prodotti commerciali, pur con una variabile vocazione di servizio pubblico – ma in questi tempi di crisi dei loro ricavi, le considerazioni commerciali stanno prendendo maggiore priorità e si estendono a pagine e settori che ne erano più risparmiati.
Queste valutazioni prendono in considerazione le opportunità sulle due maggiori fonti di ricavo dei giornali, che sono rimaste le stesse dei secoli precedenti: i lettori paganti e la pubblicità. La prima delle due fonti di ricavo era stata data per morta con internet e la gratuità di tutto, ma ha invece avuto una piccola ma preziosa resurrezione negli ultimi quattro anni circa: e vedete tutti che oggi non c’è giornale che non si sia dedicato a convincere i lettori online – con inviti o barriere, carote e bastoni – a pagare qualcosa in qualche modo. La pubblicità invece non aveva mai smesso di essere il modo prevalente di sostenere economicamente il lavoro e le spese dei giornali, ma i cambiamenti digitali hanno ridotto enormemente la misura dei ricavi possibili, ed è una misura che continua a contrarsi.
Il risultato è che in questo momento i giornali si trovano a dover sfruttare due opportunità di ricavo che si muovono in gran parte in direzioni opposte: una – i lettori paganti – è in crescita ma rende meno (soprattutto per le grandi testate) mentre l’altra – la pubblicità – rende tuttora di più ma è in declino; e soprattutto una richiede un investimento sulla qualità, sulla credibilità, sulla fiducia dei lettori, sull’originalità concorrenziale dei contenuti, mentre l’altra – la pubblicità – ha basato da tempo i suoi risultati sulla quantità, sui numeri, sui clic, sul traffico occasionale e di lettori passeggeri, come anche su contenuti giornalistici utili o compiacenti per gli inserzionisti più che per i lettori.
(non è completamente vero: ci sono ricavi pubblicitari che derivano dalla credibilità della testata e dalla sua capacità di costruire contenuti e formati pubblicitari originali e attraenti, ma riguardano ancora una quota esigua e illuminata degli investimenti).
Questo è un report del Reuters Institute appena uscito, su come questa scelta (“pivot to paid” significa “buttarsi sui contenuti a pagamento”) influenzi tutto il lavoro dei giornali e anche quello che poi leggeremo o non leggeremo:
“This ‘pivot to paid’ has resulted in significant changes to how the news organisations approach their editorial products and distinguish value-added journalism, leading to new newsroom roles and routines, content-creation and management strategies, and tactics for platform distribution”.
Sarebbe facile dire che la cosa più saggia sia appunto investire sulla prospettiva più promettente sul lungo, e darle priorità: ma rischiare di sacrificare i ricavi pubblicitari tuttora importantissimi legati ai gran numeri di traffico, alle loro dinamiche, e al tipo di contenuti di minor qualità che spesso li determinano, è una cosa che si possono permettere – tra le grandi aziende giornalistiche – solo quelle che abbiano spalle economicamente molto larghe capaci di sopportare un periodo di perdite maggiori (al New York Times stanno ripensando il rapporto con la pubblicità nel lungo periodo). Non è facile, insomma, essere editori di giornali di questi tempi: e nemmeno direttori di giornali.
Fine di questo prologo.
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