Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.
martedì 18 Agosto 2020
Linkiesta è un sito di news nato nel 2010 (poco dopo il Post) col sostegno di una estesa compagine di soci milanesi, che in dieci anni ha avuto periodi diversi e momenti di difficoltà economiche cercando di portare online un’idea di giornale tradizionale di attualità e politica. Un anno fa ha cambiato il suo quarto direttore, che ora è Christian Rocca, già a lungo al Foglio, poi al Sole24Ore e direttore del magazine IL, ultimamente commentatore per la Stampa. Rocca ha saputo arricchire una redazione ridotta coinvolgendo molti collaboratori sia nuovi che provenienti dal giornalismo più conosciuto, e ha spinto molto il sito sull’informazione e sul commento politico, con polemiche e giudizi vivaci: e oggi Linkiesta è sulla mappa del dibattito politico (questo mese ha ospitato interventi sul PD di Giorgio Gori e Goffredo Bettini, tra gli altri) pur mantenendo dimensioni ridotte.
Ma soprattutto sta per la prima volta aggiungendo idee nuove alle necessità di trovare ricavi non solo pubblicitari (quelle idee secondarie ma spesso preziose a cui abbiamo alluso parlando dei modelli di business), e ha creato l’anno passato un festival milanese di politica con ospiti importanti, sponsor e la collaborazione di Sky Tg24. Prima dell’estate invece ha provato a fare un esperimento di carta, usando i contenuti del sito e un’attenzione alla confezione grafica, e promuovendolo presso la crescente comunità di lettori affezionati. Il giornale è distribuito a Roma e Milano ma viene spedito a chi lo acquisti online, e ha quindi costi di produzione molto limitati: il primo esperimento ha ottenuto dei moderati utili. Un secondo numero, dedicato al referendum, sarà disponibile dal 4 settembre.
È un esempio di un tentativo che stanno facendo diversi giornali online, di tornare offline a recuperare altri possibili ricavi: col merchandising, coi prodotti di carta, con gli eventi, con i corsi.30
domenica 16 Agosto 2020
Un articolo sul Foglio di Giulia Pompili ha raccontato in modi in cui la propaganda di stato cinese sta ottenendo indulgenze e accoglienze sui giornali italiani.
“alcune associazioni pro-Cina in Italia danno ai giornali online articoli pronti, in italiano, praticamente traducendo le notizie ufficiali dei media statali. E lo fanno pure pagando lo spazio virtuale concesso, ma senza il necessario avviso di “articolo a pagamento”. Il Foglio ha parlato con alcune persone che hanno ricevuto questo tipo di offerta, che poi sono state rifiutate. Il modello di business sembra molto simile a quello intrapreso dalla versione online del Giornale: se da un lato il quotidiano cartaceo è su una posizione molto anti-cinese – in linea con quella di Silvio Berlusconi – il sito internet pubblica periodicamente articoli di Cinitalia, a cura della sezione italiana di Radio Cina Internazionale, l’emittente radio della China Media Group di Shen Haixiong. Il gruppo, nel marzo del 2019, in occasione dell’ingresso italiano nella Via della Seta, ha firmato memorandum d’intesa con la Rai, con Class editori, e ha una partnership con TgCom24″.
“Nel marzo del 2019 l’Ansa, la principale agenzia italiana, cioè fonte primaria per il mestiere del giornalista, ha firmato un accordo con l’agenzia statale cinese Xinhua che prevedeva niente di più che la traduzione delle notizie cinesi. Dopo un po’ di polemiche legate al caso, l’agenzia è stata costretta a mettere sotto ai lanci l’avviso: responsabilità editoriale di Xinhua. Una questione economica slegata dal lavoro redazionale, visto che da sempre l’Ansa è considerata tra le più autorevoli fonti d’informazione sulla Cina. Eppure resta un problema: avere una linea coerente nei confronti di un tema di politica estera importante fa parte dell’autorevolezza di un prodotto editoriale, ed è per questo che molti giornali stranieri, negli ultimi anni, hanno deciso di interrompere tutte le collaborazioni con i media cinesi”.
domenica 9 Agosto 2020
I direttori maschi dei trenta quotidiani più letti in Italia sono ventotto. I sette telegiornali delle maggiori reti televisive sono diretti da maschi. I cinque giornali online più seguiti hanno cinque direttori maschi (anche il Post).
Se si prendono in considerazione gli altri spazi di influenza – quelli dei commenti, delle opinioni, degli editoriali – la situazione migliora di poco: la prevalenza dei maschi tra gli editorialisti, tra le “firme” famose e assidue, nelle pagine dei commenti, supera stabilmente i tre quarti (6 su 65 in questa pagina di “Firme” del Corriere, una su sette blogger in homepage sul Post)
In anni di dibattiti sulla necessità di maggior diversità di genere negli ambiti più vari, e di maggior accesso a ruoli di rilievo e influenza da parte delle donne, un contesto che per definizione si immagina aggiornato ed evoluto come quello dei giornali non ha molti uguali nell’esclusione delle donne dai ruoli di maggior potere: e le donne ci sono eccome, nei giornali.
Due tra le spiegazioni possibili sono: una maggiore inclinazione delle redazioni giornalistiche a rigenerare se stesse e i propri gruppi dirigenti (se prendiamo i condirettori e vicedirettori operativi, la situazione si ripete e aggrava), proprio perchè luoghi “di cultura” più ancora che imprenditoriali, in cui affinità e clan prevalgono sulle capacità; e un’autoassoluzione che esenta i giornali dalla critica destinata dagli stessi giornali ad altri contesti troppo maschili (ma aggiungiamo anche lo spostamento verso destra e verso posizioni conservatrici del panorama dei giornali italiani). Ma forse c’è anche qualcosa di stabilmente “maschile” in come siamo abituati a pensare gli spazi dei commenti e delle opinioni.
Le due direttrici sono Agnese Pini alla Nazione e Nunzia Vallini al Giornale di Brescia, decimo e ventottesimo quotidiano per diffusione.
domenica 9 Agosto 2020
C’è un articolo interessante e inquietante sul bimestrale americano Current Affairs che spiega come a peggiorare il problema della diffusione di informazioni false, di propaganda, non verificate, si aggiunga quella che in realtà è negli ultimi anni diventata la prospettiva più preziosa per la sopravvivenza dell’informazione di qualità: ovvero tornare a fare pagare i lettori.
Il risultato indesiderato dello spostamento verso le formule di abbonamento è che oggi la gran parte dei giornali più autorevoli e affidabili si possono leggere solo, o in gran parte, pagando: mentre intorno rimane gratis a disposizione di tutti un’enorme quantità di informazioni mediocri, false, pericolose.
L’articolo è intitolato “La verità è a pagamento, ma le bugie sono gratis”.
In sostanza, la riflessione pone di nuovo la questione del servizio pubblico fornito dall’informazione (ne parlavamo la settimana scorsa): servizio di cui così beneficerebbe solo chi sceglie di pagare, o chi si può permettere di farlo.
La terza via, ma di cui non è ovviamente garantito il successo per tutti (è legata a un investimento molto intenso e dedicato al rapporto di fiducia e complicità coi lettori) è quella adottata dal Guardian – e dal Post, incidentalmente – che ha costruito un sistema di “abbonamenti” senza paywall: in cui gli abbonati sostengono il giornale senza esservi costretti e senza che gli articoli – e la possibilità di essere meglio informati – siano preclusi agli altri lettori.
Lo stesso argomento lo usa per sé Current Affairs:
“We can’t afford to keep our reach to those who like us so much that they are willing to pay money to listen, because then the free bullshit wins”.