Charlie

Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.

domenica 26 Giugno 2022

Ancora da Genova

Il sito Professione Reporter ha raccontato le nuove proteste dei giornalisti del Secolo XIX – storico quotidiano genovese e ligure pubblicato dall’editore GEDI – rispetto alle riduzioni di risorse e alle vaghe prospettive del giornale, di cui avevamo già scritto la settimana scorsa.
” Ciò che preoccupa la redazione, infatti, è che con l’offerta promozionale di 1 euro al mese per i primi tre mesi e poi 3,99, si dovrebbero fare almeno 200-300 mila abbonamenti per coprire le perdite dell’edizione di carta. “Quanti anni ci vorranno per raggiungere quel traguardo?”, è l’interrogativo che si pone oggi la redazione del Secolo XIX”.


domenica 26 Giugno 2022

Nel lungo periodo

Sul NiemanLab – sito di informazione sull’innovazione nei media che discende da un’istituzione dedicata e che citiamo spesso su Charlie – uno dei responsabili Joshua Benton ha descritto e provato a spiegare una creativa offerta di abbonamento che il Washington Post ha proposto nei giorni scorsi (tra le molte creative offerte di abbonamento che in questi tempi stanno sperimentando i giornali digitali di mezzo mondo): 50 anni a 50 dollari all’anno, senza aumenti, annullabile quando si vuole. Intutivamente può non sembrare un’idea proficua per il giornale: un prezzo bloccato e tutto sommato moderato per mezzo secolo è probabilmente meno di quanto costerà un abbonamento – se esisteranno ancora gli abbonamenti – già tra dieci anni.
Ma, spiega Benton, la proposta ha altri obiettivi: comunicare il Washington Post come un’istituzione solida che sarà ancora qui nel 2072 e che è qui da un pezzo, a differenza della maggioranza dei maggiori siti di news; comunicare anche la stabilità della sua proprietà e la sua coerenza, in tempi in cui brand famosi cambiano editore e indirizzi con una certa frequenza; limitare la quota di cancellazioni (il “churn”, il problema maggiore dei giornali con gli abbonamenti digitali) con un’offerta economica conveniente e che non suona saggio abbandonare.
(l’offerta è terminata dopo pochi giorni)


domenica 26 Giugno 2022

L’Espresso via da GEDI a luglio

Il settimanale L’Espresso , di cui tre mesi fa era stata decisa la vendita da parte dell’editore GEDI, concluderà il passaggio al nuovo editore all’inizio di luglio. Lo ha scritto il comitato di redazione in un comunicato riportato dal sito Prima Comunicazione .
” La direzione generale di Gedi ha appena informato il cdr della definizione delle date del passaggio di proprietà. Essendo arrivata la nota “golden power”, il 27 giugno verrà firmato il rogito per il passaggio a Espresso Media, che però avrà validità dal primo luglio. Quindi dal primo luglio non saremo più in Gedi.

Da un punto di vista logistico, la sede della redazione milanese cambia il primo luglio. La redazione romana invece può restare ancora in via Cristoforo Colombo fino al momento dell’effettivo trasloco che la nuova proprietà conta di completare entro luglio. (Le due proprietà hanno trovato accordo affinché possiamo restare nel palazzo fino al 31 luglio, ma il trasloco dovrebbe comportarsi prima di questa data)”


domenica 26 Giugno 2022

Progetti e bilanci di Citynews

Su Citynews , il network di siti di informazione locale che da diversi anni è un caso interessante di stabilità economica nelle aziende giornalistiche italiane e di cui Charlie ha parlato in altre occasioni, ha pubblicato un articolo il Post , raccontando anche i suoi progetti e le sue necessità recenti.

“Luca Lani, amministratore delegato e fondatore con Fernando Diana di Citynews, spiega: «Le entrate del nostro gruppo si basano al 95 per cento sugli introiti pubblicitari, e quindi in questi dodici anni ci hanno guidato logiche di pagine viste e volumi di traffico. La ricerca dei numeri è stata sempre poco compatibile con lo ‘slow journalism’, ma ora che abbiamo raggiunto una certa stabilità economica sentiamo di dover rispondere anche a un’esigenza di maggiore profondità e contesto per i nostri lettori, anche per uscire dalla nostra bolla, scoperchiare e spiegare fenomeni di cui altrimenti non parleremmo».
La nascita di “Dossier” ha anche un fattore commerciale: permetterà a Citynews di esplorare una nuova possibile fonte di ricavo, quella degli abbonamenti a pagamento per lettori più affezionati ed esigenti: sondaggi effettuati fra gli utenti (4000 risposte) hanno rivelato, racconta Lani, che esiste una crescente disponibilità a pagare per informazione online e che temi legati ad ambiente, salute e lavoro nelle grandi città possono essere fra i principali “motivi d’acquisto””.


domenica 26 Giugno 2022

Està operativo

Google News è tornato attivo in Spagna questa settimana, dopo otto anni che no.

“Sette anni fa Google News aveva sospeso il suo servizio in Spagna, dopo che il parlamento spagnolo aveva approvato una legge sul copyright che tra le altre cose prevedeva il pagamento del diritto d’autore ai giornali da parte dei motori di ricerca che mostravano anteprime dei loro articoli. Google aveva duramente criticato l’approvazione della legge reagendo con una scelta che allora era stata segnalata come esemplare di cosa sarebbe successo in tutto il mondo se gli editori avessero insistito a pretendere retribuzioni per l’aggregazione e la promozione delle loro notizie.
Le cose però nel frattempo sono cambiate, e gli editori hanno ottenuto protezioni politiche sufficienti a rendere il loro fronte molto più potente nei confronti di Google: che è scesa a patti e anzi ha rilanciato in molti paesi, proponendo proprie condizioni che non la costringessero a regole più stringenti. La stessa cosa è avvenuta anche in Spagna, dove quindi in base ai nuovi accordi Google News tornerà a funzionare “.
(da Charlie, 7 novembre 2021)


domenica 26 Giugno 2022

Pezza peggio del buco

La storia “di giornali” che ha avuto maggiori attenzioni internazionali questa settimana riguarda il Times , quotidiano di Londra la cui diffusione non è più misurata ufficialmente, ma fino a due anni fa era ancora quello con i numeri maggiori tra i quotidiani britannici “seri” (il Telegraph , il Guardian , il Financial Times , i principali).
La storia è questa: sabato 18 il Times ha pubblicato a pagina 5 un articolo di un suo noto giornalista in cui si raccontava che quando l’attuale primo ministro Boris Johnson era ministro degli Esteri nel 2018, cercò di fare assumere al ministero la donna per cui avrebbe di lì a poco lasciato sua moglie, quando fu rivelata la loro relazione, e che avrebbe poi sposato. Notizia sicuramente scandalosa e disdicevole, ma al tempo stesso diluita dentro la gran mole di notizie disdicevoli che i lettori britannici hanno letto in questi anni su Boris Johnson.
Il tratto ulteriormente anomalo della storia, infatti, non è il suo contenuto, ma il fatto che l’articolo sia stato pubblicato solo nelle primissime edizioni del Times di quel giorno, e rimosso dalle successive, e mai pubblicato online. La cosa è stata ovviamente notata e ha attirato ancora maggiori attenzioni, e per diversi giorni gli altri giornali e i lettori del Times si sono chiesti le ragioni dell’autocensura, senza ottenere risposte dal Times : si è saputo però che dagli uffici di Johnson ci sono stati dei contatti col giornale, e i commentatori sono divisi tra chi ritiene che ci siano state pressioni indebite a cui il Times ha ceduto e chi suggerisce che la notizia potesse avere delle fragilità e dei rischi legali che hanno convinto il giornale a ritirare la mano.


domenica 26 Giugno 2022

Chora e Will

Chora Media è una società di produzione di podcast italiana, nata due anni fa da un gruppo di soci tra cui Mario Calabresi, giornalista ed ex direttore dei quotidiani Repubblica Stampa , e che in poco tempo è diventata tra i maggiori protagonisti del vivace contesto dei podcast italiani, con molte produzioni diverse, e alcune di rilevante successo. Il suo modello di business, come in generale quello dei podcast , è ancora da stabilizzare, ma ha avuto grossi investimenti e sta facendo esperimenti e partnership.
Questa settimana il Corriere della Sera ha annunciato per primo che si sono infine concluse le trattative di cui si parlava da qualche mese, con le quali Chora ha comprato Will , un altro attivo protagonista delle sperimentazioni in nuovi formati di informazione e contenuti editoriali: Will produce e diffonde le sue cose su Instagram ma anche attraverso dei podcast, e ha aggregato grandi numeri di follower e cospicue attenzioni soprattutto tra i giovani, che sono il terreno su cui si muovono con più difficoltà le testate tradizionali.


domenica 26 Giugno 2022

Il semaforo di cui si diceva

Il New York Times ha raccolto un po’ di aggiornamenti sul nuovo progetto giornalistico americano più annunciato e che ha generato più curiosità nel mondo dei media americani: quello che si chiamerà Semafor ed è stato creato da Ben Smith e Justin Smith: il primo è un noto e temuto giornalista esperto di media con ricche e varie esperienze di cui l’ultima al New York Times ; il secondo già a capo dell’azienda di informazione Bloomberg.
I due hanno raccolto 25 milioni di dollari da alcuni ricchi finanziatori – annunciando di non prevedere sostenibilità economiche a breve – e cominceranno ad autunno con 30 giornalisti a Londra, New York e Washington, e in una città mediorientale o africana. Ci sarà una forma di abbonamento, ma non da subito. Gli articoli di commento e opinione saranno ben distinti, ai nomi degli autori sarà data evidenza simile ai titoli degli articoli, e ai giornalisti sarà permesso un uso libero dei loro account sui social network (tema di grande attualità nei giornali).


domenica 26 Giugno 2022

La grana Google Analytics

Google Analytics è il servizio di Google che da molti anni offre gratuitamente a chiunque abbia un sito web di qualunque dimensione la possibilità di avere – in parte in tempo reale – dati e informazioni sul traffico e le visite sul sito stesso. È un servizio usatissimo, proprio per la sua efficienza gratuita (esistono poi servizi più complessi a pagamento), con cui negli anni si sono messi in concorrenza prodotti costosi più articolati e profilati per le esigenze più complesse di aziende e progetti, e per esempio molte grandi aziende giornalistiche ormai si servono di questi ultimi, ma Analytics è ancora molto usato in tantissimi progetti di news.
Giovedì è stata resa nota una decisione del garante per la privacy italiano che mette in discussione l’uso di Analytics in Italia, anche se i suoi sviluppi sono tutti da capire: il garante ha sancito che nel caso del sito Caffeina – che era finito sotto il suo esame – l’uso di Analytics è illecito secondo le regole del cosiddetto GDPR, perché i dati degli utenti del sito vengono elaborati da Analytics sui server americani di Google, dove le norme sulla privacy sono meno stringenti. Lo spiega meglio l’articolo del Post .

“Alcuni di questi dati, come l’indirizzo IP, sono considerati informazioni personali e non possono quindi essere trasferiti dall’Unione Europea agli Stati Uniti. Nel 2020, la Corte di giustizia dell’Unione Europea aveva già definito gli Stati Uniti come un punto di arrivo non sicuro per i dati, segnalando che le aziende che li esportano e importano avrebbero dovuto adottare sistemi tecnologici e altre soluzioni per tutelare la privacy degli utenti. Il problema è che alcuni servizi, come quelli offerti da GA, difficilmente possono essere modificati per soddisfare quelle richieste”.

 


domenica 26 Giugno 2022

Che fare con TikTok

I giornali e i siti di news in tutto il mondo si stanno domandando da tempo cosa fare con TikTok: le considerazioni sono molte, ma riducendole in sintesi si tratta di capire come beneficiare di uno dei canali di distribuzione di contenuti di maggior successo nel mondo, e in crescita (al contrario del maggiore di tutti, Facebook), malgrado questo non sia pensato né usato quasi mai per la fruizione delle news, e non permetta di monetizzare la diffusione delle news. Il sito britannico che si occupa di innovazione nel giornalismo PressGazette ha riassunto la questione, e dato un po’ di numeri sulle presenze delle testate maggiori su TikTok: ad avere pubblici maggiori sono alcune reti televisive, per maggiore disponibilità di contenuti video, mentre si nota il lavoro intenso e precoce che tra le testate cartacee tradizionali ha fatto il Washington Post (il New York Times , viceversa, non usa TikTok).
L’articolo di PressGazette racconta due cose interessanti, tra le altre: che l’aggressione russa contro l’Ucraina ha creato un piccolo ma rilevante salto di attenzione sulle news anche su TikTok, e qualcosa di quella nuova presenza è rimasto, per le testate giornalistiche; e che più che i contenuti video traslati dai loro mezzi abituali (tv, YouTube) nei loro formati abituali, funzionano le mediazioni in cui – grazie anche all’aumento della durata massima dei video – le cose vengono raccontate, spiegate e riconfezionate, e la confezione si mimetizza di più con gli altri contenuti di TikTok: la riconoscibilità delle news insomma non le aiuta.

In questo senso, è interessante – ma forse spericolato – il nuovo esperimento del Los Angeles Times di creare un team di produttori di contenuti dedicati all’ engagement negli spazi social svincolato dalle priorità giornalistiche: un’evoluzione di un esistente progetto di creazione di “meme” che si chiamerà 404 e sarà distinto dal lavoro del giornale.
“Il 404 è sostanzialmente un team di innovazione incaricato di inventare continuamente nuovi generi di contenuti sperimentali. Il che significa che ci aspettiamo fallimenti e ci aspettiamo di essere sorpresi dai successi. Ci dedicheremo a ogni lancio, a ogni meme, a ogni TikTok con la speranza di imparare qualcosa. Significa anche che il lavoro del team non si allineerà sempre con i temi e le priorità del Los Angeles Times, e questo è un bene!”

Resta la questione di come si legittimi economicamente la presenza dei giornali su TikTok, che non conosce esperimenti: e al momento è trattata come un investimento di marketing del brand e della sua visibilità presso pubblici nuovi e giovani, oppure come una speranza su scelte future della piattaforma.


domenica 26 Giugno 2022

Charlie

Una pagina di un grande quotidiano italiano questa settimana era dedicata a un sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani, ma lo spazio maggiore e la titolazione riguardavano le risposte che gli intervistati avevano dato a una serie di richieste di previsioni politiche: “lei crede che l’uscita di Di Maio rappresenterà per il Movimento 5 Stelle… [il colpo di grazia, un incidente di percorso, una scossa]?”, “secondo lei quali conseguenze avrà questa scissione del Movimento 5 Stelle per il futuro del governo Draghi?”.

Se ci fermiamo a considerarle, queste sono le domande che di norma si fanno i lettori, e di cui cercano risposte sui giornali. È interessante e sintomatico che siano i giornali a chiedere le risposte ai lettori e che accolgano le loro opinioni (non su quello che i lettori sanno – il loro voto – ma su quello che possono immaginare senza particolari elementi) e ne facciano una notizia: tutto rischia di somigliare ancora a questa barzelletta . Ma soprattutto è sintomatico della sempre maggiore attitudine di molti giornali non solo a “dare ai lettori ciò che vogliono” – rinunciando alla propria responsabilità, già limitata dalla necessità di dare agli inserzionisti ciò che vogliono – ma anche a rendere sempre di più le persone ispiratrici e creatrici del dibattito: cosa che avviene per esempio con l’attingere sempre più frequente ai contenuti pubblicati sui social network, o col rendere significative esperienze normalissime (il mese scorso un quotidiano ha intervistato una persona nata il giorno in cui venne ucciso Giovanni Falcone: “Io, venuto al mondo mentre Falcone moriva”). Un po’ come è avvenuto con la moda, che ha appaltato alle “persone qualsiasi” la creatività e l’ha chiamata streetwear abdicando al proprio ruolo di guida e sapienza, l’informazione ospita sempre di più un circolo per cui le esperienze, emozioni e opinioni “normali” diventano protagoniste e tornano sotto forma di news ai loro ispiratori, che ne vengono informati, formati e a loro volta ispirati, in un doppio specchio che rischia di vedere diminuire molto le scelte diverse e le innovazioni culturali in genere. Il che non significa che non ci siano ancora momenti di leadership e innovazione culturale sui media, ma teniamo d’occhio quanto vengano rosicchiati.

Fine di questo prologo.


domenica 19 Giugno 2022

Buzzfeed news prova a ricostruire

Dopo una serie di ridimensionamenti delle sue ambizioni (con cui aveva vinto un premio Pulitzer), di insoddisfacenti risultati finanziari e di partenze di giornalisti importanti, il giornale online americano Buzzfeed News ha nominato una nuova direttrice, Karolina Waclawiak, che era già alla cultura del sito.


domenica 19 Giugno 2022

Eccetera

Linkiesta è un sito di news nato nel 2010 col sostegno di una estesa compagine di soci milanesi, che in dodici anni ha avuto periodi diversi e momenti di difficoltà economiche, ma che negli ultimi tre ha rimesso in ordine i suoi conti grazie a una serie di progetti collaterali che hanno completato i ricavi pubblicitari, di cui si era dimostrata l’inadeguatezza a sostenere il progetto da soli: il bilancio 2021 appena approvato è il primo in attivo della storia del sito. Il direttore Christian Rocca, forte soprattutto dell’esperienza precedente come direttore del magazine IL del Sole 24 Ore , ha introdotto – oltre a una formula di abbonamenti per ora marginale nelle economie del sito – un’attività di eventi pubblici e di pubblicazioni cartacee su cui ha saputo coinvolgere partner e aziende importanti, e due anni fa su Charlie avevamo raccontato i primi esperimenti sulle seconde. Gli esperimenti si sono susseguiti , e Linkiesta ha creato anche una propria casa editrice di libri, e dal prossimo venerdì pubblicherà una nuova rivista quadrimestrale di cultura e “lifestyle” intitolata Eccetera e diretta da Valentina Ardia, che al primo numero – al prezzo di 20 euro – ha già una quota promettente di inserzionisti pubblicitari.


domenica 19 Giugno 2022

Quel mare scuro

Il Secolo XIX è lo storico quotidiano di Genova, che in effetti nacque nel diciannovesimo secolo (però il giornale si chiama “Secolo decimonono”) e che nell’ultimo decennio è stato acquistato dal gruppo che possiede anche la Stampa ed è quindi poi confluito nella nuova società GEDI, insieme a Repubblica , a molte altre testate locali e altre proprietà editoriali. Negli ultimi dati di aprile ha dichiarato 26mila copie di diffusione con un calo del 14% rispetto a un anno fa, ed è il quarto quotidiano del gruppo, dopo Repubblica Stampa Messaggero Veneto (il quotidiano di Udine), e il nono tra tutti i quotidiani locali.
Dalla fusione in un’unica azienda con Repubblica Stampa , il Secolo XIX ha sofferto l’apparente mancanza di progetto lungimirante e unitario quanto le due testate maggiori ( sono tre degli otto quotidiani ad avere perso più copie in un anno, tra i primi venti per diffusione). E la redazione contesta da tempo una pretesa mancanza di visione e di risorse: lunedì ha pubblicato un comunicato rivolto ai lettori in cui dice che:

“i giornalisti del Secolo XIX sono in stato di agitazione dal 25 maggio scorso e hanno affidato al Comitato di redazione – con voto unanime da parte dell’assemblea – un pacchetto di due giorni di sciopero. Il motivo? I giornalisti, attraverso il Cdr, chiedono la sostituzione di colleghi usciti dall’azienda e non ancora sostituiti. Chiedono, inoltre, l’aumento dei compensi per corrispondenti e collaboratori i cui articoli sul web talora vengono pagati non più di 3 euro lordi ciascuno.
I giornalisti del 
Secolo XIX pretendono poi il rispetto del contratto e dell’orario di lavoro che viene quotidianamente e sistematicamente violato”.


domenica 19 Giugno 2022

Substack locale sì e no

Un anno fa Substack, la piattaforma di maggior successo per creare e commercializzare newsletter attraverso un abbonamento, annunciò i vincitori di “Substack Local”, un progetto di finanziamento da un milione di dollari per newsletter di informazione locale. I dodici vincitori rappresentavano contesti molto diversi e molto lontani: la metà dei nuovi progetti erano statunitensi, ma Substack ha finanziato anche giornalisti da Nigeria, Taiwan o Brasile. Iașul Nostru , di Alexandru Enășescu, è stato l’unico progetto europeo scelto: ha recentemente raccontato al sito britannico The Fix il bilancio di questo primo anno. Iașul Nostru è una newsletter di informazione locale sulla città di Iași (la seconda più grande della Romania) che si proponeva come strumento di servizio per i cittadini, evitando di dedicarsi eccessivamente a politica e cronaca nera. Ha ricevuto 100 mila euro per il primo anno, raccogliendo 1400 iscritti, di cui solo 80 paganti. Enășescu spiega che sarebbero necessari almeno un altro paio d’anni e una base di 5000 iscritti per rendere il tutto sostenibile, nonostante spese e dimensioni della redazione siano limitate. Alla chiusura del primo anno dovrà abbandonare il modello senza pubblicità (obbligato nel primo anno dalle regole del bando di Substack Local) per cercare sponsorizzazioni da imprese locali. Un bacino di potenziali utenti tutto sommato limitato e la barriera linguistica costituita dai menù della piattaforma in inglese (un problema per il pubblico over 50) sono alcuni degli ostacoli incontrati nello sviluppo del progetto. Altrove, a conferma che i modelli di business non sono immediatamente replicabili in realtà e contesti differenti, il finanziamento di un anno ha creato basi più solide di successo, come nel caso del Charlotte Ledger newsletter statunitense locale di taglio economico arrivata a 2100 utenti paganti e ricavi per 226mila dollari.


domenica 19 Giugno 2022

Due per uno

Abbiamo qualche arretrato particolare di convivenza disinvolta di contenuti pubblicitari e giornalistici sul Corriere della Sera , sempre per non dimenticarsi dei fattori che regolano le scelte di informazione dei maggiori quotidiani in tempi di grossa debolezza nei confronti degli inserzionisti: lo scorso 31 maggio il Corriere ospitava – accade spesso – una pagina pubblicitaria di ENI e nello stesso numero una pagina intera di intervista all’amministratore delegato di ENI (e una nuova inserzione di ENI il giorno dopo, dedicata a un evento a cui il Corriere ha dedicato di nuovo anche un ricco impegno redazionale).
Sempre lo stesso 31 maggio sul Corriere si succedevano a poca distanza un’intervista allo scrittore Paolo Cognetti con citazione del film tratto da un suo libro, e la pubblicità del film tratto dal suo libro.


domenica 19 Giugno 2022

Plagi e invenzioni

USA Today , il quotidiano americano che abbiamo citato spesso perché resta tra i più venduti ed è tra i pochi diffusi su scala nazionale, ha dovuto cancellare ben 23 articoli di una propria giornalista e ammettere che dopo un’indagine interna quegli articoli erano risultati citare fonti inventate o plagiate da altri articoli. La giornalista si è dimessa. L’indagine era iniziata dopo una segnalazione arrivata al giornale, di un’organizzazione che aveva negato di conoscere un suo presunto appartenente citato in un articolo.

Le questioni di plagio e invenzione hanno una storia ricca e drammatica nel giornalismo americano, assai più che da noi, per diverse ragioni. Una è che c’è un rigore molto maggiore e pochissima tolleranza, laddove in Italia in particolare quello che gli americani chiamerebbero “plagio” è praticato con grande frequenza, raccogliendo e usando con grande frequenza contenuti di altre testate o contenitori (alcuni giornali americani sono soliti citare anche la fonte delle notizie di agenzia, cosa che in Italia non avviene quasi mai). L’altra è che c’è un lavoro di reporting e indagine giornalistica originale, negli Stati Uniti, molto più frequente e impegnativo che qui: e quindi a quel lavoro si attribuisce un valore molto alto sia per la qualità dell’articolo sia per la necessità che venga citato quando è usato da altri articoli. Perciò ci sono diversi casi a questo proposito che sono nella storia del giornalismo americano, che sono stati raccontati, e che sono rimasti sulla coscienza delle testate coinvolte, laddove da noi circolano al massimo delle isolate accuse online senza seguito oppure delle chiacchiere interne tra le redazioni su episodi famigerati e taciuti di invenzione, o su discutibili abitudini di alcuni. Come sempre, è un problema più di cultura giornalistica, che di responsabilità dei singoli: nessuna testata italiana ha mai comunicato di avere scoperto casi di plagio o invenzione da parte di propri giornalisti.

Comunque, a proposito del caso di USA Today (che aveva già avuto un incidente simile con le parole crociate sei anni fa ), ha pubblicato delle interessanti riflessioni Kelly McBride, che si occupa di etica del giornalismo al Poynter Institute. La prima è che spesso una rivelazione di invenzioni (nella quasi totalità di casi si tratta di virgolettati e persone citate mai esistiti, o creati per adattarsi a citazioni prese da altri articoli) non è mai isolata, e che un giornalista che lo abbia fatto una volta lo avrà fatto anche altre. McBride ha poi elencato le procedure da mettere in atto da parte di una redazione in caso di segnalazioni e dubbi di questo genere:
– chiedere al giornalista se ha spiegazioni
– chiedere al giornalista “se studio e verifico i tuoi articoli posso trovare qualcosa che non va?”
– dedicarsi a controllare gli articoli del giornalista facendo ricerche su passaggi che possano apparire in altri articoli, o su fonti citate che non risultino esistere.

Un consiglio prezioso è quello di non trascurare il lavoro di “editing” degli articoli, e di non cedere alla consuetudine di questi tempi di pubblicare (soprattutto online) senza nessuna revisione o confronto  con l’autore da parte di chi coordina il suo lavoro: non solo perché si perde un’occasione di verifica o controllo su un articolo, ma anche perché l’assenza di quel confronto piuttosto che responsabilizzare l’autore può abituarlo all’idea di una minor rilevanza del suo lavoro e della sua accuratezza.


domenica 19 Giugno 2022

Cosa fare con i quotidiani in edicola

Il Fatto sta promuovendo un questionario presso i lettori per conoscere soprattutto le loro abitudini e disponibilità di acquisto del quotidiano in edicola, e ottenere informazioni utili a gestire il periodo molto “fluido” sulle vendite dei quotidiani di carta: i costi sono molto aumentati, le vendite sono diminuite e il Fatto in particolare dichiara da diversi mesi diffusioni digitali maggiori di quelle cartacee.
La questione è assai discussa in molte testate da qualche anno, da quando la sproporzione tra costi di stampa e distribuzione e ricavi dalle vendite ha iniziato a spingere diverse testate nazionali a non far arrivare più le copie in diverse regioni d’Italia: causando però così un’ulteriore diminuzione della propria capacità di promozione e presenza in quelle regioni, e anche della ricchezza dell’offerta di informazione.

Nell’ambito della stessa ricerca e sperimentazione il Fatto sta promuovendo una serie di abbonamenti scontati alle copie cartacee da ritirare in edicola, che prova a replicare quello che negli ultimi anni i quotidiani hanno fatto sul digitale: affidarsi alle garanzie di un rapporto di abbonamento piuttosto che alla incerta vendita di copie singole. L’esperimento del Fatto prevede tre “carnet” da 30, 60, e 90 copie, con un costo per copia rispettivamente di 1,20, 1,17 e 1,11 euro. Oggi il prezzo della copia cartacea singola è di 1,80 euro.


domenica 19 Giugno 2022

I quotidiani ad aprile

Sono stati pubblicati i dati ADS di diffusione dei quotidiani ad aprile, li avevamo citati domenica scorsa e qui oggi facciamo le consuete considerazioni più approfondite e aggiornate. Ricordiamo che la “diffusione” è un dato (fornito dalle testate e verificato a campione da ADS) che aggrega le copie dei giornali che raggiungono i lettori in modi molto diversi, grossomodo divisibili in queste categorie:
– copie pagate, o scontate, o gratuite;
– copie in abbonamento, o in vendita singola;
– copie cartacee, o digitali;
– copie acquistate da singoli lettori, o da “terzi” (aziende, istituzioni, organizzazioni) in quantità maggiori.

Il totale di queste copie dà una cifra complessiva, che è quella usata nei pratici e chiari schemi di sintesi che pubblica il giornale specializzato Prima Comunicazione , e che trovate qui , da cui si vedono, rispetto al mese scorso, dei piccoli cali per tutte le testate maggiori con l’eccezione di Repubblica , per cui un esiguo guadagno di copie segnalate permette di tornare a dichiararne poche più del Sole 24 Ore , che invece ne ha perse. L’altra “storia” da segnalare, tra quelle che avevamo seguito di più, è il secondo mese di calo anche per la Verità , il giornale che è stato nell’ultimo anno il maggiore successo commerciale tra i quotidiani approfittando soprattutto delle sue posizioni critiche sui vaccini e sulle limitazioni per difendersi dalla pandemia: opportunità che dall’inizio dell’anno si sta comprensibilmente riducendo. Se guardiamo i più indicativi confronti con l’anno precedente, si notano il calo del 16% delle copie di Repubblica , quello del 10% della Stampa , quello del 12% del Fatto , quello del 18% del Giornale . A fronte di una rara crescita dell’1% del Corriere della Sera , che rimane di gran lunga al primo posto.

(trascuriamo le analisi sugli andamenti degli sportivi, che sono stati su un ottovolante in questi due anni, per via delle incertezze legate allo svolgimento delle competizioni, e da cui fin qui sembra riprendersi solo la Gazzetta dello Sport )

Come facciamo ogni mese, vale la pena considerare un altro dato più indicativo della generica “diffusione” che abbiamo descritto qui sopra: lo si ottiene sottraendo da questi numeri quelli delle copie gratuite o scontate oltre il 70% e quelle acquistate da “terzi”, per avere così un risultato relativo alla scelta attiva dei singoli lettori di acquistare e pagare il giornale. Ottenendo quindi questi numeri (tra parentesi la differenza rispetto a un anno fa):
Corriere della Sera 185.370 (-6%)
Repubblica 116.995 (-23%)
Stampa 83.608 (-10%)

Resto del Carlino 64.844 (-10%)
Sole 24 Ore 61.563 (-16%)
Messaggero 51.834 (-8%)
Fatto 44.458 (-17%)
Nazione 41.946 (-13%)
Gazzettino 37.586 (-9%)

Giornale 31.295 (-20%)
Verità 31.041 (+21%)
Rispetto al mese passato perdono più di tutti Corriere della Sera (3.800 copie), Stampa (1.300) e Verità (1.400).
Altri giornali nazionali:
Libero 19.184 (-15%)
Avvenire 17.144 (-6%)
Manifesto 13.108 (-10%)
ItaliaOggi 9.457 (-16%)

(il Foglio Domani non sono certificati da ADS).

Quanto invece alle altre copie comunicate dalle testate come “diffusione”, le cose notevoli – che spiegano le discrepanze tra i due conti – sono:
– Corriere Sole 24 Ore hanno una quota molto alta di copie digitali scontate oltre il 70% del prezzo: 47mila e 35mila, dietro di loro c’è Repubblica che ne ha 15mila.
– per il terzo mese Repubblica Fatto hanno dichiarato un calo anche delle copie digitali rispetto al precedente (nel caso di Repubblica con il prezioso travaso di una quota di abbonamenti scontatissimi verso quelli a sconti minori).
– il Manifesto rimane ottavo per copie digitali (ne indica più del Giornale e della Gazzetta dello Sport ), pur essendo 39mo nel totale, e si avvicina al settimo posto del Messaggero .
– Avvenire comunica ben 60mila copie “multiple pagate da terzi”, ma ne conta 5mila in meno – cartacee – rispetto al mese scorso.
– anche il Sole 24 Ore ne indica una quota eccezionale, 22mila, perdendone 4mila rispetto a marzo.
– delle 17mila copie dichiarate da ItaliaOggi , 4mila sono copie “promozionali e omaggio”, ovvero quasi un quarto, ma la quota si è ridotta negli ultimi due mesi.
– gli altri quotidiani che dichiarano più copie omaggio sono Avvenire (più di 20mila), Messaggero Gazzettino .
– i giornali che conteggiano oltre 5mila copie “digitali abbinate agli abbonamenti cartacei” (ovvero duplicate nel conteggio totale) sono Corriere della Sera (15.800), Sole 24 Ore (14.200) , Stampa Avvenire .

Avvenire, Manifesto, Libero ItaliaOggi sono tra i quotidiani che ricevono contributi pubblici diretti)


domenica 19 Giugno 2022

Un utile promemoria da chi sa di cosa parla

L’analisi del Reuters Institute è interessante anche per quel che non riguarda l’Italia, naturalmente. Per esempio indica quale sia la credibilità attribuita dai lettori britannici ai tabloid del loro paese, che spesso i maggiori quotidiani italiani utilizzano come fonti affidabili e senza nessuna verifica. Il Daily Mail , il più famoso e il più citato (che persino Wikipedia ha deciso qualche anno fa di dichiarare non utilizzabile come fonte) è ritenuto credibile da meno di una persona su quattro tra quelle intervistate. Il Sun da appena il 12%.


domenica 19 Giugno 2022

Una mappa di che aria tira nel mondo

Il Reuters Institute – che è un autorevole istituto di ricerca legato all’università di Oxford e sovvenzionato dal gruppo editoriale internazionale Thomson Reuters – ha pubblicato un suo ricco report annuale sullo stato del giornalismo digitale. Lo trovate qui e raccoglie molti dati e sondaggi sul tema e sulla percezione dei lettori (una piccola ma buona sintesi in italiano è stata fatta sulla newsletter Ellissi ). Tra le varie rilevazioni pubblicate negli spazi dedicati ai singoli paesi ( qui un riassunto delle cose italiane, con gentili parole per i risultati del Post ) ci sono le percentuali della fiducia dei lettori nei confronti di alcune delle testate di ciascun paese, scelte dall’istituto: accompagnate da una nota che spiega come “solo le testate qui sopra sono state incluse nell’indagine, che quindi non va considerata come una classifica di quelle ritenute più affidabili”, nota che alcune testate citate non hanno preso molto in considerazione.
Questa invece è la frequenza di uso di alcune testate dichiarata dagli intervistati.


domenica 19 Giugno 2022

E sulla differenza tra Facebook e Google

Sui temi di cui sopra e su alcuni loro aspetti, è efficace tradurre un passaggio della lunga ricostruzione che ne ha fatto Joshua Benton su NiemanLab , il sito della Nieman Foundation che si occupa di innovazione nell’informazione.

“A onor del vero, Google e Facebook hanno fatto grossi assegni agli editori per anni. La Google News Initiative e il Facebook Journalism Project (i rispettivi fondi per sostenere progetti giornalistici, ndr) hanno pagato agli editori di tutto il mondo centinaia di milioni di dollari. Ma decidevano Google e Facebook a chi darli, per cosa, e quanti. Lo hanno fatto per bontà d’animo? No, per PR, un tentativo di far desistere gli editori e i loro governi da scelte più severe.
Ma poi l’Australia le ha fatte, le scelte più severe. I leader del paese hanno approvato una legge che, di fatto, chiede a Google e Facebook di distribuire mazzette agli editori australiani. La dimensione di quelle mazzette deve rimanere un segreto, ma devono essere grosse abbastanza da far contenti gli editori.
Potete pensare che sia una descrizione ingenerosa della legge australiana: e ok, l’Australia dice che si limita a chiedere a Google e Facebook di impegnarsi in “trattative” con i maggiori editori del paese per determinare il giusto compenso per… permettere ai loro articoli di raggiungere più persone? Il risultato è che Google e Facebook sono stati costretti a sedersi a un tavolo con gli editori e dire loro “20 milioni e smettete di lagnarvi? 30 milioni? Ok, facciamo 50 milioni?”.
Sono trattative senza senso, che non hanno nessuna relazione con un’idea di valore o di beneficio, legate a un prodotto laterale e minore (le brevi anteprime degli articoli, ndr) che nessuno usa se non la ricerca di Google e il News Feed di Facebook.

Ho scritto più volte perché ritengo – malgrado il mio desiderio che gli editori ricevano dei soldi – che il modello australiano sia una pessima idea. Potete essere d’accordo o no.
Ma in ogni caso per i giornali ha funzionato. News Corp, l’azienda di Rupert Murdoch, riceverà bonifici mensili da Google e Facebook per un valore di 50 milioni di dollari ogni anno, solo per le sue testate australiane. È la cifra che le due società hanno ritenuto adeguata a interrompere le decennali lamentele di Murdoch. La minaccia di interventi del governo – compreso il sequestro del 10% dei ricavi delle piattaforme in Australia – è bastata a mettere in moto questa macchina”.

“Google invece ha bisogno delle news. Non quanto gli editori pensano, per carità, ma è un bisogno comprensibile. Ha bisogno di news aggiornate nei risultati delle ricerche, se vuole “organizzare l’informazione del mondo”. Google ne ottiene valore: non tanto valore economico in dollari, ma in qualità delle ricerche, soddisfazione degli utenti, e altro. Ora, Google potrebbe sostenere (e io sarei d’accordo) che quel valore lo ottiene attraverso il diritto al “fair use” e senza violare nessuno dei diritti degli editori o degli altri produttori di contenuti. Google ottiene valore da ogni sito internet, e non c’è nessuna buona ragione per cui gli editori debbano avere un compenso speciale che nessun altro riceve. Ma è un valore sufficiente a suggerire a Google di distribuire un po’ di soldi in giro.
Ma Facebook? Facebook ha cercato di sbarazzarsi delle news per anni. Perché finanziare con centinaia di milioni di dollari editori di contenuti che sta cercando di rimuovere dai suoi feed? Gli editori a volte pensano a Google e Facebook come a due cose intercambiabili e come a un’unica montagna di soldi. Ma hanno interessi diversi. Google ha protestato contro la legge australiana, ma quello che ha minacciato di staccare la spina alle news è stato Facebook. Quindi non deve sorprenderci che Facebook metta in conto di smettere di pagare. Deve tagliare i costi. Ha distribuito centinaia di milioni di dollari per mettere a tacere gli editori, e ora editori di altri paesi hanno trovato il modo di chiedergliene molti di più. Se i bonifici non hanno funzionato, perché continuare a farli? E se pensi di smettere, perché non rimuovere anche il pretesto e ridurre al minimo le news sulla tua piattaforma?”


domenica 19 Giugno 2022

Ancora su Facebook e Google

Le notizie per cui Facebook starebbe ritirando i suoi accordi che con varie scuse offrono grossi contributi economici ad alcune grosse aziende giornalistiche internazionali sono state molto discusse in queste settimane. Ne avete letto spesso qui, della questione, ma ci perdonerete se per chiarezza e per i nuovi arrivati facciamo un po’ un riassunto spiccio.

Da alcuni anni Facebook e Google propongono agli editori di giornali (soprattutto grandi, ma Google in misure più piccole anche a certi più piccoli) accordi che si risolvono sempre in “vi diamo dei soldi senza che voi dobbiate fare niente, o quasi niente”: la ragione è che si tratta di una scelta considerata – a seconda di chi ne parla – una via di mezzo tra “una manovra di pubbliche relazioni” e “una corruzione”. Google e Facebook hanno da un certo punto in poi temuto la capacità dei media di diffondere una narrazione (in parte fondata e in parte pretestuosa) per cui le piattaforme starebbero distruggendo la sostenibilità economica del giornalismo e la sua qualità: narrazione che è preoccupante sia per i suoi effetti sull’immagine delle piattaforme – indebolita da molte altre accuse in questi anni – sia per la capacità dei media di trasmetterla alle istituzioni legislative dei diversi paesi e ottenerne interventi contro le piattaforme stesse. Da qui la soluzione di andare dagli editori più grandi e potenti e offrire loro dei compensi che Google e Facebook potessero decidere e controllare, indebolendo così le campagne contro di loro.
La cosa ha funzionato solo in parte: è vero che gli editori più grandi sembrano avere attenuato le loro campagne sulla pretesa violazione del diritto d’autore, ma soltanto attenuato. E in diversi stati si sta diffondendo lo stesso la possibilità che nuove leggi costringano Google e Facebook a obbedire a nuove regole di compensazione economica per i giornali: è già successo in Australia, sta succedendo in Canada e Regno Unito, si fanno passi e se ne discute in altri paesi.

Intanto Facebook ha fatto alcune valutazioni da cui risulta che le news di fatto non gli servano: da una parte le risorse e l’attenzione si stanno spostando tutte verso il metaverso e verso la competizione con TikTok su contenuti di quel genere. Dall’altra i dati dicono che agli utenti di Facebook le news interessano molto meno. Il caso di Google è diverso perché i contenuti di informazione sono invece una parte più rilevante della sua offerta e del suo servizio. Così Facebook sta pensando di mollare i giornali, sia nella sua promozione dei loro contenuti attraverso i propri algoritmi, sia nei contributi economici.


domenica 19 Giugno 2022

La cornice delle notizie

Negli scorsi mesi in diversi spazi online anglofoni di discussione sul giornalismo si è parlato e discusso di ” framing ” delle notizie: ovvero del contesto in cui i giornalisti inseriscono le notizie che danno – come le “incorniciano” – trasformandole in occasioni per mostrare aspetti più estesi e rilevanti della notizia stessa. Un esempio fatto spesso è l’alternativa se descrivere l’ennesima strage da armi da fuoco come una storia terribile e particolare avvenuta in un determinato posto e compiuta da una tale persona, oppure incorniciarla nella questione della facilità di possesso delle armi, o di intolleranze razziali o bigotte, o di deriva della partigianeria politica, o altro. Il “framing” non è necessariamente una scelta che arricchisce una notizia: esistono notizie che in effetti non raccontano altro che se stesse, storie pazzesche o interessanti nella loro eccezionalità; altre volte metterle in un contesto può generare letture diverse a seconda di quale contesto si scelga. Spesso, nell’informazione italiana, si preferisce anzi dare spazio a letture e contesti che rendano la notizia più allarmante o coinvolgente – in cui i lettori trovino qualcosa che li riguardi – anche quando queste letture sono pretestuose o non sufficientemente argomentate. Non sempre una notizia ha ragioni per essere “framed” (un incidente molto singolare in un aeroporto inglese è una storia terribile e particolare, o concorre a descrivere il “caos negli aeroporti”?), a volte si esaurisce in se stessa. Ma per i lettori è utile saper distinguere il valore sia di una storia che di quello che suggerisce più estesamente, e saper giudicare i due aspetti anche separatamente.

Fine di questo prologo.


domenica 12 Giugno 2022

Cavarsela da soli

ABC, la rete televisiva pubblica australiana, ha comunicato ai suoi giornalisti che d’ora in poi il lavoro di ricerca e archivio sulle notizie e sulle storie di cui si occupano dovranno farselo da soli, e che 58 figure professionali di archivisti e ricercatori saranno abolite: rimarrà uno staff più ridotto, al servizio di trasmissioni di reporting e d’inchiesta più approfondite, ma non del lavoro sulle news quotidiane. Lo stesso varrà per la ricerca e la scelta dei contenuti musicali da usare nei servizi.


domenica 12 Giugno 2022

Bono che non lo erano

C’è un piccolo incidente che ha coinvolto molti giornali grandi e piccoli, e che è utile per mostrare la rimozione di qualunque forma di verifica e dubbio nella trasmissione delle notizie tra il loro finire sotto gli occhi di una redazione e il loro finire pubblicate. Un “sosia” di Bono, il cantante degli U2 (ovvero una persona che gli somiglia, e che esalta e sfrutta questa somiglianza), si è mostrato in giro per Bologna facendosi fotografare da chi veniva ingannato dalla somiglianza. L’inganno si è esteso abbastanza per fare arrivare le foto su tanti siti di news e giornali di carta, che evidentemente avevano visto le immagini sui social network, con la notizia che “Bono è a Bologna”.
(una volta svelato l’errore, molti degli stessi giornali hanno poi riportato l’ingenuità di altri, trascurando di analizzare la propria e quel che insegna sulla necessità di maggiori filtri e responsabilità di verifica, o di maggiori cautele nel pubblicare).


domenica 12 Giugno 2022

Cose di famiglia

Sono scelte a cui il rapporto italiano tra quotidiani ed editori ci ha abituato, ma non per questo da considerare “normali” rispetto al ruolo, all’autonomia e al rapporto con i lettori, quindi continuiamo a citare e a considerare il significato degli esempi frequenti di “cessione di indipendenza” come questi: sabato Repubblica ha dedicato tutta la pagina di apertura della Cultura e metà della successiva alla ammirevole collezione della Pinacoteca Agnelli, “l’istituzione presieduta da Ginevra Elkann”, ovvero la sorella del proprietario di Repubblica John Elkann.


domenica 12 Giugno 2022

Coi podcast ancora fanno i soldi in pochi

Il visibile successo dei podcast degli ultimi anni, e anche di quelli che riguardano l’informazione e le testate giornalistiche, ha ancora due grandi incognite. Una è la reale misura di questo successo: i numeri reali degli ascolti dei podcast continuano a essere abbastanza misteriosi e difficili da elaborare con esattezza, e ci sono molte impressioni che siano meno grandi di quello che suggerirebbero le attenzioni sul formato. La seconda incognita è quale possa essere un meccanismo stabile e affidabile per renderli sostenibili economicamente o farci dei soldi. Al momento le possibilità teoriche principali sono tre: una è metterci dentro della pubblicità, ma i numeri non consentono ancora di venderla a prezzi significativi, né di costruire sistemi di gestione automatizzata e universale delle inserzioni (come accade con la pubblicità sui siti web); una è trovare degli sponsor e delle aziende che vogliano associare il proprio brand ai podcast, ma questo implica quasi sempre cedere spazi di autonomia editoriale, ed è comunque un sistema non “scalabile”, da ricostruire con fatica e con poche garanzie ogni volta; l’ultima è quella finora più remunerativa nei limitati casi in cui si concretizza, ovvero farsi pagare dalle grandi piattaforme che diffondono podcast e che sono sempre interessate a contenuti che attraggano ascoltatori e potenziali abbonati (un po’ quello che da anni sta succedendo con Netflix, Prime, eccetera, che sono diventate produttrici e acquirenti di film, serie tv, documentari). Ma quest’ultima opportunità riguarda appunto solo i podcast che diano garanzie di grossi numeri alle piattaforme.
Un quarto modello di ricavo, meno frequentato ma che citiamo perché è quello che riguarda il Post , è quello indiretto di produrre podcast per incentivare gli ascoltatori a partecipare al sistema di abbonamenti: sia nel caso in cui i podcast siano ascoltabili solo dagli abbonati, sia nel caso in cui siano accessibili a tutti e permettano di raggiungere nuovi potenziali abbonati futuri.

Questo contesto ancora tutto da consolidare (c’è chi ha parlato persino di una ” bolla “, che può essere una definizione accettabile se con essa si intende una parziale sopravvalutazione: l’interesse nei podcast in una sua misura esiste eccome) è stato confermato dai conti rivelati questa settimana da Spotify a proposito dei podcast.
“Nel 2021 il business dei podcast su Spotify ha generato circa 200 milioni di ricavi, con un aumento del 300% sull’anno precedente, ma con un bilancio in perdita del 57% e un’attesa di perdite ancora maggiori nel 2022. Nel primo trimestre del 2022 Spotify ha ottenuto ricavi solo dal 14% dei podcast sulla propria piattaforma”. Spotify ritiene comunque che i guadagni dai podcast possano superare quelli dalla musica nel giro di cinque anni.


domenica 12 Giugno 2022

I fatti liberati dalle opinioni

Il più grande editore di giornali degli Stati Uniti si chiama Gannett, ne abbiamo parlato altre volte, e pubblica insieme a moltissime testate locali il quotidiano a diffusione nazionale USA Today . Durante una presentazione interna che ha coinvolto responsabili editoriali di molte delle testate di Gannett, questa settimana, è stata annunciata la proposta di ridurre lo spazio dedicato alle opinioni sui rispettivi giornali: “I lettori non vogliono che diciamo loro cosa devono pensare. Non ritengono che abbiamo competenze per spiegare a nessuno cosa pensare sulla maggior parte delle questioni. Ci percepiscono come portatori di pregiudizi partigiani” e le pagine delle opinioni e degli editoriali “sono le meno lette e di frequente sono la ragione della cancellazione degli abbonamenti”.
Il quotidiano Arizona Republic , per esempio, ha deciso che pubblicherà la sezione delle opinioni solo tre giorni alla settimana. Il tema della diffidenza dei lettori per gli articoli di opinione, e della loro difficoltà a separare questi articoli più personali dal lavoro della redazione, è stato molto discusso negli ultimi anni in cui il giudizio e le reazioni dei lettori si manifestano con grande insistenza sui social network.


domenica 12 Giugno 2022

Un piccolo sviluppo sulla sede del Corriere

La storia è quella della vendita della storica sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano, che trovate riassunta qui sul Post. Mercoledì la Corte d’appello di Milano ha respinto i ricorsi di RCS, l’editore del Corriere della Sera che vendette la sede e poi ci ripensò, contro due decisioni già avvenute a favore dell’acquirente Blackstone, condannando RCS anche al pagamento di 258mila euro di spese processuali. La situazione quindi resta la stessa, situazione nella quale si attende il giudizio americano sul risarcimento chiesto da Blackstone per la perdita di guadagni seguita alla causa intentata da RCS.
La questione era anche stata più volte raccontata da Charlie:
” RCS vendette nel 2013 al fondo americano Blackstone, mantenendo in una parte degli immobili la redazione del Corriere della Sera , in affitto (la Gazzetta dello Sport fu invece spostata nella sede principale di RCS, nella periferia nordest di Milano). La vendita aiutò le casse di RCS in un momento di grosse difficoltà, ma fu molto contestata dai giornalisti del gruppo.
Quando pochi anni dopo Urbano Cairo divenne azionista di maggioranza e sostanzialmente “editore” del gruppo, decise di contestare quella vendita (era il 2018) sostenendo che fosse stata fatta a condizioni svantaggiose a cui RCS sarebbe stata costretta dalle sue difficoltà (RCS avrà presto pagato in canone di affitto più di quanto ricavò dalla vendita). Il procedimento legale avviato da Cairo (una richiesta di “arbitrato”) interruppe così una nuova trattativa di vendita dell’immobile alla società Allianz da parte di Blackstone (che ne avrebbe ottenuto un ricavo doppio, generando i risentimenti di Cairo): e Blackstone quindi presentò a sua volta negli Stati Uniti una denuncia contro Cairo con una enorme richiesta di danni”.


domenica 12 Giugno 2022

I giornali li decidono gli uomini

Rolling Stone ha pubblicato un articolo sulla questione della esigua quota di donne nei ruoli direttivi dei giornali italiani, di cui Charlie si è occupato spesso, ascoltando i pareri di tre giornaliste.

Di azioni pratiche parla anche Francesca Milano: «La soluzione è semplice: gli editori dovrebbero nominare più donne direttrici e i direttori dovrebbero nominare più donne vicedirettrici e caporedattrici. Non è difficile, basta farlo. Chi lo ha fatto dice che la cosa funziona, fidatevi. Penso a Stefania Aloia, vicedirettrice di Repubblica, Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere: sono per me due grandi ‘best practice’ da imitare».


domenica 12 Giugno 2022

Citynews alza lo sguardo

Citynews è il network di decine di siti di news locali (riconoscibili perché in una cospicua parte si chiamano col nome della città seguito da “Today”) che è stato in questi anni uno dei maggiori successi commerciali dell’informazione digitale: nelle classifiche a cui partecipa risulta sempre nelle prime posizioni superando tutte le più note testate giornalistiche nazionali.
La sua sostenibilità economica si deve a un lavoro accorto ed esperto sulla raccolta pubblicitaria e sullo sfruttamento dei suoi meccanismi online, e i siti di Citynews sono rimasti finora estranei al modello di business che è sembrato più promettente in questi anni, quello legato agli abbonamenti e a forme di pagamento da parte dei lettori.
Per creare una prospettiva in questa direzione Citynews sta lavorando da alcuni mesi alla costruzione di una nuova redazione dedicata a contenuti giornalistici di maggiore qualità e maggiore respiro, progetto che ha annunciato questa settimana, dandogli il nome di “Dossier”.

“Il progetto vede coinvolti 11 giornalisti investigativi che affiancheranno le attuali redazioni di Roma e Milano e che si dedicheranno interamente a Dossier, abbracciando un nuovo modo di fare informazione, maggiormente incisivo e basato sui dati – dichiara Luca Lani, CEO Citynews –. Ovviamente, lavorando a progetti investigativi dedicati ai problemi delle due città più importanti del Paese, le nostre inchieste assumeranno, molto spesso, interesse di carattere nazionale […] Questo nuovo canale – conclude Lani – entrerà a far parte di un servizio più ampio che Citynews ha pensato per i propri lettori. Un’offerta che si concretizzerà nelle prossime settimane in un pacchetto abbonamento indirizzato agli utenti più affezionati e che sveleremo presto in tutti i suoi dettagli”.


domenica 12 Giugno 2022

I quotidiani ad aprile, brevemente

Rimandiamo le consuete maggiori analisi sui risultati mensili dei quotidiani a Charlie di domenica prossima: per ora ci limitiamo alle sintesi pubblicate dal sito specializzato Prima Comunicazione. Che mostrano, rispetto al mese scorso, dei piccoli cali per tutte le testate maggiori con l’eccezione di Repubblica, per cui un esiguo guadagno di copie segnalate permette di tornare a dichiararne poche più del Sole 24 Ore, che invece ne ha perse. L’altra “storia” da segnalare, tra quelle che avevamo seguito di più, è il secondo mese di calo anche per la Verità , che è stato nell’ultimo anno il maggiore successo commerciale tra i quotidiani approfittando soprattutto delle sue posizioni critiche sui vaccini e sulle limitazioni per difendersi dalla pandemia: opportunità che dall’inizio dell’anno si sta comprensibilmente riducendo.

Se guardiamo i più indicativi confronti con l’anno precedente, si notano il calo del 16% delle copie di Repubblica , quello del 10% della Stampa , quello del 12% del Fatto, quello del 18% del Giornale. A fronte di una rara crescita dell’1% del Corriere della Sera, che rimane di gran lunga al primo posto.


domenica 12 Giugno 2022

Il guaio al Washington Post

La questione della difficoltà delle grandi testate giornalistiche nel gestire gli spazi di autonomia e visibilità dei propri giornalisti sui social network, e le recenti insofferenze dei direttori rispetto a queste autonomie negli Stati Uniti, hanno avuto nell’ultima settimana uno sviluppo spettacolare e abbastanza catastrofico sotto gli occhi di tutti al Washington Post : proprio nei giorni in cui il giornale si preparava a diffondere e ricevere celebrazioni di se stesso relative ai cinquant’anni dall’inizio dello scandalo Watergate, il momento più illustre e riverito della sua storia.

È successo che un noto giornalista del Washington Post , Dave Weigel, abbia retwittato una battuta stupida e sessista e che la sua collega Felicia Sonmez lo abbia criticato per questo con un altro tweet che più esplicitamente criticava il loro stesso giornale: “Fantastico lavorare in un giornale in cui sono permessi retweet come questo!”. Weigel è stato allora molto attaccato e ha cancellato il retweet, scusandosi scrivendo che lo aveva trovato buffo ma poi si era reso conto che no, non lo era. A quel punto un terzo giornalista del Washington Post era intervenuto per dire a Sonmez, con toni molto diplomatici e criticando il tweet di Weigel, che il suo intervento contro Weigel – che stava venendo travolto da critiche e insulti – non fosse però il modo migliore per affrontare la questione e che si fosse trasformato nell’aizzamento di bullismo e molestie personali. Sonmez aveva attaccato anche lui, la polemica era proseguita, si erano aggiunti altri giornalisti, e nel frattempo si era sviluppata con ancora maggiore intensità anche sui canali Slack interni della redazione (Slack è quel software di chat interne usato da molte aziende in tutto il mondo), con prese di posizione a sostegno di Weigel o di Sonmez o con ulteriori articolazioni.

Ma la cosa imbarazzante per il giornale era diventata la pubblica rivelazione di tensioni e insofferenze interne, in tempi in cui le testate più autorevoli ci tengono molto a rivendicare la fedeltà e la compattezza “aziendalista” dei propri giornalisti, come un ulteriore punto di orgoglio: tensioni e insofferenze interne a proposito del tema dei temi, in questi anni, quello del sessismo e del rispetto per le donne. A inizio settimana molti altri giornali e moltissimi siti di news stavano seguendo e riferendo gli sviluppi della lite. Era dovuta intervenire la direttrice Sally Buzbee per ricordare in una comunicazione interna la necessità di rispetto, di atteggiamento “collegiale” e che non fossero accettabili attacchi personali contro i colleghi. Il giornale ha quindi deciso di sospendere per un mese Weigel; e di fronte al suo insistere in critiche e attacchi su come tutto quanto stesse venendo gestito, di licenziare Sonmez. All’intrico di fattori si somma che Sonmez aveva denunciato l’anno scorso il giornale per la scelta della dirigenza di non affidarle articoli su questioni di violenza sessuale, con la motivazione che lei ne fosse stata in precedenza vittima e ne avesse parlato pubblicamente, e che il suo coinvolgimento personale la rendesse inadeguata a giudicare: scelta che il Washington Post aveva poi annullato .
Da due giorni non ci sono sviluppi ulteriori, ma è sia una storia che non andrà via né al Washington Post né intorno al Washington Post, sia una storia che non esaurirà i problemi relativi alla permeabilità tra il lavoro interno delle redazioni e le comunicazioni e notorietà dei giornalisti all’esterno.


domenica 12 Giugno 2022

Meno soldi da Facebook

Secondo un articolo uscito giovedì sul Wall Street Journal , Facebook starebbe rivedendo la sua strategia di ricchi compensi a diverse grosse testate internazionali: gli accordi, fatti per incentivare i giornali a produrre più contenuti che possano essere sfruttati anche nell’uso di Facebook senza limitazioni o paywall, saranno probabilmente rivisti o cancellati (gli esempi che cita l’articolo, di certo i più ricchi, sono rispettivamente una media di 20, 15 e 10 milioni di dollari offerti ogni anno a New York Times Washington Post Wall Street Journal).
Facebook starebbe infatti pensando di spostare le sue priorità di investimento dalle news verso i contenuti di “creators”, influencer e altri più efficaci nella competizione con piattaforme come TikTok: oltre che verso il “metaverso”. Secondo il Wall Street Journal alla decisione di disinvestire sulle news concorrerebbe anche l’insistenza degli editori per ottenere maggiori compensi attraverso pressioni che portino a leggi o interventi pubblici in questa direzione: se la ricostruzione fosse fondata, si tratterebbe di uno spettacolare fallimento – almeno per gli editori finora beneficiati – di quelle insistenze (e non è escluso che la minaccia di disinvestire possa servire come strumento di pressione sugli editori stessi).


domenica 12 Giugno 2022

Chi paga la disinformazione

Check my Ads è un’organizzazione americana che si occupa di indagare e verificare i casi in cui inserzionisti pubblicitari investono in siti e testate giornalistiche che producono informazioni false o pubblicano incitamenti alla violenza, all’odio, alla discriminazione razziale e sessista: investimenti che da una parte finanziano questo genere di informazione e le sue conseguenze, e dall’altra associano gli inserzionisti a questo tipo di contenuti, con pessimi risultati per l’immagine dei loro brand e prodotti. Questa settimana negli Stati Uniti si è parlato di Check my Ads perché ha deciso di accusare in questo senso la potente e seguita rete televisiva Fox News, e di chiedere alle aziende che la sostengono con la loro pubblicità di prendersi la responsabilità della loro scelta di finanziare una tv che “cerca di rovesciare il governo” e che ha appoggiato l’insurrezione del 6 gennaio 2021.
In anni in cui l’etica e la responsabilità morale e civile delle aziende nel buon funzionamento delle nostre società è finita molto sotto osservazione, è un’ottima idea che non le si assolva per la loro indifferenza alla disinformazione che spesso appoggiano. Anche in Italia ci sono siti di notizie, ma anche giornali di carta, che quotidianamente sobillano e aizzano divisioni e contrapposizioni pericolose, per ragioni ideologiche o di interesse commerciale, diffondendo falsificazioni della realtà: e lo fanno grazie ai soldi di inserzionisti pubblicitari che fanno come se questo non li riguardasse. Ma la “responsabilità sociale delle imprese” non si limita alle attualissime questioni ambientali o a quelle del lavoro dei propri dipendenti: riguarda anche la scelta di sovvenzionare o no gli avvelenatori di pozzi , anche nel nostro paese in cui l’avvelenamento è esteso (basti pensare ai criticati talk show televisivi: cominciamo a segnarci di chi è la pubblicità che ospitano). In mezzo a tanto greenwashing, anche un po’ di newswashing non farebbe male.

Fine di questo prologo.


domenica 5 Giugno 2022

Il Post Adriatico

Proseguendo il progetto di coinvolgimento più intenso e non solo online di abbonati e lettori, praticato da molte testate in tutto il mondo, il Post ha annunciato la quinta edizione del suo “festival itinerante” per discutere di quello che succede e incontrare i suoi lettori: la seconda che si tiene a Pesaro che si aggiunge alle tre svolte a Faenza. Tra gli ospiti, accanto agli appuntamenti del Post , Daniele Raineri, Francesco Bianconi, Vera Gheno, Maurizio de Giovanni, Chiara Albanese, Licia Troisi, Maccio Capatonda, Filippo Ceccarelli.


domenica 5 Giugno 2022

Fatto-Casellati uno a uno

Con un articolo in prima pagina del suo direttore Marco Travaglio, molto polemico e incompleto di spiegazioni e dettagli (oltre che naturalmente molto interessato) il Fatto ha riferito domenica il risultato di una causa per diffamazione contro il giornale da parte della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati: secondo l’articolo il Fatto ha ottenuto che la sentenza stabilisse che “non si vede quale sia il contenuto diffamatorio” di molti degli articoli contestati da Casellati e che negasse l’esistenza di una “campagna mediatica” contro di lei, ma ha condannato il Fatto per aver definito “bestemmia” l’espressione “perdìo” da parte di Casellati e avere usato i termini “marchette” e “minacce” riferendosi ad alcune sue iniziative, e ha ordinato un risarcimento di 25mila euro.


domenica 5 Giugno 2022

Un’altra donna al comando, negli Stati Uniti

Il secondo quotidiano di Chicago, il Chicago Sun-Times (il primo è il Chicago Tribune ) aveva concluso a gennaio il suo passaggio di proprietà a una non profit, e questa settimana ha annunciato la sua nuova executive editor , la prima donna in quel ruolo nella storia del giornale (che nacque nel 1948): si chiama Jennifer Kho ed era stata managing editor allo HuffPost e al Guardian statunitense.
(sui nomi delle cariche dirigenziali nei giornali americani, avevamo scritto qui)


domenica 5 Giugno 2022

La Verità costa

Il direttore del quotidiano la Verità Maurizio Belpietro ha raccontato martedì in prima pagina le ragioni – che i lettori di Charlie conoscono – degli aumenti dei costi per la carta dei giornali, per spiegare la decisione di aumentare il prezzo del giornale a un euro e 50 centesimi, 20 centesimi in più.


domenica 5 Giugno 2022

Qualche regola in più

Sul quotidiano la Stampa di venerdì all’interno di un articolo su un uomo che a Torino, armato di coltello, minacciava i passanti, era usata questa frase: «Ufficialmente non si può dire che è stato arrestato, perché le restrizioni imposte dalla procura sulla diffusione delle informazioni non consentono alla polizia di confermare le notizie. Bisognerebbe affidarsi a un comunicato stampa, ma il 2 giugno è festa anche per i magistrati».

La frase si riferisce al decreto legislativo entrato in vigore il 14 dicembre scorso e che regola i rapporti di forze dell’ordine e magistrati con i giornalisti. C’è il divieto, per le autorità pubbliche, di dare informazioni sui procedimenti penali. Viene consentito solo «per ragioni di interesse pubblico» ed «esclusivamente tramite comunicati ufficiali o conferenze stampa». A decidere se la notizia sia di interesse pubblico è il procuratore della Repubblica o un magistrato «espressamente designato». In pratica, se un giornalista chiama in questura per sapere se una persona sia stata arrestata, il funzionario di turno risponde che non è possibile dare nessuna informazione e che le informazioni ritenute utili saranno diffuse in un comunicato ufficiale o in una conferenza stampa, se ci sarà. Il che non significa che il giornalista non possa dare la notizia laddove riesca a verificarla ma non ne riceverà conferme ufficiali.
Il decreto legislativo, che è il recepimento di una direttiva dell’Unione Europea sui diritti di indagati e imputati, stabilisce anche che sia vietato per le autorità pubbliche indicare come colpevole una persona indagata o imputata fino a che la colpevolezza non sia accertata con una sentenza definitiva.


domenica 5 Giugno 2022

Influencer journalism

Taylor Lorenz è una nota giornalista del Washington Post che si occupa soprattutto di fenomeni e cambiamenti che riguardano i social network e le tendenze e i comportamenti online: si era fatta notare come una delle prime a trattare questi temi sulle grandi testate americane al New York Times , dove lavorava fino a pochi mesi fa. Giovedì ha scritto un articolo che ha avuto molte reazioni online a proposito del processo Depp-Heard (che ha sviluppato eccezionali reazioni online in genere). Secondo Lorenz il processo è stato il maggiore caso – non il solo, negli ultimi anni – in cui influencer o “content creator” (come negli Stati Uniti vengono spesso chiamati quelli che da noi più genericamente vengono definiti influencer, ovvero chi costruisce grossi seguiti e visibilità personali online non essendo giornalista o altre figure pubbliche) hanno scoperto e sfruttato il valore dell’aggiornare i propri lettori e follower sulle news, occupando uno spazio proprio del giornalismo, e facendolo con approcci e linguaggi molto diversi da quelli dell’informazione. Lorenz insiste anche sui guadagni che i creator hanno ottenuto dal loro presidiare le notizie sul processo, ma questo è un discorso – quanto paghi economicamente la copertura di notizie che attraggono grosse attenzioni e curiosità – che può valere anche per i giornali. Il tema forse più interessante è quello della nascita di canali e toni molto estranei ai criteri del giornalismo con cui le informazioni raggiungono un grande numero di persone, le cui opinioni si formano non attraverso informazioni sui fatti (o non solo) ma soprattutto attraverso opinioni di “informatori” senza maggiori competenze delle loro sui fatti in questione e sulla loro esposizione.

(a margine, il Washington Post ha indicato alcune correzioni di errori rispetto alla prima versione dell’articolo)


domenica 5 Giugno 2022

La condanna di Napoletano

L’ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano è stato condannato in primo grado a due anni e sei mesi di carcere per le sue responsabilità nella storia delle “copie gonfiate” al Sole 24 Ore , che abbiamo spesso ricordato su Charlie. Napoletano, che oggi dirige il Quotidiano del Sud , si è detto innocente.

“Napoletano è stato condannato per i reati di “false comunicazioni sociali” e “manipolazione informativa del mercato”: di fatto, per aver contribuito a diffondere dati falsi sulle vendite e sulla diffusione del Sole 24 Ore, per veicolare un messaggio positivo sull’andamento economico del quotidiano in modo da influenzare il prezzo di vendita degli spazi pubblicitari. Lo scambio delle “copie gonfiate” si svolse tra il 2014 e il 2016, e portò alla sospensione di Napoletano e poi alla risoluzione del rapporto col giornale nel 2017.”.


domenica 5 Giugno 2022

Ma breaking veramente

CNN è stata in mezzo a tempeste ultimamente : il suo nuovo amministratore delegato Chris Licht sta predicando un ritorno all’informazione meno battagliera e meno spettacolarizzata. Non si può dire ancora se la predicazione sia credibile o se riuscirà a mettersi in pratica, ma intanto – lo riferisce il sito Axios – Licht ha promesso un piccolo esemplare intervento, ovvero ridurre l’uso della formula “Breaking news” per indicare qualunque tipo di notizia, sia sulle sue trasmissioni televisive che digitali. L’etichetta è ormai abusata da tutte le televisioni e da molti siti di news, ed è diventata quasi irrilevante nell’attirare l’attenzione del pubblico, causando invece irritazione per la sproporzione con la misura di alcune notizie per cui viene utilizzata. Più in generale, la scelta di Licht potrebbe essere applicata a molto altro – anche in Italia – per ritarare l’enfasi e l’allarme eccessivo con cui vengono proposte e confezionate molte notizie, e che a sua volta ha generato una specie di assuefazione.


domenica 5 Giugno 2022

Sproporzione di inserzionisti

La distribuzione degli investimenti pubblicitari sui diversi quotidiani italiani da parte dei diversi inserzionisti è legata a fattori e valutazioni diverse: la principale, naturalmente, sono i numeri di lettori che ciascuna testata può vantare e che quindi l’inserzione può raggiungere; ma i giornali con più lettori ne fanno tesoro, e chiedono agli inserzionisti prezzi maggiori, quindi il costo degli spazi è un altro fattore; poi c’è la “profilazione” dei destinatari della pubblicità, che sui quotidiani è molto più generica rispetto a internet, ma lo stesso può avere un valore (per esempio per i quotidiani locali, oppure con identità e lettori più definiti, come per i quotidiani finanziari, o sportivi); infine ci possono essere ragioni di sintonia, relazioni, interessi, di un’azienda o di un’istituzione con una determinata testata, che superano le valutazioni precedenti.

Il primo fattore continua comunque a essere determinante, soprattutto in tempi in cui alcune grandi testate stanno praticando sconti eccezionali e offerte agli inserzionisti (e questo spiega come mai possa capitare di vedere con grande frequenza negli ultimi due anni brand sconosciuti, aziende molto piccole o persino commerci locali, capaci di acquistare pagine intere su grandi quotidiani). E genera una sproporzione tra i due quotidiani maggiori e tutti gli altri quotidiani: ogni giorno Repubblica Corriere della Sera hanno spazi pubblicitari su oltre metà delle loro pagine, e quelle che sono interamente occupate da un inserzionista vanno tra le sei e le dieci (anche se a volte vengono occupate con autopromozioni delle stesse testate), compresa l’ultima che lo è sempre in quasi tutti i quotidiani, perché più visibile, ambita e costosa. Se prendiamo anche soltanto la Stampa , venerdì ne aveva quattro, martedì appena due. Il Sole 24 Ore ne aveva sei venerdì, quattro martedì e due giovedì.


domenica 5 Giugno 2022

Presunzione di “Suspect”

Lo scorso 14 maggio dieci persone sono state uccise in un supermercato di Buffalo: il responsabile presunto con buona certezza è un diciottenne “suprematista bianco” che sarebbe stato motivato da razzismo e deliri cospiratori e che è stato arrestato fuori dal supermercato. Nella prima udienza in tribunale si è dichiarato “non colpevole” e secondo la legge comune agli stati di diritto sarà un processo a decidere la sua colpevolezza e a sancire la sua responsabilità. I più seri e rigorosi giornali angloamericani continuano perciò a definirlo “suspect” nei loro titoli e articoli , a vistosa differenza per esempio dai giornali italiani o dai tabloid britannici.


domenica 5 Giugno 2022

Le leggi che difendono i giornali, ma quelli grossi

Gli sviluppi degli ultimi tre anni che hanno portato in alcuni paesi occidentali nuove leggi che obbligano Google e Facebook a compensare i siti di news per la citazione dei loro contenuti, o gli accordi presi autonomamente da Google e Facebook per scongiurare le leggi, sono stati guardati da subito con timore dai più esperti studiosi delle trasformazioni nell’informazione: la sensazione è stata ed è che a  beneficiarne siano state soprattutto le aziende giornalistiche capaci di un potere di influenza maggiore nei confronti della politica e dei poteri economici. Questo timore è stato esplicitato chiaramente questa settimana da un’associazione che riunisce un gran numero di testate piccole, locali, indipendenti o digitali, in Canada: che ha diffuso un articolo per spiegare come il progetto di legge canadese che vuole replicare quello già approvato in Australia abbia molti limiti e trascuri la qualità dell’informazione che dice di volere difendere, obbedendo piuttosto alle pressioni dei grandi gruppi editoriali e alle loro richieste. E ignorando le necessità delle startup e dei nuovi progetti di informazione, oggi prioritari nelle trasformazioni del settore, a favore dei media tradizionali e delle loro necessità di conservazione di strutture spesso meno innovative.


domenica 5 Giugno 2022

Inversioni di tendenza su cui essere cauti

Simon Owens è un giornalista americano e consulente sul business dei media che ha una newsletter dedicata ai temi dell’informazione in cui questa settimana ha sostenuto che si veda già una piccola inversione di tendenza nei siti di news verso i ricavi pubblicitari a scapito di quelli che derivano dai lettori paganti: inversione che invertirebbe la precedente inversione, risalente – con sviluppi progressivi – a circa sei, sette anni fa.
La tesi di Owens è da prendere con prudenza, ma ha alcuni indizi da osservare: secondo lui tra i siti americani si starebbe notando un allentamento delle rigidità dei paywall, e questo si dovrebbe alla percezione del momento di “stanca” nella vendita di abbonamenti e alla sensazione che ci siano ancora opportunità importanti nella raccolta della pubblicità (su cui la concorrenza di Facebook e Google non deve essere data per imbattibile, dice Owens), per cui è utile non limitare i numeri di lettori con i paywall.
Quello che è di certo vero è che molti siti stanno provando a coinvolgere i lettori in programmi di registrazione senza necessariamente farli pagare, per poter sfruttare in diversi modi proficui la comunicazione diretta con i registrati: e che esistono casi interessanti di ibridi tra i due modelli, come quello del Guardian o dello stesso Post (che lavorano sul coinvolgimento motivato di “abbonati” senza chiudere i loro articoli e con una limitata offerta di contenuti e servizi “premium”), o dell’ Independent che ha appena annunciato la sua nuova app con offerte distinte per abbonati e non.


domenica 5 Giugno 2022

Fare i conti al momento giusto

Un prologo breve, questa settimana, con il quale spieghiamo la scelta di Charlie di limitare, nei mesi scorsi e nei prossimi, i resoconti sui bilanci e sui risultati delle aziende giornalistiche: quello che le aziende comunicano è infatti – anche depurato dai toni sempre positivi e propagandistici che privilegiano solo le letture promettenti dei dati – riferito sempre a confronti con il tumultuoso anno passato, in cui la pandemia aveva ancora condizionato non solo il settore dei giornali, ma tutta una serie di altri fattori che lo influenzano e che gli sono collegati, oltre che i comportamenti stessi delle persone, utenti dell’informazione. Ricadute di quelle condizioni eccezionali, e di quelle generate dalla guerra, continueranno a esserci e siamo in un periodo nuovo difficilmente paragonabile anche con gli anni precedenti alla pandemia, ma ci avviciniamo a situazioni più stabili e leggibili in cui sarà più interessante e utile valutare i bilanci nel contesto adeguato.

Fine di questo prologo.


domenica 29 Maggio 2022

Si differenzia

James Breiner, docente e studioso dell’innovazione nei media, ha dedicato la sua ultima newsletter ai risultati del Post, aggiornando rispetto a una precedente intervista col suo peraltro direttore Luca Sofri.

” Il Post illustrates a reality of media business models today. Each one has to be unique to the particular market conditions, the competition, consumption habits, and the talents of the staff, among other variables.

Il Post seems to have found its niche. In a media ecosystem flooded with inane, trivial, misleading, or false information, its value proposition is to produce trustworthy information relevant to people’s daily lives.
This value proposition is what it has in common with publications like 
Mediapart in France (investigative journalism behind a paywall) and elDiario.es in Spain (independent news with a freemium model of membership)”.