Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.
domenica 7 Marzo 2021
Ma stavolta si tratta di un’altra cosa, che riguarda internet in generale è di conseguenza anche le news online. Google ha annunciato di voler dismettere la pubblicità personalizzata in base ai nostri percorsi di navigazione: quella basata sui “cookies” che i siti depositano sui nostri computer e che contengono informazioni che vengono lette – tra gli altri – dai sistemi di pubblicazione dei banner e delle inserzioni, per decidere (non sempre con grande efficienza) quali pubblicità mostrarci. Non è chiaro ancora che tipo di meccanismo Google vorrà conservare sui propri browser, ma nei fatti è un grosso cambiamento – motivato con le richieste di rispetto dei propri dati da parte degli utenti – nei funzionamenti della pubblicità online e nel loro business.
La decisione di Google va in una direzione che in teoria dovrebbe essere apprezzata da tutti (quella del rispetto della privacy degli utenti), soprattutto se consideriamo quanto i “cookies” e la loro invasiva indiscrezione fossero demonizzati fino a pochi anni fa, prima che diventassero rapidamente parte della normalità della navigazione online. Ma proprio perché sono diventati “normali”, adesso ci è stato costruito sopra un grande e complesso sistema di business pubblicitario che riguarda tutta la Rete. Una similitudine che si può fare è quella con l’introduzione degli spot pubblicitari che interrompono i programmi in tv, alla fine del secolo scorso. Ci furono scandalo, irritazione e persino un referendum, in Italia: poi ci siamo abituati e ora quelle interruzioni sono una parte importante dei ricavi pubblicitari delle reti televisive, che non ne vorrebbero mai fare a meno.
Per questa ragione – tra gli altri – i grandi editori hanno già iniziato a protestare per questa scelta di Google, contraddicendo le predicazioni contro i cookies e contro le invasioni della privacy che gli stessi editori avevano ospitato fino a pochi anni fa. E lo stesso interesse di Google non è dettato da generosità nei confronti degli utenti come potrebbe sembrare, ma dalla consapevolezza che la propria condizione di potere enorme e prevalente nella gestione della pubblicità online gli permette di dettare le regole e imporre meccanismi diversi su cui avere maggior controllo e di cui essere il primo beneficiario.
domenica 7 Marzo 2021
New Scientist, una delle riviste di divulgazione scientifica più famose al mondo, pubblicata a Londra dal 1956, è stata acquistata dall’azienda britannica DMGT, la cui pubblicazione maggiore – nella sua divisione editoriale – è quella del quotidiano Daily Mail (e del suo sito, il più visitato sito di news in inglese del mondo), ma ha anche Metro e il quotidiano i, sempre nel Regno Unito. New Scientist prevede nel 2021 profitti per sette milioni di sterline.
Wired, testata mensile americana di illustre storia nelle rivoluzioni digitali della fine del secolo scorso (che descrivemmo qui) ha un nuovo direttore, dopo che Nick Thompson è andato a fare l’amministratore delegato del mensile Atlantic. L’editore Condé Nast (che pubblica anche Vogue, Vanity Fair, New Yorker, GQ, tra gli altri, sotto la direzione editoriale di Anna Wintour, famosa direttrice di Vogue) ha scelto Gideon Lichfield.
Lichfield, che era direttore della rivista dell’MIT e ha lavorato al sito Quartz e al settimanale britannico Economist, sarà responsabile anche delle edizioni internazionali di Wired, compresa quella italiana diretta da Federico Ferrazza.
domenica 28 Febbraio 2021
Il New York Times ha pubblicato un articolo sul giornalismo che si occupa di Moda, interessante per la storia puntuale che racconta ma soprattutto per la scelta rara di indicare ai lettori le anomalie di quel settore dell’informazione: soprattutto nella confusione di rapporti privati e professionali tra i giornalisti e la aziende della Moda, e nelle questioni etiche che ci sarebbero in qualunque altro contesto. La storia è quella della casa “regalata” a un famoso giornalista americano dall’ex dirigenza del brand Manolo Blahnik, e delle liti giudiziarie successive, e di come questo evidenzi un sistema di regali e favori proprio di tutto il settore.
“Come scrive il New York Times, la vicenda non è solo l’ultimo aneddoto sui «problemi del mescolare lavoro e amicizia» ma «fa luce su un comportamento endemico da tempo nel mondo della moda, in cui regali, favori e influenza sono la moneta di scambio». Spesso si tratta di piccoli omaggi o favori: una borsa regalata a un giornalista famoso nella speranza che venga fotografato mentre la indossa, con un ritorno pubblicitario più o meno involontario per il marchio. Oppure l’invito a una sfilata dall’altra parte dell’Oceano, con volo in prima classe e pernottamento in hotel di lusso in cambio di un’intervista che altrimenti non ci sarebbe stata”.
domenica 28 Febbraio 2021
Il governo ha scelto mercoledì sera i nuovi sottosegretari, e anche quello alla Presidenza del Consiglio con delega all’informazione ed editoria, che succede ad Andrea Martella e dovrebbe occuparsi di molte questioni che riguardano il tempestoso settore delle aziende giornalistiche, gli interventi pubblici in loro sostegno, la promozione dello sviluppo digitale. Il nuovo responsabile è Giuseppe Moles, che ha 51 anni, è lucano e di Forza Italia. La genesi della sua nomina non è molto promettente: ci si è arrivati dopo che la prima scelta – Giorgio Mulè, Forza Italia, già direttore di Panorama e di Studio Aperto – era stata ritenuta inaccettabile dal M5S e dal PD per la sua contiguità con le aziende editoriali e gli interessi di Silvio Berlusconi. Quindi Mulè è stato riassegnato alla Difesa, e Moles – che ha competenze sui temi della Difesa e della geopolitica – è finito a fare il sottosegretario all’Editoria.
domenica 21 Febbraio 2021
I “quotidiani locali” negli Stati Uniti sono una cosa diversa che da noi. A parte il più “popolare” USA Today, persino i tre quotidiani che vengono considerati più spesso “nazionali” – e uno di loro è il quotidiano più famoso del mondo – portano il nome della propria città, e uno addirittura di una strada della propria città (il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal).
Tutti gli altri sono considerati “locali”, anche quando il “locale” sono città enormi e il bacino di lettori potenziali è di milioni di persone: il Boston Globe, il Los Angeles Times, il Chicago Tribune, sono tra i più importanti.
Adesso sta succedendo un guaio grosso, dopo che molte testate locali importanti hanno sofferto grandi tagli o chiusure nei due decenni passati. Il fondo speculativo Alden sta concludendo l’acquisto di tutto il Tribune Publishing, la grande azienda editoriale che pubblica il Chicago Tribune, il Daily News a New York, l’Orlando Sentinel e molte altre testate (anche lo Hartford Courant, che è il più antico quotidiano americano tra quelli che non hanno mai sospeso le pubblicazioni). Alden è famoso e famigerato per operazioni precedenti su alcuni giornali che sono risultate in devastanti tagli alle strutture giornalistiche e riduzoni della qualità dei prodotti, e per il suo obiettivo di monetizzare in ogni modo gli asset proficui dei giornali e chiudere tutto il resto. Un giornale importante del gruppo Tribune, il Baltimore Sun, è riuscito a trovare un finanziatore per creare una propria società non profit e staccarsi dall’operazione: ma sui destini degli altri c’è molto pessimismo e preoccupazione sia nelle redazioni relative, che tra gli osservatori delle cose che riguardano i media, che tra i lettori di quelle testate “locali”.
Le loro maggiori speranze sono state appese nei giorni scorsi al possibile veto all’operazione da parte di un’azionista di minoranza del gruppo, Patrick Soon-Shiong, medico miliardario ed eccezionale personaggio che tre anni fa ha anche comprato il Los Angeles Times. Venerdì il Wall Street Journal aveva raccontato che Soon-Shiong si sarebbe invece stancato dei giornali, e vorrebbe vendere lo stesso Los Angeles Times: ma lui ha immediatamente smentito.
domenica 14 Febbraio 2021
Se vi hanno appassionato le tensioni e le questioni al New York Times i cui sviluppi accompagnano questa newsletter da sei mesi, questa settimana non è effettivamente successo niente di grosso in superficie, ma sono usciti alcuni articoli che indicano come le tensioni e le questioni siano ormai una storia che va oltre gli addetti ai lavori.
Vanity Fair ha una ricostruzione di come si è arrivati all’uscita di Donald McNeil, lo stimato giornalista scientifico messo sotto accusa per avere usato – per discuterne l’uso – il termine razzista e dispregiativo “nigger” in una conversazione con alcuni studenti; e quello che si è capito è che, per quanto discutibile possa essere il suo allontanamento, non era stato messo in relazione solo a una parola ma anche ad altri comportamenti poco apprezzati. Anche CNN ha altri “retroscena” sulle tensioni nell’azienda. Il Washington Post invece racconta di come il direttore del New York Times abbia corretto l’iniziale proclama per cui certi termini non possano essere accettati “a prescindere dalle intenzioni”: la formula aveva generato le proteste di chi aveva sostenuto che i contesti invece contino (al New York Times è capitato di citare lo stesso termine nei suoi articoli, per raccontare fatti o discuterne), e il direttore Dean Baquet si è corretto in una comunicazione interna: «Non dovremmo vietare ogni parola dal nostro giornalismo se vogliamo raccontare il mondo per come è».
Infine, un giornalista di NBC ha rivelato che l’editore del New York Times ha bloccato un articolo di un columnist del giornale dedicato alla vicenda McNeil (l’articolo è stato pubblicato poi dal New York Post, il tabloid “popolare” newyorkese).
domenica 14 Febbraio 2021
Il “crowdfunding” di Valigia Blu è arrivato alla sua scadenza di fine gennaio – ne avevamo parlato qualche settimana fa – superando abbondantemente l’obiettivo dei 60mila euro di raccolta che si era dato, basandosi sul risultato dell’anno precedente. Fino a oggi è oltre i 75mila euro. La sua fondatrice Arianna Ciccone ha raccontato soddisfazioni e progetti.
Valigia Blu è un sito di news nato come emanazione del Festival del Giornalismo di Perugia ma che da anni si è preso uno spazio e una visibilità online raccogliendo apprezzamenti legati soprattutto al lavoro di verifica e “debunking” delle notizie false, alle riflessioni sull’informazione e al “giornalismo esplicativo”. Si sostiene con i contributi dei lettori, promuovendo ogni anno campagne puntuali di contributo.
La raccolta di contributi permette di sostenere circa la metà dei suoi costi, che in parte sono attenuati da una gran quantità di lavoro volontario. Rispetto a forme rinnovabili di membership o abbonamento, la scelta del crowdfunding puntuale, ogni anno, ha la controindicazione di dover ricostruire da zero ogni volta la partecipazione (ora uno spazio su Facebook per i sostenitori comincia un primo lavoro di coinvolgimento stabile), ma beneficia invece dell’entusiasmo e della motivazione concentrati in una campagna. Per ora Valigia Blu preferisce così, e sta funzionando.
domenica 7 Febbraio 2021
È un sito americano dapprima soprattutto di economia e finanza ma poi cresciuto con estese derive “pop” e più leggere e molto clickbait (sabato il suo articolo più visto era sulla masturbazione in una serie televisiva): esiste dal 2005 e fa dei numeri di visite e lettori rilevanti. A un certo punto la sua maggioranza venne comprata dall’editore tedesco Axel Springer, cambio che originò l’allargamento dei suoi temi. Il suo CEO, Henry Blodget, è stato assai discusso e criticato per diverse “disinvolture” passate. Adesso per emanciparsi ancora di più dai temi originali il sito ha deciso di chiamarsi solo Insider.
(dal 2016 ce n’è una versione italiana, creata con una joint venture dal gruppo GEDI, un po’ come con lo HuffPost: articolo più letto di ieri, sabato, “Australia, un meteorite nel cortile della scuola: la Nasa va a controllare e resta di stucco”).
Un aggiornamento su Business Insider Italia.
domenica 24 Gennaio 2021
Vivendi, la multinazionale francese che ha partecipazioni in aziende media di generi molto diversi (in Italia se ne parla soprattutto per il suo rapporto conflittuale con Fininvest in Mediaset, e per la sua maggioranza in Tim) ha comunicato venerdì di avere acquisito il 7,6% dell’azienda editoriale spagnola Prisa, che tra le altre testate pubblica El Pais, il più venduto quotidiano del paese. Ma ha anche una quota del 20% nella società che possiede il quotidiano Le Monde in Francia. Come dice Le Figaro: “Se qualcuno ne dubitasse ancora, può smettere. Vivendi ha decisamente intenzione di crescere nella stampa e nell’editoria”.
domenica 24 Gennaio 2021
In realtà lo strascico è un articolo del Fatto che ha rimesso il dito nella piaga del periodo di direzione di Roberto Napoletano al Sole 24 Ore, tra il 2011 e il 2017. La storia è complicata – e in attesa di giudizio, letteralmente – ma la sintesi è che Napoletano lasciò il giornale in seguito a una serie di accuse che andavano dall’arricchimento personale ai danni del giornale, alla malagestione della società, alla costruzione di un sistema di falsificazionedel numero delle copie vendute. Le ostilità con una parte della redazione e le ricadute sulla salute dell’azienda sono un’eredità non ancora rimossa nella vita del giornale: e martedì il Fatto ha pubblicato un articolo attingendo ad alcune carte del processo appena depositate. La successione di spese “anomale” va abbastanza oltre l’ordinario comprensibile.
“L’audit indica spese “anomale” per 298 mila euro: 7.367 euro per richieste di rimborso non conformi alle procedure; 9.199 per spese con carta di credito aziendale senza giustificativi; 47.276 per viaggi in violazione delle procedure; 107.965 euro per beni e servizi previsti, come la casa e le auto, ma oltre i massimali; 65.578 per “beni e servizi non previsti da alcun contratto”, come i 51.600 euro per la pulizia della casa di via Monti a Milano, 12.998 per consegna giornali, 980 per consegna a domicilio dei regali di Natale”.
domenica 24 Gennaio 2021
L’introduzione del cosiddetto “diritto all’oblio” nelle pratiche dei quotidiani è stata una cosa rivoluzionaria: benché la sua regolamentazione sia rimasta giustamente vaga e affidata molto alla discrezione dei giornali, è entrato nell’ordine di idee dell’informazione che le persone citate negli articoli possano avere accettabili ragioni per chiedere che il loro nome sia rimosso (e soprattutto non rintracciabile dalle ricerche su Google), trascorso un certo tempo e considerando il rilievo della notizia e della citazione. Le ragioni delle richieste però entrano in conflitto con la condivisa e celebrata necessità di “difendere la memoria” delle cose e del passato, oltre che con l’importanza documentale di un patrimonio di informazioni sul passato così vasto e dettagliato come quello dei giornali. Giornali che quindi si muovono con cautela e scelte diverse a seconda dei casi e dei contesti, e faticano a codificare delle regole assolute: è un terreno molto vario e accidentato.
Questa settimana il quotidiano Boston Globe – il più importante di Boston, quello del film Spotlight – ha annunciato la creazione di un servizio che prenda in considerazione i casi in cui un “breve e non significativo articolo del Globe influisca sul futuro delle persone coinvolte, con l’impressione che – conoscendo il sistema giudiziario – questo abbia in passato avuto effetti sproporzionati sulle persone di colore”. Ma “metteremo l’asticella molto alta per i personaggi pubblici o per i crimini maggiori” ha detto il direttore del digitale del giornale. Le soluzioni prospettate – da decidere caso per caso – sono la rimozione di passaggi, l’anonimizzazione dei protagonisti, la deindicizzazione degli articoli dai motori di ricerca. Come dice lo stesso articolo del Globe, il tema “solleva questioni delicate per i giornali, che si sono sempre ritenuti i responsabili delle prime bozze di scrittura della Storia”.
domenica 17 Gennaio 2021
Ci sono stati grossi movimenti nei quotidiani locali, sullo sfondo delle trasformazioni che avevamo descritto la settimana scorsa. Al gruppo GEDI – che già prima del nuovo corso aveva un’abitudine di redistribuzione geografica dei direttori dei quotidiani locali – proseguono i “consolidamenti”. Omar Monestier – direttore del Messaggero Veneto di Udine, già al Tirreno, e tra i più attenti alle necessità di innovazione – è diventato direttore anche del Piccolo di Trieste. Alla redazione del Piccolo l’accorpamento non è piaciuto per niente, e c’è stato un comunicato di protesta con toni molto severi: “È diffusa in questa redazione l’idea che oggi, dopo 140 anni, si sia conclusa una storia: quella di un Piccolo totalmente indipendente”. Poi la redazione ha bene accolto il nuovo direttore e spiegatoche non ce l’ha con lui ma con l’editore. Editore che ha persino licenziato il vicedirettore del Piccolo Alberto Bollis, molto ostile al ridimensionamento del ruolo e dell’identità del giornale. Scelta anomala in un gruppo abituato appunto a redistribuire i ruoli al suo interno, e che alcuni hanno letto come un’esibizione di forza e di intenzioni poco disposte a trattare. Lo stesso è successo al direttore della Gazzetta di Mantova Paolo Boldrini – “esonerato” piuttosto sbrigativamente – , che viene rimpiazzato dall’ex direttore del Piccolo Enrico Grazioli (che aveva diretto la Gazzetta di Mantova già fino al 2012, e anche diversi altri quotidiani del gruppo). Fabrizio Brancoli, che aveva appena lasciato il Tirreno che GEDI ha ceduto a un nuovo editore, va a dirigere il gruppo dei quotidiani veneti: il Corriere delle Alpi di Belluno, il Mattino di Padova, la Nuova Venezia e la Tribuna di Treviso.
domenica 17 Gennaio 2021
Il Trentino, quotidiano di Trento, ha chiuso. L’ultimo numero è andato in edicola ieri. Per ora rimane il sito: il quotidiano è dell’editore altoatesino Athesia*, che nella regione è un potere editoriale e politico molto forte e quasi monopolista: oltre ad altre attività possiede a Bolzano i quotidiani Dolomiten (in lingua tedesca, molto letto e venduto, beneficiario di enormi contributi pubblici) e Alto Adige, e a Trento Adige e Trentino (che aveva acquisito cinque anni fa dal gruppo Espresso, ora GEDI).
*da non confondere con l’editrice Athesis, che è quella che pubblica i quotidiani l’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.
domenica 17 Gennaio 2021
Il sito americano Axios ha ripreso e descritto un’analisi di Newsguard – un servizio internazionale di verifica dell’accuratezza sui siti di news – che mostra come i meccanismi della pubblicità online facciano sì che molti inserzionisti anche importanti abbiano le proprie pubblicità inserite in siti di riconosciuta e pericolosa falsificazione, e quindi contribuiscano economicamente a promuovere notizie false (in questo caso sui risultati elettorali americani, di quelle che poi alimentano gli assalti al Campidoglio). Questo avviene perché la gran parte dei banner pubblicitari che vediamo online sono gestiti da reti che evitano il rapporto diretto tra sito e inserzionista (quella di Google, Google Ads, è la più usata) e distribuiscono le pubblicità su molti siti che si limitano ad accettare il servizio per ottenerne ricavi economici (molto esigui, e questo è un problema più ampio di cui abbiamo parlato altre volte). Si chiama pubblicità “programmatic“.
Sia gli inserzionisti che i siti possono stabilire dei limiti e dei filtri – gli uni sui siti in cui comparire e gli altri sulle pubblicità da ospitare – ma molto permeabili, e soprattutto gli inserzionisti hanno pochissima contezza di quali siti finanzino (e quasi sempre se ne disinteressano, fin tanto che i loro banner raggiungono i numeri di occhi promessi). La questione riguarda anche i siti di news e gli inserzionisti italiani: prendiamo per esempio un sito che dice che i lockdown non servono e che promuove come veri una storia notoriamente falsa sui vaccini o un video di medici richiamati dall’Ordine dei medici; queste cose sono prodotte, diffuse e lette grazie ai ricavi economici ottenuti, per esempio, da TIM, Sky, oppure – attraverso gli spazi famigerati gestiti dal network Outbrain – Tezenis e Vodafone.
“La disinformazione è alimentata e finanziata da ricavi pubblicitari ricevuti dai maggiori brand”, dice Newsguard (che offre servizi a pagamento come proprio modello di business), suggerendo ai brand suddetti di affidarsi a concessionarie pubblicitarie con criteri di selezione non solo automatizzati e chiedendo ai network “programmatic” di progettare criteri più stringenti.
domenica 10 Gennaio 2021
Spiegare a cosa serva l’Ordine dei Giornalisti non è facile. In teoria dovrebbe garantire a tutti che ci siano un filtro e una formazione della qualità dell’informazione che riceviamo, per prima cosa, facendo sì che sia affidata prevalentemente a persone con competenza ed etica: ma questo obiettivo – già un po’ sfuggente nelle definizioni – è nella pratica perseguito con grande sbadatezza, e affidato solamente a un iniziale esame pigro e scolastico da superare dopo formazioni le più diverse (l’introduzione dei “crediti” nei percorsi professionali successivi ha creato più un’industria dei crediti che una vera qualità di aggiornamento e formazione). Insomma, la competenza e l’etica sono doti costruite più individualmente – che si sia giornalisti o no – che dalle strutture dell’Ordine. In più, in questi decenni in cui la produzione e diffusione di informazioni sono traboccate ovunque fuori dai tradizionali “mezzi di informazione”, la distinzione di affidabilità e responsabilità tra giornalisti e non giornalisti si è ulteriormente sfilacciata. L’Ordine dei Giornalisti è quindi oggi soprattutto un’associazione di tutela economica dei suoi iscritti, che hanno garantite condizioni contrattuali migliori (quando ottengono dei contratti): e molti giornalisti dicono semplificando che la quota annuale di cento euro serve solo a entrare gratis alle mostre e ai musei (in realtà, nei fatti, il tesserino da giornalista è tuttora un lasciapassare considerato in alcune situazioni ufficiali o emergenziali).
In questo contesto molto stanco e deprezzato ma anche acquisito e immutabile, c’è stata in questi mesi un po’ di agitazione intorno al presidente dell’Ordine, che si chiama Carlo Verna, ha 62 anni e un passato da giornalista sportivo in Rai. E che ha avuto un paio di occasioni di visibilità pubblica in cui non ha esattamente ben figurato: una è stata una maldestra comunicazione assai derisa sui social network a proposito della questioneFeltri-Boldrini, e la più recente è stata il suo aver governato una conferenza stampa di Giuseppe Conte con capacità e autonomia altrettanto discusse. Entrambe queste cose sono state molto sottolineate questa settimana dal suo principale avversario nell’Ordine, il toscano Carlo Bartoli che si candida a rimpiazzare Verna.
domenica 10 Gennaio 2021
È un termine che viene usato piuttosto liberamente e spesso esteso a qualunque articolo di commento o opinione. Treccani invece spiega: “Articolo di fondo che viene stampato, talora senza firma, nelle prime colonne della prima pagina di un giornale (o nella prima pagina di una rivista) e rispecchia l’indirizzo politico del giornale stesso”. Quindi, a essere corretti e rigorosi sul significato, l’elemento peculiare dell’editoriale è che è scritto “a nome del giornale” e quindi è firmato dal direttore o da un responsabile importante, oppure non è firmato.
In molti quotidiani internazionali è più frequente – rispetto a quelli italiani – la tradizione di una sezione fissa di editoriali non firmati, all’interno delle pagine dei commenti e delle opinioni: che possono essere anche tre o quattro ogni giorno ed esprimere una posizione su diversi argomenti, a volte anche più leggeri. In Italia è un’idea che ha ripreso il Foglio alla sua nascita – quando declinò alcune delle impostazioni formali del Wall Street Journal – e che mantiene ancora oggi. Anche il Post pubblica editoriali non firmati, anche se molto saltuariamente (e con una scelta simile nella gran parte degli articoli).
Ma appunto per questa abitudine agli editoriali non firmati, si è fatto notare questa settimana negli Stati Uniti l’annuncio del maggiore quotidiano dell’Oklahoma – che si chiama The Oklahoman – per cui gli editoriali d’ora in poi saranno firmati. Le cose stanno cambiando, dice l’editoriale sugli editoriali, ed è meglio che i lettori sappiano sempre chi scrive: alla fine anche gli editoriali sono espressione di un autore (in particolare all’Oklahoman li scrive quasi sempre una sola persona). La scelta segue un anno di frequenti polemiche sulla difficile distinzione tra le pagine dei commenti e le altre nei quotidiani americani: dove appunto sono spesso curate da due redazioni separate.
domenica 10 Gennaio 2021
Paolo Attivissimo è un giornalista della Radio Svizzera italiana che da anni guadagna crescenti popolarità online occupandosi con gran competenza e passione di almeno tre argomenti molto seguiti: l’esplorazione spaziale, le automobili elettriche, e le sciatterie e bufale sui giornali italiani. Le prime due le racconta con eccitazione e ottimismo, la terza invece con delusione e sfinimento che diventano spesso collere e insofferenze: quindi non è molto amato nelle redazioni italiane, perché ogni giorno pubblica – soprattutto su Twitter– segnalazioni di strafalcioni miste a insulti espliciti nei confronti dei responsabili.
Questa premessa serviva a spiegare il testo con cui Attivissimo ha commentato una cosa bizzarra successa questa settimana su molti siti di news, ma esemplare per conoscere lo scadimento di attenzioni e controlli diffuso in molte redazioni. È una vecchia branca degli errori giornalistici, quella delle traduzioni sbagliate per scarsa conoscenza delle lingue: a cui in questi anni si aggiunge spesso un uso precipitoso e poco critico dei traduttori automatici.
domenica 27 Dicembre 2020
La storia del podcast Caliphate e i suoi strascichi portano inevitabilmente a paragoni con le redazioni italiane, dove simili rigori, severità e autocritiche sono impensabili: benché casi di invenzione di articoli e fatti capitino e siano capitati. Le due maggiori ragioni per cui storie simili non succedono da noi sono l’indulgenza delle direzioni dei giornali (che tendono a vederle come colpe da occultare invece che da correggere; quando non le hanno addirittura incentivate) ma anche l’omertà generale dei giornalisti: e questa pure è una grande differenza dagli Stati Uniti, dove chi si inventa cose è spesso vissuto dai colleghi come un pericolo e un disonore per la credibilità di tutti, e a essere criticate sono soprattutto le dirigenze che lo consentono. Come è appena successo con Caliphate, i cui limiti erano stati indagati e accusati da molte testate e infine persino dal New York Times stesso.
Un caso anomalo è quindi in Italia l’accusa di questa settimana di Riccardo Romani – giornalista di Sky Tg24 e di lungo curriculum – nei confronti di Maurizio Crosetti di Repubblica a proposito di un celebrato articolo di quest’ultimo sulla morte di Diego Maradona. Romani dice che Crosetti si è inventato molte cose. Crosetti non ha risposto. Al di là del caso puntuale, una disinvoltura con la fabbricazione – soprattutto scrivendo da posti remoti del mondo – è sempre circolata in una parte del giornalismo italiano soprattutto prima che internet permettesse facili verifiche e sbugiardamenti (si legga l’istruttivo romanzo di Enrico Franceschini): oggi è appunto più rischiosa, ma non per merito dei silenziosi colleghi dei falsificatori.
domenica 27 Dicembre 2020
Una storia di questa settimana mostra di nuovo le contraddizioni e inadeguatezze dell’attuale sistema di contributi pubblici diretti ai giornali, di cui abbiamo scritto spesso. La storia è questa, e dovete avere un po’ di pazienza e attenzione perché ha dentro molte storie e cerchiamo di essere sintetici: due anni fa l’allora sottosegretario Crimi sostenne e ottenne l’abolizione della legge che regola i suddetti contributi, all’interno di un generale atteggiamento repressivo del M5S nei confronti dei giornali, che aveva reso la scelta del taglio non limpidissima. La nuova legge prevedeva che i contributi sarebbero stati progressivamente diminuiti fino ad estinguersi nel 2022. Due decreti sostenuti dal successivo governo hanno poi sospeso quell’intervento e differito le scadenze: ma dal 2021 la riduzione avrebbe dovuto iniziare. Invece nel decreto “Ristori” appena approvato è stata inserita una nuova proroga che garantisce la totalità dei contributi fino al 2022 (ovvero la quota relativa all’anno 2021).
Qui ci sarebbero da inserire molte parentesi, attingendo a cose che Charlie ha spiegato in passato. Una è che il contributo statale a un buon servizio pubblico di informazione che non ha più le fonti di autonomia economica di un tempo è una cosa che sarebbe del tutto responsabile e sensata per il funzionamento della democrazia. Un’altra è che adottare dei criteri per cui questo contributo provveda effettivamente a un miglioramento dell’informazione pubblica è difficilissimo. Una terza è che nei fatti i criteri adottati oggi sono in questo senso un fallimento, premiando senza nessuna ragione logica o di valore soprattutto testate che non meritano nessun trattamento di favore rispetto ad altre che quei contributi non li ricevono, e che in alcuni casi hanno sfruttato fino a oggi in modi truffaldini i criteri richiesti per accedere ai contributi. Un’altra ancora è che il 2020 ha di molto aggravato e legittimato le preoccupazioni per la salute economica dei quotidiani.
L’ultima è che il governo attuale si appoggia su due partiti che hanno atteggiamenti speculari ed entrambi sventati nei confronti di tutto questo: il M5S non nasconde le sue insofferenze e i suoi desideri punitivi nei confronti delle testate giornalistiche presso le quali gode di rarissime simpatie (l’unica eccezione è il Fatto), mentre il PD tende a mantenere un atteggiamento prudente e conservativo – e un po’ clientelare – rispetto ai poteri dell’informazione tradizionale e alle loro richieste.
In questo contesto nei giorni scorsi ci sono state trattative e baratti che hanno permesso al sottosegretario Martella di ottenere la nuova proroga dei contributi integrali ma solo di due anni, con il M5S che non ha voluto consentire prolungamenti maggiori. Questo ha molto preoccupato e deluso in particolare il Manifesto, che tra i giornali destinatari dei contributi si trova in due condizioni particolari: di difficoltà economiche storicamente maggiori, e di corrispondenza più legittima ed esatta al criterio che stabilisce i contributi per le “cooperative di giornalisti”, che altri giornali soddisfano assai meno credibilmente con acrobazie societarie.
Martella ha risposto al quotidiano con una lettera che dice in sostanza “siete ingiusti, ho fatto del mio meglio, non vi rendete conto con chi ho a che fare”, il Manifesto sta promuovendo una bellicosa campagna di sostegno, gli altri quotidiani coinvolti stanno più quieti godendosi il bicchiere mezzo pieno del prolungamento dei benefici, che non era scontato.
La cosa più promettente della lettera di Martella è probabilmente la promessa di una riforma generale dei criteri di contribuzione pubblica.
“il governo è al lavoro per formulare una proposta di riforma della contribuzione diretta all’editoria che superi definitivamente la prospettiva dei tagli, introduca elementi innovativi”
domenica 27 Dicembre 2020
Ma è un pezzo importante di quello che sta succedendo a tutta una serie di condizioni acquisite del lavoro giornalistico italiano e rivela la loro attuale fragilità e le loro confuse prospettive. È la storia delle traversie dell’INPGI, l’ente che si occupa delle pensioni di quella particolare categoria professionale che sono i giornalisti in Italia.
Come molti albi professionali in Italia, anche quello dei giornalisti ha infatti un ente previdenziale sostitutivo dell’INPS, con cui garantisce ai suoi iscritti le pensioni e le varie indennità di malattia, gravidanza, disoccupazione. Da qualche tempo l’INPGI è in crisi: nel 2020 chiuderà con il bilancio in perdita per il quinto anno consecutivo, con una perdita di 253 milioni, assai più grave che negli anni precedenti. In questi casi la legge prevede che l’ente venga commissariato, ma un emendamento alla legge di bilancio del 2021 ha prorogato il termine per il commissariamento di 6 mesi. È la terza proroga dal 2019. In questi 6 mesi l’INPGI dovrà studiare piani per il futuro per riportare i conti in ordine, come non ha fatto finora. Il problema principale dell’INPGI sta nel suo funzionamento: l’istituto deve pagare pensioni – a volte anche molto alte – con i soldi versati annualmente dai giornalisti iscritti, che però sono sempre meno e guadagnano meno di un tempo (e quindi versano contributi minori). Dal 2012 al 2019 in Italia ci sono stati 2.509 contratti giornalistici in meno, perché sono di più i giornalisti che vanno in pensione di quelli che vengono assunti stabilmente. E la contraddizione è che se in questi anni si consentono alle aziende giornalistiche in difficoltà maggiori ammortizzatori e prepensionamenti per aiutarle a tagliare costi, quei prepensionamenti poi deve pagarli l’INPGI (ovvero gli altri giornalisti). Tutta questa questione è a sua volta legata a quella più ampia della grande distanza che esiste tra i professionisti in condizioni di consolidato privilegio e quelli in condizioni di contemporanea precarietà e disagio economico.
Le soluzioni finora pensate – contributi di solidarietà sulle pensioni più alte, tagli alle pensioni di reversibilità – bastano a risparmiare appena qualche milione ogni anno. La proposta migliore sembra quella di far entrare nell’INPGI i “comunicatori” che svolgono professioni non esattamente giornalistiche in simili ambiti, ma è difficile stabilire con certezza chi ne faccia parte (non esiste un contratto nazionale dei comunicatori) e anche se nell’INPGI entrassero tutti i comunicatori pubblici immaginati porterebbero 50 milioni in più all’anno, ancora troppo poco. Per giunta, le stesse associazioni dei comunicatori non vedono con favore l’idea di essere associati a un ente di previdenza in difficoltà. Insomma questa proroga di 6 mesi serve più a prendere tempo che a muoversi in qualche direzione. A rischio sono le pensioni future dei giornalisti (per le quali i giornalisti pagano i dovuti e cospicui contributi), e l’opzione più probabile sullo sfondo è che sia l’INPS ad assorbire l’INPGI rivedendone tutti gli attuali funzionamenti e criteri.
domenica 27 Dicembre 2020
L’imbarazzante – per il New York Times – “caso Caliphate” sta avendo ancora sviluppi malgrado l’inaudita ammissione di colpa da parte del giornale sulle insufficienti verifiche fatte sul podcast di Rukmini Callimachi basato in gran parte sulle dichiarazioni inventate di un presunto membro dell’ISIS. Un articolo sul sito di NPR – la radio pubblica statunitense – ha accusato i responsabili del popolarissimo podcast del New York Times, The Daily(celebrato come uno dei più grandi successi giornalistici di questi anni) di avere cercato un’attenuazione delle responsabilità del giornale e una “riduzione del danno” (anche intimidendo altri giornalisti), e la direzione del New York Times di avere affidato loro la divulgazione del problema malgrado fossero noti i loro coinvolgimenti personali con la produzione di Caliphate. Intanto Erik Wemple ha raccontato sul Washington Post come l’autocritica del New York Times non abbia soddisfatto molti nella redazione del giornale, che hanno accusato la direzione di avere trascurato elementi di dubbio sul podcast che erano già emersi al tempo della sua produzione.
(sullo sfondo c’è il famigerato precedente del “caso Jayson Blair” del 2003, ovvero la rivelazione di una serie di plagi e invenzioni da parte di un giornalista del New York Timesche fu allora uno scandalo inaudito)
domenica 27 Dicembre 2020
L'”Osservatorio Permanente Giovani-Editori” è un oggetto misterioso nel panorama del business giornalistico italiano: il mistero si deve all’apparente distanza tra la sua straordinaria visibilità – soprattutto presso alcune testate – e capacità di creare relazioni con importanti figure di potere italiane e internazionali, e la poca concretezza e chiarezza dei suoi risultati, che nelle intenzioni proclamate dovrebbero riguardare la lettura dei giornali da parte dei giovani, appunto. Il tutto sintetizzato nella figura del suo fondatore, presidente e frontman, Andrea Ceccherini e nel suo incessante lavoro di autopromozione soprattutto in occasioni fotografiche accanto a vari “potenti della terra”.
Per molti anni quello che se ne sapeva era che il Corriere della Sera, il gruppo Monrif (che pubblica Nazione, Resto del Carlino e Giorno) e il Sole 24 Ore ne erano i principali sponsor e sostenitori, ottenendone in cambio un grosso lavoro di lobbying perché le scuole adottassero copie dei suddetti giornali da far leggere agli studenti. Poi negli ultimi anni sono successe un paio di cose: è stato rivelato lo scandalo dei dati di copie “gonfiati” del Sole 24 Ore – gonfiati per altre vie, ma le copie date alle scuole e conteggiate come vendute sono finite sotto maggiori attenzioni – ed è uscita un’inchiesta sul Venerdì di Repubblica che ha messo in discussione i risultati accampati dall’Osservatorio con il progetto “Quotidiano in classe” e dipinto il suo fondatore come un capace venditore di fumo e raccoglitore di contributi economici da editori e fondazioni bancarie che verrebbero in cospicua parte dedicati alla prosperità dell’Osservatorio stesso e del ruolo del suo creatore e presidente.
Il presidente Ceccherini ha querelato allora l’autore dell’inchiesta Claudio Gatti insieme all’allora direttore di Repubblica Mario Calabresi e allo studioso di business dei media Pier Luca Santoro, i cui pareri erano citati nell’articolo. La querela sarà discussa a febbraio: ma intanto lo studio Alpa incaricato da Ceccherini (lo stesso studio Alpa divenuto noto in questi anni per le relazioni con il Presidente del Consiglio Conte) aveva anche chiesto la rimozione dal sito di Santoro di due articoli critici dedicati alle attività dell’Osservatorio, e di un terzo che contiene la riproduzione di quello di Gatti, insieme al pagamento dei danni relativi. Questa settimana però il Tribunale Civile di Firenze ha rigettato la richiesta imponendo a Ceccherini il pagamento delle spese legali e definendo le domande poste da Santoro legittime e i fatti descritti reali. Nella sentenza si dice che «l’inefficacia dell’iniziativa “Il Quotidiano in Classe” risulta dai dati».
domenica 29 Novembre 2020
Michele Serra è tornato – nella sua rubrica di sabato su Repubblica – a contestare i contenuti cialtroni offerti da Taboola ai siti che decidono di accettarli (qui la puntata precedente). Ovvero anche la stessa Repubblica, ma non è la prima volta che Serra critica scelte del giornale con la discrezione necessaria al contesto che lo ospita.
Taboola, ricordiamo, è una di quelle piattaforme di pubblicità che distribuiscono sui siti web inserzioni “mimetizzate” con i contenuti. Di un altro servizio simile – Outbrain – fa uso anche il Post, per normali necessità di ricavi pubblicitari, mettendo meticolose attenzioni nel consentire solo banner “presentabili” tra la molta spazzatura ingannevole o morbosa che queste piattaforme tenderebbero a sbolognare in giro (a volte sfugge qualcosa, e accogliamo con gratitudine le segnalazioni dei lettori, intervenendo tempestivamente). Altri siti sono meno rigidi, e Serra ha da ridire.
«La domanda è questa: perché se un giornale, o una trasmissione televisiva, o una persona fisica, si macchia di sessismo (vedi il recente scandalo sul siparietto di Raidue, più cretino che offensivo, “come essere sexy al supermercato”), succede un casino, mentre la pubblicità online è dispensata, non so se per diritto divino o per potere di ricatto, da ogni riguardo nei confronti di Bo Derek, Claudia Pandolfi, eccetera? Secondo poi: chi è Taboola? Chi è, voglio dire, fisicamente? Una trasmissione tivù è il suo conduttore, i suoi autori, il suo editore, un giornale idem, ma come si chiama la persona fisica che mette online le rughe delle dive per prenderle per i fondelli? Di quale speciale esenzione gode?».
domenica 29 Novembre 2020
Alcuni siti di news e giornali hanno raccontato questa settimana un piccolo sviluppo che riguarda un pezzo dell’industria delle news molto ignorato dal grande pubblico ma con un suo cospicuo ruolo: le società di rassegne stampa, o media monitoring con termine più contemporaneo. Sono i servizi che vendono a clienti – di solito aziende o istituzioni pubbliche, ma anche privati di varie visibilità e notorietà – un lavoro quotidiano di raccolta degli articoli che li riguardino. Un tempo era un lavoro concentrato soprattutto sui quotidiani e compiuto manualmente, con sfoglio e ritaglio fisico di pezzetti di carta: oggi è diventato tutta un’altra cosa, con algoritmi e motori semantici che selezionano i contenuti richiesti con grande completezza e raffinatezza, e attingono anche ai più diversi spazi del web, social network compresi. E indirizzandosi anche verso un’analisi di “reputation” dei clienti e non solo di rassegna.
La più grande e famosa di queste aziende si chiama L’Eco della Stampa: un’altra grande è Datastampa, ma ce ne sono poi diverse altre.
Un ulteriore fattore di trasformazione in questi servizi è la sempre più insistente richiesta da parte degli editori dei giornali di ricevere una retribuzione per l’uso e la vendita dei loro contenuti: una questione non dissimile da quella che oppone i giornali a Google e alla sua distribuzione dei loro contenuti. Questa richiesta ha portato a risultati confusi negli anni passati: una società creata apposta dagli editori è riuscita a fare accordi con alcune aziende di rassegne stampa, che però sono stati rifiutati dalle due maggiori. Insoddisfatti, alcuni grandi giornali sono usciti da quel consorzio e hanno cominciato a trattare separatamente. Allo stesso tempo alcune testate hanno avviato contestazioni giudiziarie contro i servizi di rassegna stampa. Questa settimana c’è stato un piccolo accordo, ma che ancora una volta è solo un frammento di una questione che andrebbe trattata collettivamente e con scelte condivise.
venerdì 20 Novembre 2020
Nei giorni scorsi si è molto parlato, tra i giornalisti e i collaboratori dei quotidiani, dell’abbandono di Repubblica da parte di Bernardo Valli, uno dei più stimati e importanti reporter e inviati italiani di sempre. Il Manifesto aveva riferito pubblicamente per primo di una lettera di Valli diretta a Repubblica, i cui contenuti sono stati interpretati da diversi siti di news a partire da alcune deduzioni (in alcuni casi inventando dei virgolettati di Valli): Valli ha comunque 90 anni, ma scriveva ancora sul giornale e sull’Espresso, e la decisione avrebbe potuto essere stata legata solo a questo.
Le deduzioni però non riguardano solo Valli ma più in generale un tema molto presente nelle discussioni recenti sul giornalismo italiano: ovvero dove stia andando Repubblica. È noto infatti il dissenso di Valli rispetto ad alcune posizioni (in particolare favorevoli all’attuale governo israeliano) assunte dal direttore di Repubblica Molinari, e si raccontano aneddoti di irriguardosi interventi del direttore su un articolo di Valli. Insomma, il suo abbandono – benché più discreto di quelli che lo hanno preceduto – è con buona certezza un altro pezzo della storia del progressivo stravolgimento recente di Repubblica (che domenica scorsa il fondatore Eugenio Scalfari ha provato a minimizzare scrivendo che quello che conta ora per Repubblica è avere un editore con le spalle economicamente larghe). L’ulteriore palese conferma della delicatezza del caso Valli è l’indifferenza con cui invece Repubblica – che lo aveva appena celebrato, un attimo prima che arrivasse il nuovo direttore – ha deciso di ignorare l’abbandono di uno dei giornalisti che l’hanno fatta e costruita come Valli. Indifferenza segnalata ieri da Adriano Sofri sul Foglio.
venerdì 20 Novembre 2020
Secondo il giornale online americano The Hill, la pratica degli endorsement ufficiali da parte dei giornali nei confronti dei candidati alle elezioni, che negli Stati Unti è molto più frequente che da noi, è meglio abbandonarla. Intanto perché ha raramente le ricadute desiderate: le testate influenzano molto meno il cambiamento delle opinioni, e di recente gli endorsement hanno soprattutto perso. E poi perché vanno molto a detrimento della credibilità dei giornali in tempi in cui quella credibilità è in precipitoso declino. Funzionano di più e sono utili e convincenti, sostiene l’articolo, nei casi di testate locali dedicate a elezioni locali.
domenica 15 Novembre 2020
Mondadori ha annunciato che a primavera Ernesto Mauri, amministratore delegato dell’azienda, lascerà il suo ruolo. Mauri è in Mondadori da dirigente da quasi trent’anni, con un intervallo prima a La7 e poi coi periodici di Cairo. Ha quasi 74 anni e gli sono riconosciuti successi e risultati in tempi prosperi e in tempi difficili. Negli ultimi anni è stato responsabile di uno spostamento delle priorità dell’azienda verso i libri, che si sta dimostrando oculato (i giornali vanno male, i libri tutto sommato bene), con l’acquisizione di Rizzoli, la cessione di Panorama e altre testate giornalistiche del gruppo e la diminuzione della partecipazione nel Giornale. E anche dell’acquisizione di Banzai Media, il gruppo di siti e testate web che è andato a riempire la storica lacuna di Mondadori sul digitale (Banzai Media aveva una quota nel Post, allora ceduta ai rimanenti soci, ndr).
La sostituzione di Mauri con l’attuale responsabile dei Libri Antonio Porro sarà una variabile rilevante nei destini delle testate giornalistiche che rimangono in Mondadori, tutte in difficoltà ma alcune ancora molto forti nei numeri, soprattutto Sorrisi e Canzoni, Chi e Grazia. Fino all’inizio dell’anno c’era una generica disponibilità a ulteriori cessioni ma il 2020 si è portato via la possibilità di poter ottenere offerte interessanti.
domenica 15 Novembre 2020
Le pagine dei commenti di autori esterni al giornale sui quotidiani americani sono gergalmente note come “Op-Ed pages” (e “Op-Ed” i singoli articoli): un diffuso equivoco chiarito di recente anche in redazione al Post è quello per cui si immagina che la sigla stia per “Opinioni e Editoriali”. Invece no.
Lo spiega tra gli altri un vecchio articolo del New York Times:
“The inaugural Op-Ed page appeared on Sept. 21, 1970. It was named for its geography — opposite the editorial page — not because opinions would be expressed in its columns”.
Vuol dire “la pagina opposta a quella degli editoriali”.
domenica 8 Novembre 2020
Della Gazzetta del Mezzogiorno, il più radicato quotidiano della Puglia e della Basilicata, di storia secolare, era stato dichiarato il fallimento lo scorso giugno, dopo una serie di problemi che avevano coinvolto accuse giudiziarie insieme ad accuse di cattiva gestione nei confronti dell’editore, tutto nel contesto delle difficoltà economiche dei quotidiani tradizionali. Al giornale era stato concesso di continuare le pubblicazioni nella prospettiva dell’acquisto da parte di un nuovo editore. Che non c’è stato, e si dubita che ci sarà, anche per una gestione ulteriormente maldestra delle procedure di messa in vendita: il giornale non è uscito sabato e tra due settimane dovrebbe scadere il suo “esercizio provvisorio”.
domenica 25 Ottobre 2020
La richiesta di poter leggere l’editoriale di Giannini anche senza abbonarsi alla Stampa ha anche rimesso in circolazione un’altra questione, su cui ci sono frequenti insistenze da parte di lettori e potenziali lettori: perché i maggiori giornali non rendono possibile l’acquisto online di una singola copia, o persino di un singolo articolo? Alcuni, come Libero, permettono l’acquisto di una copia chiedendo una registrazione. Che ci risulti, solo il Fatto e Domani lo consentono dalla app con immediatezza senza nessuna registrazione. Ai micropagamenti avevamo accennato qualche settimana fa spiegando le maggiori garanzie di continuità di ricavo offerte ai giornali dagli abbonamenti, e quindi la scelta di disincentivare altre forme di acquisto. Abbiamo chiesto ulteriori risposte e valutazioni a Valerio Bassan, esperto di modelli di business per l’informazione e autore della newsletter Ellissi.
I micropagamenti sembrano un’ottima idea, almeno in teoria. Permettono ai lettori di finanziare una testata senza impegnarsi troppo, di acquistare solo ciò che interessa davvero, offrono agli editori una strada di monetizzazione alternativa agli abbonamenti e alla pubblicità.
Eppure fino a oggi i micropagamenti non hanno mai attecchito. Perché? Ecco quattro aspetti, secondo me.
Per gli editori è molto più remunerativo un abbonato rispetto a chi acquista un singolo articolo. Il calcolo è presto fatto: per rimpiazzare un abbonamento da 90 euro all’anno servono 450 micropagamenti da 20 centesimi ciascuno, oppure 90 da 1 euro;
Se l’obiettivo dell’editore diventa generare 450 transazioni, allora dovrà moltiplicare gli investimenti di acquisizione dei singoli lettori paganti: questo potrebbe portare i giornali a perseguire dinamiche di acquisizione “mass market” simili a quelle della pubblicità. Ci manca solo un nuovo clickbait da micropagamenti;
Come conseguenza logica dei punti precedenti, il costo imposto al singolo micropagamento finirebbe per essere più elevato delle nostre aspettative. Spenderemmo 50 centesimi, o magari 60, per leggere un solo articolo (col rischio maggiore, peraltro, che quell’investimento non ci soddisfi);
Viviamo nell’era della subscription economy: acquistiamo in abbonamento non solo servizi, ma anche beni (dalle automobili alla verdura). Saremmo davvero disposti a spendere 1 euro per acquistare un singolo film su Netflix, piuttosto che 10 per fruire ogni mese di tutti i contenuti della piattaforma? Non sono sicuro che l’esperienza del micropagamento, per l’utente, sia quella migliore possibile.
domenica 18 Ottobre 2020
I lettori del Corriere della Sera hanno ormai familiarità con la proposta dei “viaggi coi giornalisti del Corriere”, spesso pubblicizzata sulle sue pagine. È un altro creativo esempio della necessità di cui sopra di arricchire le opportunità di ricavo sfruttando il capitale di contenuti o di competenze e visibilità delle testate. In RCS l’idea è nata dall’esistenza di un’agenzia di viaggi che è una società interna al gruppo, il “Dove Club”: e che permette di gestire tutti gli aspetti di un viaggio che altri giornali che vogliano fare la stessa cosa devono appaltare all’esterno (il Giornale, per esempio). La testata ci mette la presenza di un suo giornalista e la sua capacità di costruire programmi di viaggio interessanti in forza delle sue relazioni e opportunità (lo fanno lo stesso mensile Dove, il Corriere e IoDonna). Ed è un business che funziona: i gruppi sono di 20-30 persone (età media di solito alta, come quella dei lettori del Corriere e per via della possibilità di spesa), i prezzi non economici, ma la domanda c’è. In quest’anno difficile per i viaggi le mete sono state ridimensionate, ma in questi giorni sono proposti viaggi a Roma, in Sicilia, in Sardegna.
domenica 18 Ottobre 2020
Non basta il caso Callimachi, al giornale più importante e ammirato del mondo. Un opinionista ha criticato nella autonoma sezione dei commenti il celebrato progetto “1619” del giornale, dedicato a una revisione della storia degli Stati Uniti che superi le rimozioni sulla schiavitù e sul suo ruolo. Progetto che ha vinto premi, ha influenzato il dibattito, ma è stato anche molto attaccato, e pure da Donald Trump, diventando un pezzo importante del lavoro di “militanza” civile del New York Times di questi anni. Ma questa settimana Bret Stephens si è associato alle critiche, contestando sullo stesso New York Times la confusione tra il lavoro degli storici e dei giornalisti, e i suoi pretesi conseguenti errori in 1619. È intervenuto lo stesso direttore del giornale Dean Baquet, con un commentoprotettivo del progetto e della sua responsabile, e piuttosto furioso.
Negli stessi giorni, nel suo piccolo, il critico teatrale da 27 anni del New York Times ha annunciato che lascerà il giornale indicando in un commento del direttore sull’inutilità del suo ruolo una delle ragioni.
Tutto questo segue altre polemiche interne diventate molto pubbliche nei mesi passati, e insomma sono giornatine, al New York Times.
domenica 11 Ottobre 2020
La trattativa per la vendita dei quattro quotidiani locali del gruppo GEDI, di cui era uscita notizia appena dieci giorni fa generando grandi allarmi nelle redazioni del gruppo e proteste per come fosse stata tenuta nascosta, si è conclusa prima ancora che i timori delle stesse redazioni potessero organizzare qualunque forma di resistenza e voce in capitolo. Venerdì GEDI ha annunciato la cessione di Tirreno, Nuova Ferrara, Gazzetta di Modena e Gazzetta di Reggio a una società guidata dall’imprenditore Alberto Leonardis, che aveva già acquistato da GEDI il Centro di Pescara quattro anni fa, salvo poi cederlo. Come avevamo spiegato la settimana scorsa, sono circolate ipotesi che la cessione possa avere a che fare con una necessità – per le regole antitrust – di diminuire la dimensione del gruppo in vista di progetti di aumentarla entrando nella società editrice del Sole 24 Ore. Ma a queste voci non sono state aggiunte possibili conferme da nessuna parte in causa.
L’unica indicazione certa per il futuro è che la nuova proprietà di GEDI si mostra intenzionata a interventi drastici, rapidi e con poche esitazioni o confronti, rispetto a quelle che ritiene le priorità economiche dell’azienda.
domenica 4 Ottobre 2020
Anche nel Regno Unito si sta ponendo la questione degli obblighi per legge di pubblicità “legali” degli enti pubblici: in particolare quelle che riguardano bandi e avvisi delle amministrazioni locali.
Avevamo parlato del tema qualche settimana fa, e di come sia diventato anacronistico che per una maggiore informazione dei cittadini e delle imprese coinvolte, e una maggiore trasparenza, si chieda agli enti pubblici di pubblicare avvisi di questo genere sui “quotidiani”, quando ormai i suddetti obiettivi si raggiungono in maniera più duratura, capillare, efficace ed economica (per il “pubblico”) utilizzando i canali online: siano essi siti istituzionali, social network, o ancora siti di news, dove la visibilità garantita è maggiore e più prolungata.
L’adattamento di buon senso di queste regole è oggi frenato dagli editori di carta, che comprensibilmente temono la perdita dei ricavi – esigui, ma tutto è prezioso di questi tempi – che viene da questi obblighi. Ora il governo britannico sta pensando di intervenire, ma i giornali di carta – soprattutto locali – sono molto allarmati e combattivi.
“The Government published the Planning for the Future white paper in August, setting out ways it could modernise the planning process including by removing the requirement for local authorities to print statutory notices in local newspapers in a shift to more online spaces.”
domenica 4 Ottobre 2020
Abbiamo scritto molto dei quotidiani e dei siti di news, ma i “giornali” sono anche tanto altro. Gli altri di carta sono ancora chiamati “periodici”, benché dentro questa categoria ci siano condizioni molto diverse. Ma una cosa che li avvicina è la loro condizione nei confronti del cambiamento digitale. A differenza delle testate quotidiane che, per natura della loro copertura appunto “quotidiana” delle news, hanno creato le loro versioni web in forte sintonia con la funzione di quelle di carta originali, i settimanali e i mensili hanno ruoli completamente diversi per i lettori rispetto a ciò che può offrire un sito web. I siti web dei periodici non hanno nessun rapporto con la periodicità delle loro testate di carta. Ma questo è solo un elemento delle molte perdite di ruolo dei periodici di cui nelle prossime settimane parleremo più puntualmente. Per oggi introduciamo questo argomento e lo confortiamo con qualche numero su quanto il settore sia stato travolto dalle trasformazioni digitali e culturali di questi anni. Questi sono i dati di vendita a luglio dei più noti settimanali, e le perdite percentuali rispetto al 2019 e al 2015 (dati ADS).
Dipiù 418mila (-7%/-29%)
Sorrisi e canzoni 412mila (-5%/-27%)
Gente 212mila (-3%/-16%)
Famiglia Cristiana 201mila (-10%/-38%)
Espresso 191mila (-18%/+16%) nel 2015 non era ancora un allegato di Repubblica
Oggi 191mila (-26%/-33%)
Chi 149mila (-17%/-50%)
Diva e Donna 147mila (-22%/-40%)
Intimità 139mila (-8%/-30%)
Donna Moderna 112mila (-22%/-58%)
Grazia 109mila (-15%/-43%)
Vanity Fair 96mila (-15%/-50%)
Panorama 58mila (-24%/-71%)
domenica 27 Settembre 2020
Praticamente tutto quello che riguarda i contenuti dei giornali, le cose che decidono di raccontare e come, discende da valutazioni economiche: è sempre stato così – i giornali sono prodotti commerciali, pur con una variabile vocazione di servizio pubblico – ma in questi tempi di crisi dei loro ricavi, le considerazioni commerciali stanno prendendo maggiore priorità e si estendono a pagine e settori che ne erano più risparmiati.
Queste valutazioni prendono in considerazione le opportunità sulle due maggiori fonti di ricavo dei giornali, che sono rimaste le stesse dei secoli precedenti: i lettori paganti e la pubblicità. La prima delle due fonti di ricavo era stata data per morta con internet e la gratuità di tutto, ma ha invece avuto una piccola ma preziosa resurrezione negli ultimi quattro anni circa: e vedete tutti che oggi non c’è giornale che non si sia dedicato a convincere i lettori online – con inviti o barriere, carote e bastoni – a pagare qualcosa in qualche modo. La pubblicità invece non aveva mai smesso di essere il modo prevalente di sostenere economicamente il lavoro e le spese dei giornali, ma i cambiamenti digitali hanno ridotto enormemente la misura dei ricavi possibili, ed è una misura che continua a contrarsi.
Il risultato è che in questo momento i giornali si trovano a dover sfruttare due opportunità di ricavo che si muovono in gran parte in direzioni opposte: una – i lettori paganti – è in crescita ma rende meno (soprattutto per le grandi testate) mentre l’altra – la pubblicità – rende tuttora di più ma è in declino; e soprattutto una richiede un investimento sulla qualità, sulla credibilità, sulla fiducia dei lettori, sull’originalità concorrenziale dei contenuti, mentre l’altra – la pubblicità – ha basato da tempo i suoi risultati sulla quantità, sui numeri, sui clic, sul traffico occasionale e di lettori passeggeri, come anche su contenuti giornalistici utili o compiacenti per gli inserzionisti più che per i lettori.
(non è completamente vero: ci sono ricavi pubblicitari che derivano dalla credibilità della testata e dalla sua capacità di costruire contenuti e formati pubblicitari originali e attraenti, ma riguardano ancora una quota esigua e illuminata degli investimenti).
Questo è un report del Reuters Institute appena uscito, su come questa scelta (“pivot to paid” significa “buttarsi sui contenuti a pagamento”) influenzi tutto il lavoro dei giornali e anche quello che poi leggeremo o non leggeremo:
“This ‘pivot to paid’ has resulted in significant changes to how the news organisations approach their editorial products and distinguish value-added journalism, leading to new newsroom roles and routines, content-creation and management strategies, and tactics for platform distribution”.
Sarebbe facile dire che la cosa più saggia sia appunto investire sulla prospettiva più promettente sul lungo, e darle priorità: ma rischiare di sacrificare i ricavi pubblicitari tuttora importantissimi legati ai gran numeri di traffico, alle loro dinamiche, e al tipo di contenuti di minor qualità che spesso li determinano, è una cosa che si possono permettere – tra le grandi aziende giornalistiche – solo quelle che abbiano spalle economicamente molto larghe capaci di sopportare un periodo di perdite maggiori (al New York Times stanno ripensando il rapporto con la pubblicità nel lungo periodo). Non è facile, insomma, essere editori di giornali di questi tempi: e nemmeno direttori di giornali.
Fine di questo prologo.
domenica 27 Settembre 2020
Chi ha visto The Post – il film – si ricorda della delicata questione dell’amicizia tra l’editrice del Washington Post e il ministro della Difesa McNamara, e delle ricadute sugli articoli del Washington Post (lo stesso direttore del giornale era stato amico del presidente Kennedy).
Nei giorni scorsi c’è stato un dibattito per addetti ai lavori, ma interessante per tutti, sulla rivelazione da parte della giornalista Nina Totenberg di essere stata per anni molto amica della giudice di Corte Suprema Ruth Bader Ginsberg, morta la settimana scorsa. Totenberg lavora per la rete radiofonica pubblica NPR ed è da mezzo secolo la sua responsabile ed esperta sulla Corte Suprema: alla morte di Ginsberg ha scritto un bel pezzo su di lei e sulla loro amicizia, una grande e intima amicizia.
Ma diversi commentatori hanno scritto e riflettuto sulla rivelazione, chiedendosi se sia stato un comportamento corretto occuparsi per cinquant’anni di raccontare le notizie sulla Corte con questo tipo di potenziale pregiudizio favorevole a Ginsberg, e di coinvolgimento, e se NPR non avrebbe dovuto assegnare quel settore a qualcun altro.
“The relationship raises an old journalistic question: Can a reporter, committed to neutrality and balance, fairly cover a public figure with whom they have a close friendship? Does such a relationship present a conflict of interest, or the appearance of one, that might lead readers, viewers or listeners to question whether a reporter is slanting his or her presentation to favor a friend?”
La questione delicata e interessante per i lettori è che probabilmente il problema non può essere risolto affidandosi a una totale trasparenza o a un “disclaimer” (come ha conclusogiovedì anche la public editor* di NPR, secondo la quale “se stai facendo bene il tuo lavoro lo decidono i lettori, una volta che hai dato loro tutti gli elementi”): è facile immaginare la perdita di credibilità che inevitabilmente si crea nella testa di un lettore nel momento in cui è esplicitamente informato di una relazione o un coinvolgimento del giornalista con quello di cui scrive. L’alternativa è accettare che venga taciuto, e dare credito alla coscienza del giornalista e alla sua capacità di separazione dei due ruoli. È sempre tutto molto complicato, e ci sono variabili in ogni caso. Ma in un giornale è sempre meglio evitare di mettere i giornalisti in situazioni simili.
domenica 13 Settembre 2020
È saltata la fusione tra Taboola e Outbrain di cui avevamo parlato qualche settimana fa. Sono le due grandi società che gestiscono soprattutto quelle inserzioni pubblicitarie familiari a tutti che si trovano di solito in coda alle pagine web di molti siti di news, in quei box disegnati per sembrare contenuti giornalistici della testata stessa, ma spesso di bassissima se non ingannevole qualità, e basati soprattutto sul clickbait (qui una spiegazione del clickbait: è il modo con cui vengono chiamati i titoli che attirano ingannevolmente le curiosità dei lettori, occultando o travisando la vera natura degli articoli).
domenica 13 Settembre 2020
In una delle frequenti fasi di tensione tra il M5S e i giornali degli ultimi anni (tensione anch’essa attenuata di recente, come molte altre delle anomalie di quel partito), alcuni suoi esponenti minacciarono come ritorsione di approvare degli interventi legislativi per ridurre non solo i cosiddetti contributi diretti e indiretti ai giornali (quelli indiretti sono agevolazioni varie soprattutto al settore della carta stampata di cui beneficiano tutti), ma anche di abolire quella forma ulteriormente indiretta di contributo che sono le inserzioni pubblicitarie prescritte dalla legge per le comunicazioni da parte di enti e amministrazioni pubbliche: quelle più frequenti e familiari a chi sfoglia i quotidiani sono i bandi di gara pubblici, poi ci sono avvisi diversi che si ritiene corretto abbiano estesa pubblicità tra i cittadini e gli interessati e non restino confinati ai documenti amministrativi; e anche la pubblicazione delle sentenze processuali, che ha altre regolamentazioni ma che si riferiscono in molti casi sempre alla carta stampata.
Sono casi spesso diversi tra loro, ma in prevalenza sono imposti o da leggi specifiche sulla comunicazione pubblica di alcuni atti, o da leggi specifiche sulla quota di investimenti che le amministrazioni devono destinare alla pubblicità (e ci sono state sanzioni in passato per quelle che non l’hanno rispettata).
Per farla breve: lo Stato ritiene che i giornali siano un servizio pubblico utile alla comunicazione “ufficiale” e li ha inclusi formalmente tra i propri canali di informazione, al tempo stesso creando una fonte di ricavo pubblicitario garantito per i giornali stessi (stimato negli anni scorsi come il 10% circa dei ricavi pubblicitari).
Al di là degli interessi propri e vendicativi del M5S, il problema è che l’utilità di queste comunicazioni pubbliche – così come sono concepite – è diventata anacronistica: in quanto continua a considerare soltanto l’informazione su carta e non quella online, laddove la seconda sarebbe oggi molto più efficace per questo tipo di comunicazioni. Perché le persone ormai si informano molto di più online, perché i contenuti online hanno una permanenza molto maggiore ed efficace, perché sarebbe un risparmio prezioso per gli enti pubblici. Lo aveva segnalato a un certo punto il governo Renzi in maniera sommaria (ovvero suggerendo di limitarsi a usare i siti istituzionali, poco visibili e visitati, che sarebbe un ripiego inadeguato), ma si è persa a causa di resistenze e campagne delle grandi testate; e anche della bassa priorità, in termini di consenso, di una scelta la cui utilità i cittadini percepiscono poco. Però sarebbe un cambiamento con tutte le ragioni del mondo, comunicare meglio, comunicare a più persone, con costi e sprechi ridotti.
Fine di questo prologo.
domenica 6 Settembre 2020
Non è una questione nuova, quella delle possibili contraddizioni tra la comunicazione personale dei giornalisti e il loro ruolo di rappresentanti della loro testata, quando non ne sono i direttori. Dai social network in poi, la libertà dei singoli giornalisti di esprimere delle opinioni è entrata spesso in conflitto con questa o quella linea generale dei loro giornali: sia su determinate questioni, che in generale sull’opportunità o sul modo di comunicare ed esprimersi. Ci sono giornalisti che hanno una notorietà oppure una visibilità online per cui i lettori li riconoscono col loro nome e cognome prima di tutto, mentre altri vengono percepiti come “di quel giornale”: lo sventato tweet di Paolo Berizzi di cui parlammo la settimana scorsa è stato citato da molti dei suoi critici come proveniente in ogni modo “da Repubblica”, ma è solo l’esempio più recente e discusso.
Negli anni passati diverse testate internazionali hanno stabilito delle linee guida per i loro giornalisti sui social network, ma molte di quelle impostazioni sono diventate datate e rigide con la maggiore frequenza quotidiana e continua dell’uso degli stessi social network da parte di tutti. Al Post non abbiamo mai stabilito niente in questo senso, potendo contare – con ottimi risultati, anche se qualche volta un tweet di cui sarebbe stato meglio fare a meno è scappato anche ad alcuni di noi – su una idea condivisa di quali siano i più saggi e prudenti comportamenti pubblici e quale sia il bene del Post. Ognuno è responsabile del suo account personale e lo usa come account personale.
La questione è tornata a essere posta dal nuovo direttore generale di BBC, che dovendosi impegnare per ricostruire un’immagine “imparziale” di BBC in tempi in cui la rete è piuttosto sotto attacco, ha detto ai suoi che “Se volete fare gli opinionisti o gli attivisti impegnati sui social media è una scelta legittima, ma allora non dovete lavorare per BBC”.
Di certo suona come una limitazione non tanto alla libertà – le libertà conoscono sempre dei limiti e dei compromessi – ma alla qualità e alla ricchezza dell’informazione e del dibattito pubblico: è vero però che sono tempi in cui le strumentalizzazioni da parte dei critici pregiudiziali sono molto facili e pericolose, e quindi le prudenze sono comprensibili. Sta anche questo, in un suo spazio particolare, nel discorso sul sempre più grosso repertorio di cose che “è diventato più complicato dire”.
Fine di questo prologo.
domenica 30 Agosto 2020
I giornali hanno prosperato per qualche secolo guadagnando con le vendite delle copie di carta e con i ricavi della pubblicità.
Poi internet ha contratto enormemente la prima fonte di ricavo, offrendo gratis articoli e notizie a chi prima li pagava.
Allora i giornali hanno immaginato che internet potesse offrire un’occasione di nuovi e maggiori ricavi pubblicitari: la seconda fonte di ricavo. E hanno lavorato per aumentare il più possibile le visite sui loro siti, perché la pubblicità online conta i numeri e poco il resto.
Ma circa 5/6 anni fa si è capito che la pubblicità online sarebbe diventata un ricavo sempre minore, invece che crescente e promettente. Per diverse ragioni ma soprattutto per il duopolio di Google e Facebook che ne ha ridotto il valore e i ricavi per singola inserzione.
Quindi in tutto il mondo si è andati a recuperare l’altra fonte di ricavo che era stata data per persa: i lettori.
Nel frattempo era in corso una piccola inversione di tendenza nella disponibilità di una nicchia di lettori a pagare di nuovo per l’informazione: spinta anche da due grossi eventi mondiali che avevano mostrato i rischi dell’idea che l’informazione gratis e online fosse tutta buona e uguale, e non ci fossero problemi di qualità. Brexit e l’elezione di Trump.
Quindi da circa quattro anni a questa parte tutti i giornali del mondo – disperando di poter invertire il declino economico dei prodotti di carta – hanno creato sistemi e modi diversi di farsi pagare dai lettori online: “abbonamenti”, con funzionamenti vari.
Oggi quindi i ricavi della quasi totalità dei giornali sono così distribuiti: una quota ancora importante di vendite della carta, in calo precipitoso e apparentemente inesorabile; una quota ancora importante di ricavi pubblicitari, stabili o in declino per la maggior parte delle testate, sia online che su carta; una quota crescente ma sempre minoritaria di abbonamenti online (altri sistemi di ricavo minori sono sfruttati da alcune testate, ma nessuno è abbastanza universale).
L’ultima voce è in questo momento la sola promettente ed è quella a cui i giornali si stanno dedicando di più – vediamo tutti che ormai pochissimi giornali offrono gratis tutti i loro articoli – ma intanto soprattutto i più grandi e i più in difficoltà non possono trascurare di limitare anche il più possibile il declino dei ricavi pubblicitari.
Da queste due necessità nasce una contraddizione rilevante e interessante, perché i meccanismi che le alimentano sono opposti: maggiori visite e clic, e quindi maggiori ricavi pubblicitari, sono ottenuti con scelte completamente diverse da quelle che alimentano un rapporto di fiducia e apprezzamento dei lettori, necessario a incentivare abbonamenti e sostegni.
(Poi ci sono ovviamente complessità e articolazioni maggiori, ma l’abbiamo fatta telegrafica).
domenica 30 Agosto 2020
Quando qui diciamo “giornali” è per definire tutto il complesso dei mezzi di informazione, senza dover usare un’espressione così grigia e artificiosa come “mezzi di informazione”: ma parliamo di quotidiani e di periodici, di programmi di informazione in radio e in tv, di siti di news, e in generale di luoghi in cui si pratichi del giornalismo. In Italia, ad avere maggior potere nell’orientare l’informazione delle persone è tuttora la televisione in termini quantitativi, mentre sono i quotidiani in termini di rilevanza e ricadute sugli altri mezzi di cui dettano spesso l’agenda (dei programmi di radio e tv, per esempio).
Questo ci porta a una breve utile mappa dei maggiori quotidiani nazionali italiani, stando ai numeri della loro diffusione, utile a orientarsi e a valutare di cosa parliamo quando parliamo di quotidiani.
Ci sono quattro quotidiani cosiddetti “seri” (soprassediamo ora sulla qualità discontinua di questa serietà se confrontata con altri paesi paragonabili e con un’idea classica di rigore giornalistico): Corriere e Repubblica, i due quotidiani maggiori in competizione tra loro da quarant’anni; la Stampa, terzo incomodo con le peculiarità di essere molto più radicato sulla sua regione degli altri due, e di essere entrato da pochi anni nello stesso gruppo editoriale di Repubblica; il Sole 24 Ore, in una sua partita autonoma definita dall’orientamento editoriale dedicato soprattutto ai temi economici, finanziari e normativi (provò dieci anni fa a mettersi più in competizione sui temi degli altri tre, con la direzione di Gianni Riotta, ma rientrò nei suoi ranghi rapidamente).
Poi c’è un secondo gruppo di quotidiani che invece si somigliano per un approccio più sfacciatamente fazioso, partigiano, aggressivo nel promuovere i propri contenuti e nel mobilitare i lettori contro diversi tipi di “nemici”: sono i tre nati dalla stessa costola – Giornale, Libero, Verità – e il Fatto (nella stessa categoria sta anche il Tempo di Roma, ma accantoniamolo in quanto locale, per quanto di località capitale).
Tra i quotidiani più letti c’è anche Avvenire, quotidiano cattolico con un suo posizionamento particolare, e c’è il Messaggero, per cui vale il discorso “locale” del Tempo.
Gli altri quotidiani più letti – sportivi a parte – sono quasi tutti locali, a cominciare dai tre del gruppo Riffeser: Nazione, Carlino, e Giorno. Restano da citare, malgrado i loro numeri molto più piccoli, il Foglio – per una rilevanza negli ambiti della politica, dell’informazione e delle “classi dirigenti” che ha echi maggiori della sua diffusione – il Manifesto, per tradizione e presenza nella storia politica e dell’informazione anche se oggi minime, e ItaliaOggi, quotidiano di finanza e business, che insieme a questi ultimi, a Libero e ad Avvenire beneficia di cospicui finanziamenti pubblici.
domenica 23 Agosto 2020
È al pettine un nodo importantissimo dei cambiamenti e delle prospettive che riguardano la professione dei giornalisti, il business delle aziende di informazione, e altre cose che hanno grosse ricadute sui giornali così come li leggono i lettori senza conoscere quello che ci succede dietro. Riguarda i contratti dei giornalisti.
Proviamo a spiegarla più brevemente possibile con qualche semplificazione. In Italia la professione giornalistica è molto regolamentata, in modi che dovrebbero creare una selezione rispetto alla qualità del lavoro giornalistico, e una protezione per chi lo svolge: l’elemento più visibile di questa condizione non comune a molti altri paesi è l’esistenza di un ordine professionale, come per altre categorie di grande specializzazione e grande responsabilità (gli avvocati, i medici, gli ingegneri). Un altro elemento particolare è che esista un sindacato unico dei giornalisti che si chiama FNSI, che li rappresenta nei confronti delle aziende, che stanno invece – nella gran parte, soprattutto quelle grandi – dentro la FIEG, la Federazione degli editori.
Pochi anni fa, un gruppo di editori di giornali locali e digitali si è unito in una nuova associazione, che si chiama USPI: e ha ottenuto – trattando con la FNSI – di poter applicare un nuovo tipo di contratto alle assunzioni dei giornalisti: meno costoso per i giornali e meno oneroso per aziende più piccole e in tempi meno floridi di una volta. Qui va detto che i contratti giornalistici tradizionali sono molto “protetti”: offrono una serie di garanzie, di minimi, e di scatti automatici di anzianità, che risalgono ad anni in cui i giornali guadagnavano molto dal lavoro dei giornalisti e questi ultimi meritavano una parte di questi successi. Sono contratti che oggi sono diventati per le aziende dei costi spesso problematici, soprattutto per quelle piccole, o soprattutto quelli di giornalisti con anzianità maggiori. Il contratto USPI consentiva quindi a progetti editoriali nuovi o più piccoli (locali o digitali, appunto) di assumere giornalisti regolarmente a dei costi più tollerabili, piuttosto che di tenerli in condizioni precarie o illecite. È un contratto oggi utilizzato da molti giornali solo online, che grazie a questo riescono a contenere le difficoltà odierne di avviare nuovi progetti nel settore (non dal Post che applica il contratto tradizionale FNSI, ndr).
Bene, questo esperimento aveva una durata di due anni, prima di essere ridiscusso e rinnovato: è scaduto qualche mese fa ma adesso la FNSI sembra non volerlo rinnovare. Le ragioni non sono state esplicitate con molta chiarezza, ma possono essere diverse: il timore che alcune testate che si sono avvalse del contratto USPI siano diventate oggi più grandi e prospere di quanto implicato dalla diversità dei contratti; la contrarietà degli editori FIEG che, trovandosi oggi a dover ridurre molti costi, vedono nei giornali che hanno su questo maggiori libertà una sorta di concorrenza sleale; l’ipotesi che i nuovi contratti USPI non siano poi molti, ma su questi numeri ci sono dissensi tra le parti.
Comunque stiano le cose, la scadenza del contratto ha messo le aziende USPI e i loro giornalisti in una specie di “terra di nessuno” con tutta una serie di grosse complicazioni per le une e per gli altri che non vi elenchiamo qui. Ma tutta questa storia, dicevamo all’inizio, è un pezzo importante della questione dello squilibrio attuale tra i costi di fare un giornale e i suoi ricavi, e del rischio che delle soluzioni sensate e possibili si approfitti sempre qualcuno (come col finanziamento pubblico dei giornali di cui dicemmo qualche settimana fa): un pezzo da cui poi discende la qualità delle cose che leggete sui giornali, e del lavoro fatto dai giornalisti.
martedì 18 Agosto 2020
Linkiesta è un sito di news nato nel 2010 (poco dopo il Post) col sostegno di una estesa compagine di soci milanesi, che in dieci anni ha avuto periodi diversi e momenti di difficoltà economiche cercando di portare online un’idea di giornale tradizionale di attualità e politica. Un anno fa ha cambiato il suo quarto direttore, che ora è Christian Rocca, già a lungo al Foglio, poi al Sole24Ore e direttore del magazine IL, ultimamente commentatore per la Stampa. Rocca ha saputo arricchire una redazione ridotta coinvolgendo molti collaboratori sia nuovi che provenienti dal giornalismo più conosciuto, e ha spinto molto il sito sull’informazione e sul commento politico, con polemiche e giudizi vivaci: e oggi Linkiesta è sulla mappa del dibattito politico (questo mese ha ospitato interventi sul PD di Giorgio Gori e Goffredo Bettini, tra gli altri) pur mantenendo dimensioni ridotte.
Ma soprattutto sta per la prima volta aggiungendo idee nuove alle necessità di trovare ricavi non solo pubblicitari (quelle idee secondarie ma spesso preziose a cui abbiamo alluso parlando dei modelli di business), e ha creato l’anno passato un festival milanese di politica con ospiti importanti, sponsor e la collaborazione di Sky Tg24. Prima dell’estate invece ha provato a fare un esperimento di carta, usando i contenuti del sito e un’attenzione alla confezione grafica, e promuovendolo presso la crescente comunità di lettori affezionati. Il giornale è distribuito a Roma e Milano ma viene spedito a chi lo acquisti online, e ha quindi costi di produzione molto limitati: il primo esperimento ha ottenuto dei moderati utili. Un secondo numero, dedicato al referendum, sarà disponibile dal 4 settembre.
È un esempio di un tentativo che stanno facendo diversi giornali online, di tornare offline a recuperare altri possibili ricavi: col merchandising, coi prodotti di carta, con gli eventi, con i corsi.30
domenica 16 Agosto 2020
Un articolo sul Foglio di Giulia Pompili ha raccontato in modi in cui la propaganda di stato cinese sta ottenendo indulgenze e accoglienze sui giornali italiani.
“alcune associazioni pro-Cina in Italia danno ai giornali online articoli pronti, in italiano, praticamente traducendo le notizie ufficiali dei media statali. E lo fanno pure pagando lo spazio virtuale concesso, ma senza il necessario avviso di “articolo a pagamento”. Il Foglio ha parlato con alcune persone che hanno ricevuto questo tipo di offerta, che poi sono state rifiutate. Il modello di business sembra molto simile a quello intrapreso dalla versione online del Giornale: se da un lato il quotidiano cartaceo è su una posizione molto anti-cinese – in linea con quella di Silvio Berlusconi – il sito internet pubblica periodicamente articoli di Cinitalia, a cura della sezione italiana di Radio Cina Internazionale, l’emittente radio della China Media Group di Shen Haixiong. Il gruppo, nel marzo del 2019, in occasione dell’ingresso italiano nella Via della Seta, ha firmato memorandum d’intesa con la Rai, con Class editori, e ha una partnership con TgCom24″.
“Nel marzo del 2019 l’Ansa, la principale agenzia italiana, cioè fonte primaria per il mestiere del giornalista, ha firmato un accordo con l’agenzia statale cinese Xinhua che prevedeva niente di più che la traduzione delle notizie cinesi. Dopo un po’ di polemiche legate al caso, l’agenzia è stata costretta a mettere sotto ai lanci l’avviso: responsabilità editoriale di Xinhua. Una questione economica slegata dal lavoro redazionale, visto che da sempre l’Ansa è considerata tra le più autorevoli fonti d’informazione sulla Cina. Eppure resta un problema: avere una linea coerente nei confronti di un tema di politica estera importante fa parte dell’autorevolezza di un prodotto editoriale, ed è per questo che molti giornali stranieri, negli ultimi anni, hanno deciso di interrompere tutte le collaborazioni con i media cinesi”.
domenica 9 Agosto 2020
I direttori maschi dei trenta quotidiani più letti in Italia sono ventotto. I sette telegiornali delle maggiori reti televisive sono diretti da maschi. I cinque giornali online più seguiti hanno cinque direttori maschi (anche il Post).
Se si prendono in considerazione gli altri spazi di influenza – quelli dei commenti, delle opinioni, degli editoriali – la situazione migliora di poco: la prevalenza dei maschi tra gli editorialisti, tra le “firme” famose e assidue, nelle pagine dei commenti, supera stabilmente i tre quarti (6 su 65 in questa pagina di “Firme” del Corriere, una su sette blogger in homepage sul Post)
In anni di dibattiti sulla necessità di maggior diversità di genere negli ambiti più vari, e di maggior accesso a ruoli di rilievo e influenza da parte delle donne, un contesto che per definizione si immagina aggiornato ed evoluto come quello dei giornali non ha molti uguali nell’esclusione delle donne dai ruoli di maggior potere: e le donne ci sono eccome, nei giornali.
Due tra le spiegazioni possibili sono: una maggiore inclinazione delle redazioni giornalistiche a rigenerare se stesse e i propri gruppi dirigenti (se prendiamo i condirettori e vicedirettori operativi, la situazione si ripete e aggrava), proprio perchè luoghi “di cultura” più ancora che imprenditoriali, in cui affinità e clan prevalgono sulle capacità; e un’autoassoluzione che esenta i giornali dalla critica destinata dagli stessi giornali ad altri contesti troppo maschili (ma aggiungiamo anche lo spostamento verso destra e verso posizioni conservatrici del panorama dei giornali italiani). Ma forse c’è anche qualcosa di stabilmente “maschile” in come siamo abituati a pensare gli spazi dei commenti e delle opinioni.
Le due direttrici sono Agnese Pini alla Nazione e Nunzia Vallini al Giornale di Brescia, decimo e ventottesimo quotidiano per diffusione.
domenica 9 Agosto 2020
C’è un articolo interessante e inquietante sul bimestrale americano Current Affairs che spiega come a peggiorare il problema della diffusione di informazioni false, di propaganda, non verificate, si aggiunga quella che in realtà è negli ultimi anni diventata la prospettiva più preziosa per la sopravvivenza dell’informazione di qualità: ovvero tornare a fare pagare i lettori.
Il risultato indesiderato dello spostamento verso le formule di abbonamento è che oggi la gran parte dei giornali più autorevoli e affidabili si possono leggere solo, o in gran parte, pagando: mentre intorno rimane gratis a disposizione di tutti un’enorme quantità di informazioni mediocri, false, pericolose.
L’articolo è intitolato “La verità è a pagamento, ma le bugie sono gratis”.
In sostanza, la riflessione pone di nuovo la questione del servizio pubblico fornito dall’informazione (ne parlavamo la settimana scorsa): servizio di cui così beneficerebbe solo chi sceglie di pagare, o chi si può permettere di farlo.
La terza via, ma di cui non è ovviamente garantito il successo per tutti (è legata a un investimento molto intenso e dedicato al rapporto di fiducia e complicità coi lettori) è quella adottata dal Guardian – e dal Post, incidentalmente – che ha costruito un sistema di “abbonamenti” senza paywall: in cui gli abbonati sostengono il giornale senza esservi costretti e senza che gli articoli – e la possibilità di essere meglio informati – siano preclusi agli altri lettori.
Lo stesso argomento lo usa per sé Current Affairs:
“We can’t afford to keep our reach to those who like us so much that they are willing to pay money to listen, because then the free bullshit wins”.